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> Lezioni di Nicoletta Tirinnanzi su Niccolò Cusano e Giordano Bruno, Appunti-trascrizione di Emanuele Pompetti
andreademilio
messagio Jan 15 2008, 01:24 AM
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Università Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara ( la Prof.ssa Nicoletta Tirinnanzi, mugellana, ha permesso la pubblicazione, e presto arriverà anche l'audio registrato da Antonio. Grazie ad Emanuele, studente studioso, già Erasmus a Tuebingen e diplomando in flauto traverso).

Filosofia teoretica Giovedi 11-10-2007

Rapporto tra speculazione cusaniana e il concetto aristotelico di stostanza

Avvicinamento allontanamento . Platone, testi sacri e aristotele.

Dotta ignoranza: strumento metodologico privilegiato per arrivare alla verità; si usa l’intelleto; strutturati secondo un maggiore e un minore, sia ad un livello empirico (basso) sia al livello intellettivo.

Cusano idividua dei punti ciechi dove l’intelletto non basta piu, ma questi punti ciechi rivelano dei punti di accesso alla metafisica.

La dotta ignoranza nasce dalla consapevolezza che solo a partire dalla conoscenza dell’intelletto che ci rendiamo conto che l’intelletto non può giungere a dei punti: ma proprio qui dove l’intelletto non funziona bene abbiamo la porta per arrivare alla conoscenza metafisica. Questa conoscenza è preclusa alla via scolastica, perché per la via dell’analogia non si giunge a Dio ma si creano delle rappresentazioni deformi.

La dotta ignoranza non è propriamente un’esperienza mistica (anche se non mancano interpr. in questo senso). Vengono però qui meno le categorie usate nella vita quotidiana, ma conoscere Dio attraverso la dotta ignoranza avviene tralasciando questo.

Non c’è misticismo se lo si intende in modo agostiniano. Potrebbe essere però un tipo di misticismo all’Origene o ai padri cappadici.

AGOSTINO.

Nei soliloquia ha insistito a piu riprese che l’uomo appare composto di due dimensioni (intellettuale e affettiva). Queste sono contrapposte nella conscenza.

L’intelletto conosce il mondo naturale, ma, osserva agostino, nella conoscenza di Dio i rapporti sono invertiti: l’intelletto si trova in scacco e diventa centrale il ruolo della volontà (spingendosi cosi dove l’inteleto non può giungere). Ecco che Agostino fornisce l’alfabeto dell’esperienza mistica; la conoscenza del divino si da come esito di un processo al quale partecipano intelletto e volontà, ma la volontà ha un assoluto primato (Passioni ecc.).
ECCO CHE L’ESPERIENZA SOMMA SI HA ATTRAVERSO LE FORZE INFERIORI CONOSCITIVE (affetto), e non superiori (intelletto).

ORIGENE:
Insiste sull’efficacia dell’intelletto, il quale sia pure in forma imperfetta è l’unica forza capace di cogliere Dio.
Questa mistica (visione di ciò che sta oltre il mondo empirico) viene ripresa nel ‘300 (Ekart): conoscere Dio attraverso un uso estremo, deformato dell’intelletto.

E CHIARO CHE CUSANO QUANDO PARLA DI CONOSCENZA DI DIO HA IN MENTE ECKART. La conoscenza intellettuale di Dio sorge paradossalmente quando l’intelletto si trova in scacco.
Es (di Eckart): Episodio biblico di quando maddalena va al sepolcro ed incontra i due angeli. La figura di Maddalena può essere interpretata quasi come un simbolo dell’intelletto umano. Abbiamo una donna, la quale cercava un corpo, e al posto del corpo trova due angeli. Spogliando tutti i veli simbolici abbiamo un essere che cerca uno e trova due. Quello che sfugge, che impedisce la piena comprensione è di non rendersi conto come il due e l’uno coincidano e non siano un’unica cosa. Maddalena non riesce a sottrarsi alla logica delle opposizioni e per questo si trova in scacco di fronte alla conoscenza del divino. Bisogna mettere in discussione le categorie intellettuali per conoscere Dio, ma questo non significa metterle da parte, bensi valorizzarle individuandone i limiti.

Questi scritti vengono ripresi ed utilizzati in modo originale da Cusano (gli scritti Eckart erano presente nella biblioteca di Cusano).
Cusano non usa però lo sfondo biblico, ma LO SFONDO MATEMATICO: ne trae l’idea della precisione assoluta e la conoscenza dell’infinito, sviluppando nel mondo sovrasensibile i concetti che l’intelletto utilizza per conoscere il mondo sensibile.
Catene di rapporti e relazioni: hanno un senso preciso se si attengono all’ambito del finito, ma altro senso se si attengolo all’ambito dell’infinito.
Le contrappozioini che si hanno nel finito non hanno senso se si passa nel finito.
CELEBRE ESPERIMENTO MENTALE CHE CUSANO INVITA A COMPIRERE: estendiamo immaginariamente gli angoli di un triangolo (quindi lati infiniti). E chiaro che un triangolo di questo genere finirà per coincidere con una sorta di enorme cerchio. In questo modo, estendendosi dal finito all’infinito, la differenza fra cerchio e triangolo svaniscono: LA DIFFERENZA DEI DUE NON ESISTE, DIVENTANO UNO.

Nella Docta Ignorantia ricorrono spesso esperimenti mentali del genere. Sarebbe forte in questo caso la tentazione a leggere questi esperimenti mentali quali uno strumento retorico per colmare vuoti argomentativi. In realtà da un punto di vista storico Cusano usa in modo del tutto innovativo una strategia di ricerca che era all’epoca tipica delle ricerche matematiche (matematica pura ed astronomia).
Dal nostro puno di vista possono sembrare queste analogie, figure simboliche ecc. MA IN REALTA CUSANO STAVA USANO UN METODO SCIENTIFICO COMUNEMENTE ACCETTATO (PER TUTTO IL MEDIOEVO E FORTEMENTE SALDO IL RAPPORTO FRA SCIENZA ED IMMAGINAZIONE: questo legame si sarebbe sciolto con la rivoluzione scientifica).

DIGRESSIONE SUL RAPPORTO TRA MATEMATICA, SCIENZA ED IMMAGINAZIONE.
Rapporto che si stringe in età antica subito dopo l’esperienza aristotelica: nel De Cielo si tenta di connettere attraverso principi rigorosi di scienza fisica quelli che erano state le intuizioni degli scienziati dell’epoca sulla formazione del mondo: Terra al centro, sfere concentriche che si muovono di moto circolare uniforme intorno alla Terra. Il de Cielo riesce a dar conto dei dati scientifici riconducendoli saldi principi di filosofia (natura degli elementi ecc.).
Ma già nel primo secolo a C il modello elaborato da Aristotele non era piu compatibile con i dati elaborati dagli astronomi: i dati osservati sembravano piuttosto indicare un’altra situazione, secondo la quale i pianeti non ruotavano secondo orbite circolari ma secondo orbite che si intrecciavano (TOLOMEO SI TROVA A DOVER SANARE QUESTI PROBLEMI: La sua teoria segnerà tutto il medioevo).
TOLOMEO E COSTRETTO A STABILIRE UNA DIFFERENZA TRA IL FILOSOFO E L’ASTRONOMO (cioè il matematico): hanno strumenti diversi.
Filosofo: deve creare catene argomentative per arrivare alla verità (questo è il suo vincolo). E da questo punto di vista Aristotele è insuperabile. Ma se questo è rigoroso e coerente bisogna spiegare perché cosi non è possibile fare computazioni astronomiche.
Astronomo: ha un compito diverso e strumenti di versi: utilizza la matematica per dare conto delle relazioni dei fenomeni concretamente osservati (ESSA LAVORA DUNQUE NON SU CIO CHE E, MA SU CIO CHE APPARE). ECCO CHE LO SCIENZIATO/MATEMATICO PROCEDE ATTRAVERSO L’IMMAGINAZIONE, CONTRARIAMENTE AL FILOSOFO CHE DEVE SERVIRSI DELLA RAGIONE (dato che la sua scienza ha come oggetto la verità).
Ecco che con questo accomodamento diventa possibile creare due sistemi che convivono pacificamente. Tolomeno elabora un modello nel quale le orbite si intersecano reciprocamente le une con le altre (per aristotele inconcepibile: la sfera eterea non poteva essere penetrata da un’altra sfera).
Immaginazione matematica: immaginare scenari possibili.

Nel 1300: Serie di studi che andarono sotto il nome di FISICA IMMAGINARIS. Mette in discussione per molti versi l’immagine stereotipata secondo cui il sapre scientifico si afferma affrancandosi dal controllo teologico, secon do un’immagine usata quando si immagina la chiesa in costante controllo dell’attività intellettuale.
In effetti le cose sono piu complicate.
Pierre Dioeme (ne “il sistema del mondo”), scienziato cattolico, afferma che il vero inizio della scienza è nel 1300, e la rivoluzione copernicana non è che una finzione letteraria.
Nel ‘300 erano diffusi gli insegnamento della fisica immaginaris: utilizzavano gli strumenti matematici vincolandoli ad un assunto teologico (se la struttura aristotelica si dà necessariamente, da un punto di vista cristiano non è cosi: DIO CREA IL MONDO LIBERAMENTE, NON DEVE SOTTOSTARE A LEGGI). Sarebbe stato possibile alla divinità creare le cose diversamente (DISCENDE DAL PRESUPPOSTO DI UN DIO ONNIPOTENTE).
Il principio dell’onnipotenza divina rendeva lecito esplorare la natura di tutti gli altri mondi possibili che sarebbero potuti sorgere dalla libera attività divina. IL CHE LASCIA AMPIO SPAZIO ALL’ATTIVITA SCIENTIFICA.
Secondo Aristotele il vuoto non esiste, ma nulla impedisce di pensare un mondo dove il vuoto esista. Ecco che viene studiato il moto dei corpi nel vuoto (pensando che questo non esistesse, quindi si studia il vuoto congetturandone la sua esistenza in un mondo immaginario possibile).
Ecco che si immagina anche un mondo in cui Dio avesse creato un mondo in cui la Terra non fosse al centro.

QUESTIO DI POMPONAZZI: “SE LA TERRA SI MUOVA”.
In questa pubblica disputa universitaria Pomponazzi propone un esperimento mentale immaginandosi un sistea in cui la Terra non fosso al centro della Terra: O IPOTESI INESISTENTE PERCHE CONTRADDITTORIA, OPPURE NON CONTRADDITTORIA (quindi potrebbe essere uno dei possibili scenari della creazione divina).
SI GIUNGE ALLA CONCLUSIONE CHE L’IPOTESI DEL MOTO TERRESTRE NON IMPLICA CONTRADDIZIONE: SAREBBE STATO DEL TUTTO POSSIBILE A DIO CREARE UN MONDO IN CUI LA TERRA SI MUOVA.

Si tratta di studi che possono apparere suggestivi in quanto si indaga su MONDI DICHARATAMENTE IMMAGINARI.

C’è un legame strettissimo dunque tra l’attività del matematico e l’immaginazione. ECCO DUNQUE CHE QUANDO CUSANO AFFERMA “IMMAGINA...” NON STA PARLANDO DI FANTASTICHERIA, BENSI UN METODO SCIENTIFICO (Cusano non invita ad abbandonarsi a divagazioni assurde). Cusano invita ad usare l’intelletto per esplorare uno stato di cose che sta al di la dell’esperienza empirica che diventa il fondamento per la nostra esperienza metafisica.

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFIA SANCISCE LA DISTINZIONE FRA IL FILOSOFO E L’ASTRONOMO. Questo processo inizia con Copernico e con il De Revolutionibus: Copernico vi propone una nuova immagine del cosmo in qui la Terra non è più al centro, bensi vi è il sole. In questa prospettiva si è sempre avvertito un forte elemento di rottura rispetto alla tradizione precedente. IN REATA COPERNICO NON FU AFFATTO UN RIVOLUZIONARIO, paradossalmente il suo tentativo fu quello di sanare il divorzio che si era creato tra la scienza aristotelica e il mondo dei matematici e degli astronomi.

Notiamo come la cosmologia aristotelico-tolemaica è bizzarra: IL COSMO ARISTOTELICO E QUELLO TOLEMAICO NON ERANO UGUALI (erano due modelli inconciliabili, ma si tenevano insieme solo grazie alla prospettiva tolemaica della distinzione fra filosofo ed astrologo). Quindi dire aristotelico-tolemaico significa aristotele e copernico, non aristotele/copernico come un tutt’uno.

Al tempo di Copernico la cosmologia aristotelica non poteva essere usata in astronomia; si trattava dunque di un sapere vero ma inefficacie, contrapposto paradossalmente ad una scienza efficace che poggiava però dichiaratamente sull’immaginazione.
ECCO CHE IL TENTATIVO DI COPERNICO FU QUELLO DI RIMETTERE IN SINTONIA MATEMATICA E VERITA: mantenere la struttura aristotelica (moti perfetti, sfere concentriche) però adeguandolo alla matematica. Egli fa questo semplicemente spostando i due elementi: mettere il sole al posto della Terra e viceversa.
Ecco che si offriva un sistema che permetteva di impostare calcoli e previsioni astronomici fondandosi comunque sulla fisica aristotelica: ECCO CHE SI HA UNA SCIENZA PRATICA FONDATA SULLA VERITA (OSSIA SU ARISTOTELE).

Ecco che però nasce un altro problema: nel momento in cui si sana la scissione, come continuare a pensare che la matematica è immaginaria (cioè: SUPPONE SEMPLICEMENTE IPOTESI). ECCO CHE ORA LA MATEMATICA RIESCE DAVVERO A DAR CONTO DELLE COSE, E NON SOLO UNA RAPPRESENTAZIONE IMMAGINARIA CHE DA CONTO DELLE APPARENZE.

Ora il matematico non usa l’immaginazione: MA AL PARI DEL FILOSOFO E IN GRADO DI GIUNGERE ALLA VERITA (RAPPORTO INTRINSECO FRA MATEMATICO E FILOSOFO).

Il de Revolutionibus (1556) è uno scritto che Copernico invia al Papa.




PADRE GIOVANNI MARIA TOLOSANI: Domenicano attivo a Firenze in un grande centro di formazione. Egli fu subito interessato della novità copernicana: egli pubblica una questio (“Commentazione”) contro copernico (SONO PRESENTI GIA TUTTE LE TESI CHE LA SANTA SEDE UTILIZZERA CONTRO GALILEO PER CONDANNARLO).
Tolosani non attacca il sistema copernicano, ma solo la pretesa di far coincidere filosofo e matematico. Egli dice a Copernico: se stai dalla parte dei matematici, allora sei come un romanziere, sei libero dalla preoccupazione della verità e puoi fantasticare come vuoi. Il problema è che dal momento in cui tu Copernico ti poni nella veste di filosofo, allora hai il dovere di restare aderente alla verità (quindi far coincidere i tuoi prinipi con quelli), perché altrimenti tu vai a caccia della verità appoggiandoti al fragile bastone dell’immaginazione, che prima o poi si rompe.
Se vuoi essere filosofo, allora devi risolvere tanti altri problemi prima: COME MAI NEL TUO SISTEMA IL FUOCO (cioè il sole) RIMANE AL CENTRO DEL SISTEMA, MENTRE NOI SAPPIAMO CHE IL FUOCO, PIU LEGGERO, SALE VERSO L’ALTO? Il moto naturale dei corpi non possiamo ignorarlo (dice Tolosani) (Terra, acqua, aria, fuoco <- ARIST. All’epoca in cui scrive Tolosani non vi era una teoria migliore). TOLOSANI DICE: SE SEI FILOSOFO DEVI SPIEGARCI COME MAI QUESTO ELEMENTO COSI LEGGERO, COME IL FUOCO, RIMANE AL CENTRO. SPIEGA ANCHE COME MAI LA TERRA, CON TUTTA LA SUA PESANTEZZA, RIESCE AD ANDARE A SPASSO PER IL CIELO SENZA RUZZOLARE GIU.
Ecco che Tolosani invita Copernico a fare il suo mestiere, E LE SUE OBIEZIONI SONO LEGITTIME (anche da un punto di vista di “fisico professionale odierno”). Tolosani dice: SE PUOI SPIEGARCI GLI ALTRI PARADOSSI SEI FILOSOFO, ALTRIMENTI NO!
Per Tolosani le ipotesi matematiche, per definizione, non possono essere aderenti alla verità.

DUNQUE: DA COPERNICO IN POI SI INIZIA A FAR COINCIDERE IL MATEMATICO ED IL FILOSOFO.
CI SARA BISOGNO DI TUTTA LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA FINO A NEWTON PER CHIUDERE I BUCHI LASCIATI DA COPERNICO (quindi rispondere alle obiezioni di Tolosani). Notiamo come il problema per noi moderni è “di definizione” (le ipotesi non possono essere vere), MA PER GLI ANTICHI IL PROBLEMA ERA ONTOLOGICO. Per noi le ipotesi hanno un contatto con la realtà, nel lessico di Tolosani invece definisce uno stato i cose che non toccherà mai la realtà.
Ecco che le osservazioni di Tolosani si rivelano interessanti quando il modello Newtoniano sarà sorpassato.


Rispetto a questo sviluppo Cusano si pone su una linea di confine: Cusano rimane persuaso che la matematica non sia la cifra privilegiata per comprendere la totalità del reale che si svela quando il concetto inizia a venir meno. Es: aumentare l’ampiezza di un angolo fino a farlo diventare un angolo piatto -> un angolo che si identifica con una retta. MA IL PUNTO E CHE RETTA ED ANGOLO, DA SOLI, NON SONO IN GRADO DI DARE RAGIONE DEL FENOMENO, BENSI E SOLO L’AZIONE CONGIUNTA DI INTELLETTO E IMMAGINAZIONE (COMUNQUE GUIDATA DALL’INTELLETTO) CHE CI SVELA L’ASSOLUTO.

L’assoluto viene definito da Cusano “massimo”, cioè contiene, se in atto, tutti i possibili. Ora è chiaro che in questo caso largomentazione di Cusano non può essere giocata su un piano qualitativo: egli vuole individuare una sorta di entità infinita nella quale sono racchiuse le cose esistenti, ma anche precedentemente esistite e futuramente esistente. Ecco che il massimo è pienezza assoluta ed anche unità. OGNI PARTE E AL SUO INTERNO NON COME IN QUANTO ELEMENTI CHE SI ADDIZIONANO, MA COME PARTI DI UN CORPO CHE VENGONO SOSTENUTI DALL’INTERO STESSO.
Il Dio in cui tutti i popoli credono (sia pure con Riti diversi), non è altro che questa unità.

ECCO CHE ALLORA CUSANO SI TROVA NEI GUAI: QUANDO EGLI METTE IN RAPPORTO QUESTO ASSOLUTO CON IL MONDO CREATO/ESISTENTE.
La teorizzazione del massimo non è altro che la spiegazione preliminare. Da questo massimo discende il mondo creato, il quale non può porsi in antitesi con il tutto, ma il mondo creato si RIVELA L’ESPLICAZIONE DEL MASSIMO, il quale, per sovrabbondanza di sé, si esplica in modo sensibile.
Gia in questo non mancano elementi problematici: la totaltà universalie discende come emanazione, o ne è creazinoe libera e volontaria? (PROBLEMA DA UN PUNTO DI VISTA DELL’ORTODOSSIA).
Secondo la logica Cusaniana, dovremmo affermare che questo “debordare di sé” è necessario (quindi senza nessuna scelta).
Questa manifestazione di sé è finita o infinita? E se finita, perché?
IL PROBLEMA DI CUSANO NON E DI ORDINE MONDANO (Chiesa che obbliga), MA CUSANO NON VUOLE RINUNCIARE AD UN PRINCIPIO CHE ORIENTA E DIRIGE TUTTE LE COSE (annullato se si pratica l’identità fra massimo e sua manifestazione). Ecco che Cusano si lascia a forzature e ad affermazioni anche capziose. (Es: l’unità universale non è finita, ma neanche infinita, perché la manifestazione non è il tutto (quindi è finita) però è espressione del tutto infinito, quindi alla fine un’espressione dell’infinito è infinita).
BRUNO PIEGHERA QUESTE IDEE IN SENSO DEL TUTTO INFINITISTICO (una manifestazione infinita dell’infinito è infinita).

Bruno coglie questi aspetti problematici dovuti agli intenti di “teodicea” cusaniana.

[PROPRIO PERCHE DIO E INACCESSIBILE ALL’INTELLETTO DIVINO, CUSANO PROPONE UN’ETICA (morale e politica) DELLA TOLLERANZA E DEL SINCRETISMO: tutto è una manifestazione della totalità. ]

BRUNO SI PONE IL PROBLEMA INVERSO ............... (rivedi 1:21:00)
Va a cozzare contro la distinzione della doppia verità (verità di ragione n= verità di fede).
Visto che la ragione umana poteva ritenere vero sia p che –p, era possibile che teologo e filosofo pensino cose opposte: l’importante è che il filosofo non scalzi l’ipotesi del teologo.
Mondo finito o infinito? Le due ipotesi sembrano alla pari. PER BRUNO PERO POSSIAMO PIUT FACILMENTE AROMENTARE CHE LO SPAZIO SIA FINITO PIUTTOSTO CHE INFINITO. (ecco che si va a colpire la tesi che doveva essere paritetica), perché se ci poniamo dal punto di vista della divinità, ogni ipotesi ha delle conclusioni diverse: sono meglio le conclusioni che si hanno sposando la tesi dell’infinità.
Infatti se il mondo è finito: o è stato creato da una causa finita (un Dio impotente) o da un Dio ozioso (che per pigrizia o malignità non si dona del tutto: QUESTA E PEGGIO, INFATTI IL BENE E PER NATURA DIFFUSIVO DI SE).

Notiamo: Cusano giudica il mondo a partire da Dio, Bruno giudica Dio a partire dal mondo. ECCO CHE BRUNO SI PONE DALL’ALTRO CAPO DELLA QUESTIONE: non parte da Dio per arrivare al mondo come fa Cusano. Facendo cosi infatti la creazione del mondo è sempre qualcosa di fantastico, di positivo, un’azione divina e quindi “buona”. Partendo però dal Mondo Bruno scardina questo assunto implicito che il mondo è comunque qualcosa di positivo
Ecco che ora non è più la bontà di Dio che garantisce del mondo, ma è il mondo che garantisce di Dio.
SARA PROPRIO QUESTO ELEMENTO QUELLO DEFINITIVO DELLA CONDANNA DI GIORDANO BRUNO.
Bruno è disposto ad abiurare alcune sue tesi (egli cerca un terreno di intesa con gli inquisitori), IL PROBLEMA FU PROPRIO NELLA MESSA A FUOCO DELLA NATURA ERETICA DELL’AFFERMAZIONE SECONDO CUI BRUNO NON PUO FARE UN MONDO FINITO: Bruno non può filosoficamente abiurare su questo punto, perché questo significa far saltare completamente l’immagine di Dio (QUINDI: O E ORTODOSSO E CALUNNIA DIO, O ESALTA DIO MA NON E ORTODOSSO). E su questo punto che Bruno si rifiuta di abiurare: PER LUI DIO CREA UN MONDO INFINITO E BASTA.
Ma dal momento che Dio pone un mondo infinito, in che rapporto stanno questi due infiniti? ECCO CHE LA CHIESA NON E D’ACCORDO, QUESTO AVREBBE SIGNIFICATO CANCELLARE LA SUPERIORITA E LA TRASCENDENZA DIVINA.
Sono dunque le categorie Cusaniano che spingono Bruno alle sue scelte.

PER BRUNO E IMPOSSIBILE L’IDEA DI UN PRINCIPIO INFINITAMENTE POTENTE CHE NON SI COMUNICHI TUTTO.

[Bruno spiega il male soltanto in rapporto al singolo, egli non ha una consistenza ontologica: le singole parti finite sono costrette a relazionarsi tra loro e quindi possono “scontrarsi”. (VEDI “LA LAMPADA DELLE TRENTA STATUE” DI BRUNO Pubblicato in Germania fra il 1587 e il 1591)].

- Perché Dio deve creare per forza in modo “razionale”? Perché vi sono dei mondi impossibili per Dio?
- COME SI CONCILIA CREAZIONISMO(libero) ED ARISTOTELISMO(necessario)?
- Aristotelico-Tolemaico:


















FIL. TEORETICA 12-10-2007


DOMANDA MIA: Come si concilia Aristotele con il Cristianesimo?
3 punti di distacco
intelletto unico
immortalità dell’anima
eternita den mondo

l’elemtento che salda è l forza speculativa del sistema aristotelico.

A partide da una serie di presupposti, il sapere si sviliuppa secono i canoni aristotelici (prinicipi di fisica e logica)E l mondelo di pensiero che conta ec.
Nessun pensiero su Dio può esimersi dal confronto con Aristotele

Vi saranno dunque forzature interpretative da parte della Chiesa u Aristotele(soprattutto in ambito teologico)

Un momento centrle è la distinzione fa agenti che operano in modo razionale e quelli in modo naturale. (via che discihude Aristotele al cristiansimo.)

Agire esseri inanimati è meccanico.
quello degli esseri animati organico (quindi razionale)

Se individuiamo in Dio un essere impersona, allora la tesi dell’eternità del mondo è l’nica perseguibile.

Ma se consideriamo un Dio persona, allora il creazionismo si giustifica.

C’è quindi una rconfigurazione del concetto della divinità aristotelica. Ma di fatto molti erano gli elementi ancora rimasti aperti

Erano stati anche oggetto di una scomunica ecclesiastica. (12xx contro un vescovo).

SI SALVA DUNQUE ARISTOTELE CONTRO ARISTOTELE. Es: la sistematizzazione ha senso in ambito teologico ma non in ambito filosofico. Ecco che numerosi prof. ala facoltà di Parigi iniziano a lavorare proprio su questo punto: non si può affermare aristotelicamente che il mondo è creato: ecco che quindi i teologi compiono una forzatura di Aristotele quando si rifanno ad esso. Tommaso nella summa teologie aveva fatto un ragionamento su base aristotelica per dare spiegazione dell’immortalità dell’anima, basandosi sui gradi di conoscenza: si va dal senso, per la fantasia, procedendo alla ragione e all’intelletto. per tommaso secondo aristotele c’era una dissimmetria tra l’attività del senso e quello dell’intelleto. Mentre il senso ha bisogno del mondo, la conoscenza intellettuale può dipanarsi da solo. Dunque per quanto ambiguo fosse stato Aristotele sul punto dell’immortalità dell’anima, diventa legittimo fare il mio ragionamento, dice Tommaso. Aristotele era stato ambiguo perché non cristiano (quindi non illuminato). L’anima può operare indipendentemente al corpo, quindi non è sottoposto alle sue leggi di corruzione.

Ecco che Tommaso gioca sull’ambiguità aristotelica; inoltre la tesi di Tommaso non può essere presentata come l’unica intepretazione aristotelica (es: Averroe aveva argomentato a favore della mortalità dell’anima). Vi è un unico intelletto, e quindi è impensabile che questo intelletto, essendo unico, sia tuttavia “molti” (nella mente dei singoli soggetti conoscienti).
Sogliata dagli elemnti contingenti, la mente del soggetto coincide con una parte (parte-tutto però) dell’intelletto universale. E una partecipazione parassitaria, dato che egli non è il tutto, ma si congiunge e vive grazie all’intelletto agente universale.
Questa tesi è improponibile per la Chiesa: su questa base anche Averroe ipotizza una vita immortale dell’anima (anche se non di tutte le caratteristiche: anche la sopravvivenza è di carattere parassitario, spogliato di tutti gli elementi soggettivi, sopravvive solo la conoscienza universale, da sempre e per sempre esistente nell’intelletto agente universale). E DUNQUE QUESTO UN MODELLO DI IMMORTALITA ASTRATTO, PERCHE NON SOPRAVVIVE L’INDIVIDUO SINGOLO, MA SOLO UN NUCLEO DI CONOSCIENZE ASTRATTE.
Inoltre l’idea stessa secondo cui le anime di tutti gli esseri umani finivano per convergere in un intelletto universale finivano per favorire il fiorire di dottrine eterodosse, che si propagarono anche all’interno della popolazione (intorno al 1200, vi furono anche degli interventi della Chiesa). Un soldato diceva: CHE IMPORTA COME HO VISSUTO, SE LA MIA MENTE UMANA SI CONGIUNGE CON L’INTELLETTO UNIVERSALE DI PIETRO? IO VIVRO CON PIETRO.
Ecco dunque che la salvezza verrebbe assicurata a tutti.

Etienne Tampier, vescovo di Parigi, condanna apertamente queste tesi (le tre tesi sopra esposte), ritenendo che fosse accettabile solo l’interpretazione di aristotele in chiave tomistica. FU PROPRIO LUI A CONIARE L’ESPRESSIONE DOPPIA VERITA. Quando i filosofi di Parigi affermarono “ma noi abbiamo parlato come filosofi e non come teologi”, egli disse: !come se vi fossero due verità”.

Ecco che nella modernità Aristotele non fu solo usato dalla vecchia filosofia contro la nuova corrente, ma molti suoi elementi furono usati dalla rivoluzione scientifica contro il vecchio modo di pensare: STRAPPARE IL SAPERE DAL SUO CARATTERE MAGICO E RICONDURLA ALL’INTERNO DELL’ORIZZONTE NATURALE E RAZIONALE. Nel ‘500 non mancano casi in cui Aristotele viene usato contro il vecchio sapere.

Es: ............ Sozzini utilizza le confutazioni sofistiche aristoteliche per mettere in discussione il dogma della trinità.

Aristotele non domina dunque solo l’asse teologico, ma c’era anche un Aristotele etico e fisico (vi sono dei recenti studi che mostrano questo addirittura nel 1500).




Torniamo alla lezione.

Dopo gli esperimenti mentali che Cusano descrive, è importante notare il ricorrere continuo di termini tipo “vedrai, vedrai”. Esprimono un paradosso (che va bene con quello della dotta ignoranza): quello del punto limite in cui “si vede quando scompare“. Es: una circonferenza che si amplia all’infinito l’arco di curva del cerchio diventa una retta. Ecco allora che il vedere corrisponde al non vedere. Infatti egli non vede più il cerchio, ma solo la retta.

Ecco che quando si rivela l’inadeguatezza dell’immaginazione (perché essa non riesce a cogliere distintamente l’attimo cruciale in cui retta e cerchio si identificano). E PROPRIO IN QUESTO MOMENTO IN CUI SI RIVELA L’ESSERE ASSOLUTO. E UN VEDERE CHE CORRISPONDE AL NON VEDERE: UN RENDERSI CONTO DI QUANTO SIANO INADEGUATE LE FACOLTA COGNITIVE UMANE; QUESTO CI PORTA ALL’ASSOLUTO.

E importante vedere come queste considerazioni non siano salti logici, ma l’effetto di una logica rigorosa e consequenziale, sviluppo delle proprietà inerenti agli enti finiti. L’esperimento mentale non fa altro che sviluppare in modo rigoroso proprietà che sono tipiche del triangolo finito

Carattere duplice della dotta ignoranza: la conoscenza dell’assoluto si dà solo nel momento cieco, ma mostra anche come questo carattere infinito non sia alieno all’uomo, ma gli sia inerente in modo potenziale (la conoscenza dell’assoluto non si pone in modo casuale, ma si fa a partire dalle proprietà finite). DA UN LATO L’ASSOLUTO SI RIVELA NEL LIMITE E NELLA FORZA DEFINITORIA DEL CONCETTO, MA D’ALTRA PARTE PROPRIO QUESTI PUNTI LIMITI SONO CONTENUTI NEL FINITO, SIA PURE COME POTENZIALITA. NON ESISTE UNA FRATTURA INSANABILE TRA FINITO E FINITO, PROPRIO PERCHE L’INFINITO E CELATO COME POTENZA ALL’INFINITO A PARTIRE DAL FINITO.

Matematica e geometria hanno dunque un ruolo essenziale.

CAP XI intitolato: La matematica è di grandissimo aiuto nell’apprendimento delle verità. [RIVEDI TUTTE QUESTE CITAZIONI]:
Notiamo come nell’esposizione vi siano delle citazioni implicite bibliche: St. Paolo scrive: le cose invisibili si manifestano attraverso quelle visibili (I epistola ai Romani), VEDI NELLA BIBBIA + LETTERA AI CORINZI: Dio lo conosciamo come attraverso uno specchio].
Queste citazioni bibliche creano come un effetto straniante: sono strappate dal contesto complessivo e quindi arrivano ad assumere dei caratteri che non collimano con il senso originario.
Per quanto riguarda la lettera ai Romani, la parafrasi è tanto fedele quanto mistificante: Paolo dice solo “il mondo visibile si manifesta in quello invisibile”, mentre Cusano parafrasa: ”il mondo visibile è specchio verace di quello invisibile.”
Vi è anche un riferimento a Mosè: Dio si rivela di spalle attraverso le sue creature. Sia Paolo che Mose insistono sul fatto che sia impossibile avere una conoscenza perfetta di Dio, mentre Cusano non insiste sulla sproporzione, ma sulla continuità.
Noi possiamo vedere Dio: nel mondo visibile contemplandolo attraverso uno specchio, dice Cusano (questo è positivo); mentre Paolo le citava solo per sottolineare come “una volta morti vedremo Dio faccia a faccia, per il momento possiamo farlo solo come attraverso uno specchio, per immagini opache”.

Perché si può conoscere Dio all’interno del mondo creato per Cusano? Dio è nascosto nel finito prima di tutto perché tutte le cose partecipano dell’infinito (prove matematiche date nei capitoli precedenti).

A questo punto Cusano utilizza il termine “complicatio ed esplicatio”: essi individuano (nel lessico matematico) due momenti del processo di enumerazione, il quale si rivelava come un’operazione di unificazione (unità molteplici, proprio attraverso il numero, ricevevano unità: nell’atto di contare entità separate venivano vincolate insieme. Se dico “8 alberi” vincolo insieme entità del tutto separate attraverso il numero “8”).
Ecco che l’atto di enumerare può individuare due momenti: da un lato con l’enumerare faccio esplicare le potenzialità (andando dall’uno ai molti), oppure con il ricondurre la molteplicità all’uno (dato che in ogni numero è presente l’uno, che è alla base di ogni numero) riduco il tutto all’uno.
ECCO CHE TUTTE LE COSE SONO RETTE DA QUESTO LEGAME DI CONTRAZIONE ED ESPLICAZIONE RISPETTO ALL’UNITA.
Ecco che tutte le cose sono in contatto con l’uno, dato che da ogni cosa possiamo afferrare l’assoluto, ma anche dall’assoluto possiamo giungere ad ogni singola cosa.
QUESTO RAPPORTO MATEMATICO, INTERPRETATO IN CHIAVE ONTOLOGICA DA CUSANO, SORGE L’UNITA ORIGINARIA ED IL TUTTO. Tutte le cose sono unificate, non disperse grazie a questo principio.

Ogni immagine sembra somigliante al modello, ma non lo è.
Ogni simbolo ha questa debolezza: non essere fedele al modello.
Quindi bisogna stare attenti: quando partiamo dall’immagine non dobbiamo avere dubbi sull’immagine (bisogna stare attenti a quali immagini scegliamo, dato che anche loro sono soggetti alla logica del maggiore e del minore, quindi sono soggetti ad un’approssimazione piu o meno fedele rispetto al modello).

Attenzione però: “l’immagine massima, coincidente con l’immagine dell’unità della natura, essa sola è fedele del tutto, non è soggetta alla logica del piu e del meno. Essa è identica al modello”. Ecco che anche Cusano implicitamente suggerisce che questa sproporzione fra immagine e modello non è insanabile: “la somma immagine è identica al modello nell’unità della natura.” (Notiamo: espressione chiara ma ambigua).
Ma cos’è quest’unità della natura? Può essere la totalità dell’Universo infinito (come dirà Bruno nel dialogo dell’infinito).
Dal punto di vista di Cusano tuttavia si tratta di salvaguardare la trascendenza divina, evitando che essa si identifichi con la natura. Per Cusano l’universo si sviluppa nel tempo, e quindi c’è comunque una sproporzione fra l’infinità divina e quella cosimica. COSI CUSANO SALVA LA TRASCENDENZA DIVINA: LA NATURA NON E L’ASSOLUTA INFINITA, IN QUANTO NON COMPRENDE NE GLI STATI FUTURI NE QUELLI PASSATI, bensi solo l’infinita attualità.

PER CUSANO L’INFINITO E CRISTO, NELLA CUI PIENEZZA SONO RACCHIUSI TUTTI I POSSIBILI (sia quelli passati, presenti, futuri e addirittura anche tutti i possibili che non si avvereranno mai). E PROPRIO SU QUESTO PUNTO CHE BRUNO ATTACCHERA LA SUA CRITICA: UNA DIVINITA CHE NON SI DA TUTTA O E CRUDELE O E OZIOSA, QUINDI O IL COSMO NON E DIVINO OPPURE ESSO LO E A TUTTI GLI EFFETTI.

Ecco comunque in che senso dobbiamo stare attenti a scegliere le nostre immagini per conoscere il divino: l’immagine dell’unità della natura. Notiamo inoltre come è la matematica a poter cogliere questa unità.

Un albero non rimarrà mai albero in quanto la metamorfosi continua è necessaria al dispiegarsi della potenzialità di ogni cosa.
Sembra dunque che vi sia un disordine, in cui tutto muta. MA PER CUSANO LA MATEMATICA E IN GRADO DI ORDINARE QUESTO MUTARE, E QUINDI E ATTRAVERSO ESSA CHE POSSIAMO CONOSCERE L’INFINITO.

Notiamo: Cusano parte da San Paolo e dalla sua teoria della conoscenza come “immagine”, poi parla del “nucleo”(?), ossia l’immagine scelta, e poi giunge alla matematica.
CONCILIA COSI LA TRADIZIONE PAOLINA E QUELLA NEOPLATONICA (che vuole esprimere il cosmo e la divinità attraverso la matematica).
Tutto il capitolo ha una struttura chiastica: alla fine del testo vi è un’eco della citazione iniziale (i Numeri) che ora acquista un senso del tutto diverso: conoscere per simboli/enigmi non significa più che si conosce in modo impreciso, ma significa semplicemente che si conosce Dio attraversi i simboli matematici.
La conoscenza di Dio è dunque legata alla capacità di padroneggiare la matematica.

CI SI POTREBBE CHIEDERE: visto che la divinità può essere afferrata solo nel momento limite, che fine fa la teologia positiva? Che senso ha ragionare di Dio se esso si rivela soltanto nel suo svanire, nel suo nascondersi.

Ecco che ora Cusano deve spiegare questo. Dovremmo dire che la teologia non ha più valore?

A questa domanda Cusano dedica il cap. XXIV: cioè il rapporto fra dotta ignoranza e teologia positiva.

Cusano osserva: si può dire sia che Dio sia che Dio non sia. Se dico dio è, allora affermo che esso sia l’essere assoluto. Ma se dico dio non è, allora non sbaglio: egli è anche non essere in quanto non si identifica con le cose esistenti, quindi rispetto alle cose finite egli si identifica sempre con l’alterità, quindi possiamo dire che esso si identifichi sia con il tutto che con il nulla (si identifica con tutto ciò che esista e con nulla di ciò che esista). In questa prospettiva, è giusto continuare a fare teologia positiva?

[Cusano non può essere considerato un teologo negativo a tutti gli effetti, in quanto non avrebbe senso tutto il discorso della dotta ignoranza, in cui si conosce Dio razionalmente (sia pure spingendo le capacità razionali al limite)
Come Eckart: MADDALENA, TROVANDO IL DUE INVECE DELL’UNO, CREDE DI AVER FALLITO, DI NON VEDERCI BENE, PERCHE NON CAPISCE, DAL SUO PUNTO DI VISTA UMANO, CHE IL DUE POSSA ESSERE UNO].

CAP XXV: si parla sul nome di Dio e la teologia affermativa/positiva:
“E evidente che nessun nome può convenire al massimo” (qui abbiamo spunti di teologia negativa)
Dando un nome alle cose, già distinguo delle cose: com’è possibile fare quest’operazione sul divino, che è uno e tutto? Dovremmo al limite chiamarlo Uno e Tutto ecc.
Quest’operazione del nome non può essere applicata a Dio.
Dionigi l’Aeropagita: se dici che Dio è verità, significa che non è falsità, se dici che è sostanza, allora non è accidente ecc.

Cusano: i nomi affermativi, se convengono a Dio, gli convengono solo verso le creature.
Definire Dio da un lato è un atto che limita dio, ma ciò non significa che sia sbagliato, proprio perché essi esprimono non la divinità, ma la RELAZIONE CHE C’E TRA DIO E LE CREATURE -> RISCOPERTA IN POSITIVO DEL NOME: ESSO NON ESPRIME L’ESSENZA DI DIO (INEFFABILE), MA LA RELAZIONE TRA DIO E IL CREATO (ogni ente dell’universo è sempre in relazione con la sua esplicazione).
ECCO CHE LA TEOLOGIA AFFERMATIVA HA UN SENSO: NON ESPRIME L’ESSENZA MA IL RAPPORTO FRA CREATORE E CREATURA.

Tutto il riscatto che Cusano compie della teologia affermativa è compiuta proprio alla luce della categoria aristotelica più debole (quella della relazione, che per Aristotele stava all’ultimo grado).

I nomi esprimono una relazione: Bruno interpreta questa intuizione in una prospettiva del tutto nuova.
Nello Spaccio della bestia trionfante (1525) egli riprende questi ragionamenti cusaniani per insistere sull’immanenza di Dio. Il Dio di Cusano non ha a che fare con l’uomo, è un Dio perennemente nascosto. Allora tanto più utile sarà la ricerca dei modi di Dio, in modo che attraverso la natura si possa entrare in rapporto con l’assoluto, con la divinità.

QUESTI DUE TESTI (CUSANIANO E BRUNIANO) VANNO LETTI PARALLELAMENTE, perché si vede bene come sia Bruno legga attentamente Cusano, ma quanto anche lo critichi.











17-10-2007 Filosofia teoretica

Ultima volta: abbiamo esaminato il primo libro del de docta ignorantia (vi è presentata la teologia affermativa). E imp. perché spesso Cusano viene presentato come un’esponente della teologia negativa: non è errato, ma va tematizzato perché assolutizzarlo non è esatto.

Teologia negativa: ha le sue fonti più amate negli scritti di Dionigi l’Aeorpagita (sono i testi preferiti di Cusano per la teologia negativa?). La conoscenza di Dio si dà solo quando i concetti finiti entrano in crisi. Questo legittima il cusano teologo-negativo, ma non del tutto. Cusano corre su una linea più sottile: Cusano vede una sorta di terreno di confine attraverso una linea di riferimento che percorre teologia affermativa e negativa, delineando un territorio non omogeneo.

La teologia affermativa ha per Cusano un limite: rischia di diventare idolatria. Ma anche la teologia negativa ha un limite: quello di scivolare in un indeterminismo a tutto campo, di trasformarsi in una narrazione piuttosto che in un atto conoscitivo: ECCO CHE LE DUE TEOLOGIE SI TENGONO A VICENDA.

Partiamo dunque dalla teologia affermativa (cap XXVI). Cusano muove dalla messa a fuoco del rapporto strettissimo fra il linguaggio e l’attività della ragione.
Secondo Cusano è la ragione(facoltà della mente umana che procede creando giudizi di carattere quantitativo, creando insiemi omogenei nei quali esso associa o allontana gli elementi che gli si presentano) che assegna nomi. Nella creazione del nome si genera un procedimento analogo: la ragione crea ilnome per disinguere un ermine rispetto agli altri: esso sancisce dunque la finitezza della cosa. ‹‹I nomi sono imposti per una cerca capacità distintiva di ragione.›› C’è dunque sproporzione rispetto al piano metafisico, dove tutte le cose sono uno.

Ermede Trismegisto: ‹‹poiché Dio è tutte le cose, a lui non conviene nessun nome, altrimenti bisognerebbe chiamarlo con tutti i nomi›› (sembra accentuare l’inefficacia della teologia affermativa. Questo passo di Ermede viene citato da Cusano).

“Ascolta Israele (cioè che vede Dio con l’intelletto), il tuo Dio è uno”. Citazione dell’esodo ripresa da Cusano, ma parafrasata con la parentesi (è una delle tante traduzioni proposte, ma è indicativo che Cusano scelga proprio questa variante della traduzione, che contiene la parola ‹‹intelletto››).

DIFFERENZA FRA RAGIONE ED INTELLETTO: LA RAGIONE SI MUOVE NEL FINITO, MENTRE L’INTELLETTO E LA FACOLTA CHE RIESCE, SIA PURE IN MODO IMPERFETTO, LA FACOLTA DELLA RAGIONE.
La ragione è caratterizzata dal movimento (facoltà discorsiva), che procede da una cosa all’altra.
La ragione ha il fine di distinguere le cose, e non è capace di andare contro i contraddittori: “non c’è nome al quale non si opponga un altro nome nell’ambito della ragione”. Per la ragione è impensabile che una stessa realtà sia definibile in un modo e nel modo opposto. Ecco che la ragione è costretta a seguire le leggi della logica aristotelica (del terzo escluso).
NONOSTANTE TALI LIMITI CORRISPONDANO AD UNA DEFORMAZIONE DEL DIVINO, ESSI NON POSSONO ESSERE CONSIDERATI FALSI: CUSANO PARLA DI NOMI CHE SONO INADEGUATI E CHE CONVENGONO SEMPRE IN MODO DIMINUITO. Essi non sono falsi perché si limitano a cogliere Dio non nella loro essenza, ma nelle relazioni che Dio stabilisce con le sue creature. Il nome utilizzato dalla teologia affermativa è dunque inadueguato, non falso: non tocca l’essenza divina, ma il rapporto che sussiste fra Dio e l’uomo.

[IL LAVORO STORICO FILOSOFICO CONSISTE IN QUESTO: NOI DOBBIAM VEDERE QUALI MATERIALI ABBIA USATO L’AUTORE. IL FATTO CHE L’AUTORE ABBIA CITATO TALI FONTI NON E SCONTATO. L’IDENTIFICAZIONE DELLA FONTE CI FA CAPIRE QUALE TRADIZIONE L’AUTORE HA DI FRONTE, MA L’UTILIZZO DELLE FONTI E SEMPRE FUNZIONALE AL PENSIERO].

Posto che tutte le teologie affermative sono inadeguate, e posto che esse illustrano un modo particolare distinto del modo in cui Dio si manifesta all’uomo, esiste in Cusano un criterio per stabilire valori maggiori o minori di una verità divina? Si può creare una scala gerarchica fra teologie diverse? NO, PERCHE SE OGNI TEOLOGIA SI RADICA SULL’ESPLICAZIONE, SIGNIFICA CHE VI SONO INFINITI MODI DI PARLARE DI DIO (Cusano ha scritto anche scritti irenici), TUTTI SBAGLATI(perché incompleti) MA TUTTI VALIDI. Non bisogna cercare la concordia religiosa perché la pace è preferibile alla guerra, ma perché filosoficamente non è possibile una scala di valori fra le diverse teologie: tutte parlano della medesima verità.

Per Cusano la teologia negativa è sottratta al dovere della coerenza, proprio percé essa procede sottraendo, rischia di scivolare nell’indistinto, mentre la teologia n
positiva segue delle regole (struttura argomentative ). se,re o madegiata. ,a a im fpmda,emtp do vert.
Le teologie non fanno altro che catalogare, irrigidire ciò che già nella realtà si è distinto.

Testo irenico di Cusano. Si racconta che un uomo (Cusano, il quale aveva visitato in giovinezza Costantinopoli), saputo del crollo dell’impero d’oriente, inizio a meditare sull’evento, finché non ebbe una visione.

L’INIZIO (DELLA VISIONE) E UNA MOSSA RETORICA CLASSICA, CHE RICALCA LE EPISTOLE DI PAOLO, DOVE DICE DI ESSERE STATO RAPITO AL CIELO E DI AVER AVUTO LA VISIONE DI DIO.
E tuttavia esclusivamente cusaniana l’attenzione di cusano ad eliminare la forza della grazia: c’è un rapporto fra il lavoro dell’intelletto e la visione, non si tratta di una visione passiva/regalata da dio. (infatti dopo molti giorni di meditazione Cusano ha la visione). Certo Dio è fondamentale, ma “forse” non è stato secondario (anzi, magari fondamentale) il lavoro dell’intelletto.
Cusano vede un gruppo di defunti che invocano Dio chiedendogli di mettere fine alle guerre.
Un arcangelo risponde: “ma tu o signore sai che gli uomini devono essere diversi, e non tutti cercano la tua conoscenza, per cui tu hai posto profeti che hanno istruito il popolo e il mondo, istituendo leggi”.

Vediamo come Cusano si muove all’interno della tradizione neoplatonica, e prende le distanze dalla tradizione mistica. Tutta questa linea viene dal commento ad Aristotele e ad Averroe.

Tutto questo materiale viene da Averroe, e dalla distinzione che egli nel commento alla fisica di Aristotele elabora: egli osserva che la perfezione dell’uomo è nell’attività intellettuale e che la differenza fra un uomo perfetto ed un uomo che non si è dedicato all’intelletto è la stessa differenza che intercorre fra il vero uomo e la statua dell’uomo (riprende un’idea della metafisica).
Questo incipit di Averroe è stato interpretato a sua volta: l’umanità si divide fra coloro che hanno raggiunto la perfezione attraverso le scienze e coloro che non erano giunti a questo traguardo, i quali erano uomini soltanto in senso equivoco (erano realtà ontologicamente distinte). I perfetti (i sapienti) erano i veri uomini (coloro che praticavano la virtù), erano gli unici in grado di regolarsi (di agire moralmente), di saper distinguere fra il bene ed il male, fare il primo ed evitare l’altro. Questa scissione influenzerà tutto il seguito (fino al Novecento, che distingue fra masse e leader).

Quelli che saggi non sono devono essere educati alla convivenza civile. La religione era per Averroe di educare gli uomini non sapienti (per questo era importante).

Essere saggi per Averroe significa aver compreso che la perfezione sta in una vita vissuta secondo l’intelletto (quindi vivere secondo virtu) ed evitare di fare il male (significherebbe spogliarsi della propria razionalità e decadere in uno stato animalesco).
La religione diventa dunque lo strumento per educare alla vita morale. Questa tesi nel Seicento diede vita alla TESI DELL’IMPOSTURA DELLE RELIGIONI (Nome dell’opuscoletto che inaugura questa tesi, attribuito al povero Campanella, il quale dalle prigioni scriveva per discolparsi: De tribus impostoribus: i tre impostori sono Mose, Cristo e Maometto): ora ritenute una costruzione a tavolino dei Re per educare i popoli.
Per Averroe il profeta è un emissario della provvidenza divina: quindi per Averroe la religione non è un’invenzione. Difficilmente un Sovrano può imporre una religione: tutte nascono da segni straordinari (i miracoli), che nessuno può crearli (perché coinvolgono numerosissimi individui). Per Averroe la religione è parte della provvidenza divina, che permette al meccanismo dell’universo creato da Dio. Cosi come vi sono le stagioni, Dio ha predisposto la storia che periodicamente sorgessero profeti e religioni per educare i vari popoli. Questo deriva da un assunto aristotelico che recita: nel mondo sublunare tutto nasce, cresce e muore. Ecco che anche le religioni nascono, crescono e muoiono, quindi Dio deve suscitare ciclicamente profeti e religioni. QUINDI PER AVERROE TUTTE LE RELIGIONI SONO UGUALMENTE VERE ED UGUALMENTE FALSE.
Queste idee averroiste sono riprese nell’opuscoletto irenico letto dalla Tirinnanzi in classe, sopra illustrato.

Ma notiamo come cusano usi il materiale averroista dal punto di vista delle Sue teorie: CUSANO NON FA RIFERIMENTO ALLA RADICALE DISSIMMETRIA DELLA SPECIE UMANA (che pur è presente nel pensiero averroista). Per Cusano non vi sono differenze ontologiche fra gli uomini, tutt’al più culturali. Cusano sottolinea soltanto l’importanza degli infiniti profeti e delle infinite religioni in quanto infinite manifestazioni di Dio. QUELLO CHE PER AVERROE ERA UN RAGIONAMENTO ANTROPOLOGICO DIVENTA IN CUSANO UN RAGIONAMENTO ONTOLOGICO. Per Cusano non si tratta di rinnovare corpi che muoiono, ma di rinnovare una divinità che non potrà mai essere colta da un’unica teologia. Soltanto un infinito numero di teologie positive potrebbero cogliere l’infinità divina.
Tutto questo è fondato in Cusano sulla distinzione fra esplicato e complicato. Per Cusano non esistono tante religioni, ma una religione in una varietà di riti (solo che per “riti” Cusano intende anche i dogmi, non solo le manifestazioni esterne).

Bruno dirà: ‹‹tanto vale un uomo tanto vale una formica nell’assoluto››. PER CUSANO QUESTO NON VALE: L’UOMO HA UNA POSIZIONE PRIVILEGIATA PERCHE GRAZIE ALL’INTELLETTO RIESCE, SIA PUR PROBLEMATICAMENTE, A COGLIERE L’ASSOLUTO, PROPRIO NEL MOMENTO IN CUI SCAPPA.

“De pace fidei” (opuscoletto sopra presentato)
Altra perla averroista (di nuovo nel proemio della fisica): mentre i veri uomini costituiscono una sorta di società eletta, unita, non distinta fra culture e paesi, i falsi uomini invece finiscono per considerare verità ciò che è consuetudine e al difendono a costo della vita (e quindi, quando hanno consuetudini diverse, avranno anche una distanza personale). Il saggio sa valutare uno scarto dovuto ad un dettame della ragione oppure ad una consuetudine. L’uomo non saggio non può farlo.

Cusano riprende questo passo, ma ne smonta le conseguenze. Per Averroe come esistono animali che si nutrono di un cibo mortale per altri, cosi i sapienti si nutrono di un cibo mortale per i non sapienti: LA VERITA NON VA RIVELATA AL POPOLO, SAREBBE IL MASSIMO ERRORE CHE UN SOVRANO POSSA FARE. PER IL POPOLO LA VERITA E LA CONSUETUDINE. Per gli uomini in apparenza la Verità è un veleno mortale.
Ecco il discorso sulle fonti fatto prima: non è eruditismo vedere che Cusano riprende Averroe, ma è interessante vedere come lo riprende.
Per Cusano gli uomini sono tutti uguali perché sono tutti stati dotati da Dio della libertà. Tutto il saccheggi che Cusano fa di Averroe è funzionale ad una dissoluzione di Averroe.

Dopo questo ragionamento dell’’angelo (buffo, perché averroista), prende la parola Dio, dicendo di aver creato l’uomo dotato di Libertà, con la quale l’aveva reso capace di partecipare all’unione con Lui.

Dopo Pico della Mirandola (che cmq viene 50 anni dopo), questo ragionamento sembra banale, ma non lo è.

Dal punto di visto filosofico, la libertà umana è un elemento estremamente complesso. Dopo Pico della Mirandola: l’uomo è libero, al centro del mondo perché in grado di autodeterminarsi.

Ma è problematico, dal punto di vista filosofico, il rapporto fra la libertà umana e quella divina. (Vedi Alessandro di Afrodisia, Lorenzo Valla, ecc.). Nel momento in cui affermo che l’uomo è libero di determinarsi, questo potrebbe sembrare un delimitare la potenza divina. Com’è possibile che possano convivere potenza divina ed arbitrio umano? Lutero avrebbe detto che si tratta di una contraddizione in termini: o l’uomo è libero e Dio non esiste, oppure Dio esiste e allora l’uomo non è llibero.

Cusano risponde con l’assoluto e nelle sue caratteristiche: nell’assoluto cadono tutte le opposizioni (es: scompaiono le differenze fra curva e retta, ecc.). IN DIO SI IDENTIFICANO TUTTI I CONTRADDITTORI, QUINDI IL PROBLEMA NON SI PONE: ecco perché l’uomo può essere libero da un punto di vista ontologico. Dal punto di vista Luterano il fatto che x compia un’azione significa che fin dall’eternità esso era previsto e predeterminato. Questo per Cusano non vale: tutto in Dio è previsto in potenza, ma vi saranno delle cose che accadranno e altre no (io posso ora suicidarmi oppure seguire la leziono). Anche l’’atto più aberrante nasce da Dio (Cusano cerca di evitare questo tema, ma sarà ripreso fortemente da Lutero: se questo è vero, allora il male deriva da Dio. L’idea di Cusano? è quello di un Dio che si addormenta, che gira la testa e lascia che sia l’uomo a decidere cosa avverrà).

Quest’affermazione di Cusano non è dunque un’affermazione retorica, ma l’idea della libertà umana è la conseguenza di un fondamento ontologico.

Erasmo (Dio ha l’onniscenza, sa che l’uomo sceglierà “questo”, ma Dio non può fare nulla. In Dio tutto è eterno: quando Dio vede il male non può intervenire, perché esso accade sotto i suoi occhi, in Dio non vi è un prima ed un dopo. Lutero riterrà che è meno scandaloso immaginare che l’uomo è responsabile del male, piuttosto di immaginare un Dio omerico che va a banchettare, dimentica l’uomo e quando torna trova il macello.)

Per Cusano non si pone il problema di vedere perché dio ha scelto proprio questo mondo piuttosto che un altro (come farà poi Leibnitz): Per Cusano la libertà divina limita la potenza di Dio stesso, perché il mondo si evolverà secondo scelte sempre varie e sempre mutevoli dovute ai singoli.


















18-10-2007 Filosofia teoretica

Seguito ‹‹De pace fidei››.

Abbiamo visto come Cusano riprende elementi averroisti distaccandoli però dall’antropologia amara (di scissione) di quest’ultimo.

L’idea di Cusano presentava alcuni elementi problematici: posto che in Dio coesistono tutti i possibili, e posto che in Dio sono complicate una serie infinita di possibilità, che rapporto si pone fra la prescienza divina e quest’infinità di cause?

Chi determina la scelta fra queste infinite possibilità? Per Cusano la libertà umana pone un limite alla libertà divina, perché è l’uomo che sceglie, non Dio. Cusano su questo punto non era interessato ad approfondire il rapporto fra la prescienza divina e quella umana (punto successivamente ampiamente discusso). Cusano vuole solo dimostrare come dall’infinità di Dio discenda la possibilità della libertà umana (per questo non approfondisce un elemento che sarebbe poi diventato cruciale: il rapporto fra scienza divina ed azioni futuri; tema che diverrà centrale nella disputa fra Erasmo e Lutero). Lutero sottolinea come è inaccettabile l’idea di un Dio che non conosce, che non vede quali saranno le conseguenze degli uomini, e che lascia che si dannano e si salvano a loro piacimento.
Questo tema sarà contestato da due autori italiani ()noti come gli eretici del 500: sono intellettuali che non vollero schierarsi né sul versante cattolico né sul versante riformato): i sociniani. Lelio e Fausto Sozzini (due fratelli) furono due imp. rappresentanti imp. di questa “scuola”. Costoro criticarono Lutero e risposero: due insistettero sul fatto che la libertà umana pone un limite invalicabile alla prospettiva divina. DIO STESSO NON CONOSCEVA I FUTURI CONTINGENTI. DIO NON E ONNISCIENTE PROPRIO PERCHE L’UOMO E LIBERO. Solo quando l’uomo ha scelto, allora Dio sa.
nel 1710 Leibnitz pubblica la teodicea ed il de causa dei, un testo nel quale avvia una polemica estremamente forte proprio contro le tesi dei fratelli Sozzini, i quali avevano eccessivamente sminuito la grandezza di Dio. Costoro avrebbero finito per corrompere la corretta visione della divinità perché avevano separato la conoscenza divina dall’azione divina. Per Leibnitz c’è un rapporto strettissimo fra la conoscenza divina ed il dipanarsi delle varie possibilità: DIO SCEGLIE DI FAR EMERGERE UNO SOLO DEI MONDI POSSIBILI. Tutte le possibilità rimaste inespresse sono state scartate da dio perché ritenute inferiori a quella attuata.
Vediamo dunque come dalle questioni cusaniane prende corpo un dibattito secolare. Il rapporto tra L’INFINITA DIVINA E LA PRESCIENZA DIVINA RESTA UN PUNTO NON BEN CHIARITO NEL DE DOCTA IGNORANTIA, E PER QUESTO, A MAGGIOR RAGIONE, AVVIA UN DIBATTITO SECOLARE. (SEGNA SUL TESTO: SE ALL’ESAME VIENE CHIESTO QUESTO PASSO, BISOGNA SPIEGARE TUTTA LA TIRITERA: PUNTO NON CHIARITO, AVVIO DIBATTITO SECOLARE, ECC.).
Questo punto dimostra che fra la potenza divina ed il mondo esplicato c’è un’eccedenza di potenza/Dio che non viene mai risolta nel mondo, proprio perché la libertà umana mette un limite all’esplicarsi delle potenze radicate in Dio.

QUINDI L’UOMO E LIBERO PERCHE SI RADICA SULL’INFINITA DELLA SOSTANZA DIVINA.
Questa libertà viene accentuata nel de pace fidei, ma si regge sulle premesse del de docta ignorantia. De pace fidei può essere visto come una traduzione degli effetti che il de docta ignorantia provoca: PER QUESTO I DUE TESTI SI ILLUMINANO A VICENDA.

La pace della fede presenta l’uomo dotato di libertà, con la quale Dio l’aveva unito strettamente con lui. L’unione con Dio diventa l’effetto di una scelta (non un destino), ed è imp. perché pone Cusano in un punto preciso del dibattito rinascimentale sul tema della dignità dell’uomo.
Noi possiamo individuare due grandi modelli di dignità umana: l’una fondata sull’uomo al centro del cosmo (?), l’altro innestato sulla libertà umana.
Primo concetto: Marsilio Ficino ne fu il massimo esponente. Egli insiste sul carattere eccezionale dell’uomo (lo definisce il magnum miraculum del creato). L’uomo è un essere straordinario perché si trova ontologicamente in una posizione straordinaria. L’uomo si pone esattamente al limite tra mortale ed immortale, tra temporale ed eterno,... ha una natura anfibia perché partecipa di entrambe i mondi. è quindi la copula mundi, come dice Ficino. L’impegno politico dell’uomo, sociale, ecc. sono conseguenze inevitabili della particolare posizione dell’uomo nel cosmo: da questa posizione deriva la sua dignità, non da particolare qualità. In questo senso l’uomo è un qualcosa che esiste ab eterno proprio perché situato da dio, per ragioni precise, all’incrocio tra mortale ed immortale. Vediamo come questo modello di dignità umana discende dalla posizione ontologica occupata dall’uomo. non pone essenzialmente in risalto le scelte e le azioni del singolo: ma già in virtu del suo essere è sacro.
Seconda posizione: Cusano e Pico della Mirandola. L’eccezionalità dell’uomo non deriva dal suo destino o dalla sua posizione ontologica, ma da una QUALITA dell’uomo: DALLA LIBERTA.
Cusano costituisce la fonte di Pico. L’uomo è eccellente fra gli altri esseri proprio perché dotato di Libertà (per Cusano deriva dalla sovrabbondanza divina rispetto al mondo, mentre per Pico è dono di dio). In dio possono coesistere tutti i possibili stati di cose (che discendono da una scelta o da quella opposta), ma nel mondo della materia, determinato dal principio di non contraddizione, una sola delle possibilità è possibile, e da questo scarto discende la libertà umana. L’uomo è finito, e da questo discende la sua libertà, perché egli non può vivere uno stato di compossibilità. Dalla ifnitezza dell’omo germina la libertà umana.
Questa libertà sembra essere negata a dio, in quanto egli non sceglie, non interviene sullo stato di cose che si determineranno in seguito (dio si comunica semplicemente, per sovrabbondanza). Proprio perché l’uomo è libero egli ha la possibilità di percorrere in senso inverso il cammino dell’esplicazione e cercare di afferrare quell’infinito dal quale egli è germinato (quindi di ricongiungersi a Dio).

Abbiamo visto secondo Cusano Dio invia i profeti. Ma dal momento che quest’attività si mostra poco incisiva ad istruire gli uomini, si dà l’incarnazione. E interessante vedere come Cusano enuncia questo dogma: “e per questo il verbo si rivestì d’umanità per illuminare l’uomo, la cui .... è educabile.” Notiamo come Cusano non parla di salvezza dalla schiavitù del peccato, mentre Cusano parla di educazione dell’uomo (illuminazione). Questa CONCEZIONE PEDAGOGICA dell’incarnazione porta di nuovo l’accento sul tema della dignità umana. L’uomo è libero perché si radica sulla potenza divina, e proprio perché libero può essere spinto a tornare a Dio: il momento più alto di questa “spinta” è l’incarnazione. L’incarnazione constite nell’offerta di un modello affinché l’uomo compia un percorso che è già nelle sue forze.
Cusano ripercorre la stessa tessitura concettuale dell’inizio della dotta ignoranza (parliamo del de pace fidei), quando cusano dice che l’uomo ha le capacità di portare a termine il proprio fine (che nel de pace fidei viene individuato nella vita eterna, definita da Cusano come verità).
L’incarnazione ha un valore eminentemente pedagogico “... [Cristo si è incarnato] affinché nessun uomo potesse dubitare...”. La volontà divina illumina ed illustra la libertà umana. (notiamo come di nuovo vengono usati i termini “illumina” ed ‹‹illustra››).
“...Tu fin dall’inizio hai decretato che l’uomo godesse di una volontà libera” <- veicola il concetto di dignità umana.

Il processo di ricongiungimento a Dio dev’essere libero e di persuasione, non imposto in modo dogmatico. Questa prima parte del de pace fidei mostra come il suo intento di cercare un terreno di intesa per far convergere tutte le religioni non è ispirato ad un generico pacifismo, ma è consustanziale alla posizione filosofica di Cusano (Ficino?).
E vero che la libertà umana limita Dio, ma è anche vero che è questa libertà che permette all’uomo di tornare a Dio.
Ecco che lo studio delle varie religioni, lo studio dei diversi nomi di dio, permette di capire Dio: ogni nome ha la sua ragion d’essere, che illumina un particolare aspetto delle relazioni istituite fra Dio e l’uomo.
Questa varietà non significa secondo Cusano disordine, Caos, a si tratta di un processo di esplicazione unitario che può esser percorso a ritroso.
Nessuna setta religiosa si trova nella falsità, ma tutte si trovano nell’incompiutezza. Ogni setta si fonda dunque solo sulla teologia positiva (perché si fonda sui nomi attribuiti a dio).

[MA CRISTO VIENE COSI SVALUTATO? ALLORA COME MAI CUSANO ERA UN CARDINALE E PERCHE NON L’HANNO BRUCIATO SUL ROGO? notiamo come il discorso su Cristo è presentato all’interno di un’azione pedagogica, e questa scelta non è una scelta strutturalmente irreligiosa o eretica, perché affonda le sue radici in un’illustre padre della chiesa, LATTANZIO. Secondo quest’ultimo, nelle “divine institutiones”, l’incarnazione di Cristo ha un ruolo pedagogico: Cristo si sarebbe incarnato anche se l’uomo non avesse peccato (lo iato fra uomo e Dio non è cosi incolmabile, per cui Cristo non è un mezzo di riscatto indispensabile). Ugualmente interessanti sono gli appellativi che Lattanzio attribuisce a Cristo: magister virtutum, esempio, guida, ecc. L’idea è quella di un’istruzione/educazione, non di un salvatore. Per Lattanzio Cristo illustra la via, non strappa l’uomo dal peccato da cui può sottrarsi.
SONO QUESTI CERTAMENTE ELEMENTI ETERODOSSI, MA SIN QUANDO QUESTI ELEMENTI NON ESPLOSERO IN QUANTO ETERODOSSI, CIRCOLARONO IN AMBITI INTELLETTUALI/ECCLESIASTICI. Questo testo di Lattanzio circolava liberamente: era regolarmente letto. Il problema si pone con la riforma: la cristianità si irrigidisce e “restano fuori” quegli intellettuali “eretici” che cercano un punto di equilibrio fra le due posizioni riformiste. Es: i sozzini. Una di queste idee è che Cristo non sancisce la discontinuità fra dio e l’uomo, ma la continuità. Tuttavia si và troppo in là: per i fratelli Sozzini Cristo era solo uomo, esempio di un iter intellettuale che ogni uomo poteva compiere. I sozzini usano tutto il lessico inaugurato da Lattanzio.
E A QUESTO PUNTO CHE STORICAMENTE LA SITUAZIONE SI INCRINA: DOPO I SOZZINI DEFINIRE CRISTO PRECETTORE E MAESTRO DIVENTAVA UNA SPIA PERICOLOSA DI ERESIA. MA CUSANO SCRIVE PRIMA DI QUESTA LACERAZIONE: IL PROBLEMA NON SI PONE.
Un eventuale censore potrebbe obiettare a Cusano il fatto che egli eguagli il cristianesimo a tutte le altre religioni. Egli avrebbe potuto dire che, seppur inadeguato, è la religione migliore.
Nella fine dell’opera Cusane si concentra sul dogma dell’eucarestia: l’idea di una sostanza che si trasforma completamente, fino a diventare la sostanza di un uomo che è morto 1400 anni prima. Questa analisi è possibile nel momento in cui i giochi erano aperti: dopo la riforma la Chiesa si irrigidisce e si scopre l’importanza di avere dei dogmi fissi ed un controllo. Dopo la riforma questo testo cusaniano non viene fatto circolare più, proprio perché troppo luterano.
VEDIAMO COME DIVENTA IMPORTANTE I LCONTESTO STORICO, ALTRIMENTI SI RISCHIA UNA SORTA DI ABBAGLIO INTELLETTUALE: DELLE POSIZIONI DEL TUTTO NUOVE SEMBRANO BANALI, E DELLE NORMALITA (PER L’EPOCA) APPAIONO A NOI EXPOITS DI INGEGNO E LIBERTA/LICENZA/LICEITA. Cusano voleva solo illuminare il dogma razionalemente (cercando di renderlo comprensibile anche a chi è abituato ad un’altra minestra, per il quale alcune tematiche possono sembrare indigeste). Una volta razionalizzato il dogma, tutti avrebbero potuto comprenderlo. Questo testo fu vietato dalla riforma perché ci si rende conto che contiene al suo interno le armi teoriche per un’eventuale teoria anticattolica].

Il ‹‹De docta ignorantia›› è del 1440.
Saggi di Fiorella de michelis pintacuda su Lutero, studiosa italiana specialista su lutero, edizione di sturia di letteratura. ha culrato l’ediizione italiana del servo arbitrio di lutero, dove ha fatto un’ampia premessa dove spiega la premessa.
Interessanti tutti gli studi pubblicati sulla collana della Claudiana.

Area tedesca, diverse interpretazioni: 1700 ha visto il Lutero razionalista, altre interpr. tragiche di Lutero nel dopoguerra (uomo scisso da Dio e abbandonato nel mondo).

In Cusano l’incarnazione si giustifica anche da un altro punto di vista: c’è un’eccedenza. Questo potrebbe far pensare che fra Dio è uomo c’è uno scarto insanabile. Per Cusano l’incarnazione di Cristo sana anche questo iato: mostra come il mondo non è abbandonato, ma è ricondotto ad unità attraverso la figura di Cristo, che ricongiunge dio e uomo/mondo. Sul piano storico invece è l’anello finale di una catena di profeti.
Ecco che quindi il mondo non è un riflesso opaco di dio: il mondo esplicato ed il mondo divino sono costantemente in contatto attraverso il verbo. Quindi dal punto di vista di Cusano Cristo è uomo e Dio, ma per ragioni squisitamente filosofiche: c’è bisogno di un legame di continuità fra Dio ed il mondo, altrimenti si darebbe discontinuità.
Cusano riprende degli elementi teologici all’interno di un ragionamento squisitamente filosofico. Però se NON consideriamo la teologia come una materia ottusa, che deve difendere dei dogmi stupidamente accettati, allora Cusano è anche un teologo.
Però la filosofia cusaniana è auto-consistente, e si giustifica anche al di fuori della dimensione teologica.

Cap. ... “I gentili hanno chiamato Dio con nomi diversi in relazione alle diverse creature”.
Può essere letto in due modi: 1. repertorio erudito di denominazioni attribuite dai pagani dell’antichità a Dio.
2. Alla luce del ragionamento del de pace fidei diventa interessante vedere cosa spinge Cusano a scrivere questo capitolo: gli interessa mostrare come anche quelle esperienze religiose che possono sembrare inconciliabili con le verità rivelate avevano in realtà valore e dignità (“essi chiamavano dio Giove in nome della sua giustizia, Venere in nome dell’amore di Dio, ecc.”), proprio perché in questo caso l’idolatria non è solo schiacciare dio all’intero nel mondo naturale, ma è il riconoscimento della presenza di Dio all’interno del mondo esplicato.
Cusano fa notare come tutti questi nomi esplicano la complicazione di quel nome ineffabile.

Il nome di dio ha dunque una sua validità, MA ANCHE UNA SUA INTRINSECA PERICOLOSITA, perché gli spiriti semplici, che non sono abituati a servirsi di immagini, sono stati ingannati e spinti all’idolatria. Non sempre però si ha idolatria: questo avviene solo in determinate epoche storiche.
L’errore accade per accidente, si finisce per dimenticare che il nome è solo un istante dell’esplicazione e lo si concepisce come entità oggettiva. C’E DUNQUE UN RISCHIO NELLA TEOLOGIA AFFERMATIVA: QUELLA DELL’IDOLATRIA (che non sempre ha il sporavvento però).

E alla luce di questo presupposto che Cusano analizza la teologia negativa, e lo fa sancendo una discontinuità netta fra il piano storico e al spiritualita.

IMP!! →Teologia positiva: arrivare a Dio attraverso il mondo esplicato; teologia negativa: arrivare a dio attraverso il mondo spirituale interiore.← IMP!!!

Senza teologia affermativa non si sarebbe nessun culto di Dio, tuttavia è necessario che questo culto sia guidato con la fede: “credendo che questo dio sia tutte le cose, si giunge a comprendere che tutte le cose sono una.”

La teologia affermativa non cresce senza i nomi, la teologia negativa germoglia cancellandoli e cercando Dio come sola unità. Senza la teologia negativa Dio sarebbe adorato come cosa finita, e non come cosa finita. La teologia negativa argina il rischio della teologia affermativa, quella dell’idolatria. (Ecco che bisogna guardare ad entrambe le teologie contemporaneamente per giungere a Dio← VERIFICA!).

Teologia negativa superiore a quella affermativa (perché conosce dio senza mediarlo tramite il mondo)?
Cusano nota anche nella teologia negativa il rischio di presentare un Dio strutturalmente inconscibile. secondo la teologia negativa dio non è conoscibile, perché ogni creatura non può comprendere il lume infinito, e Dio è noto solo a sé medesimo.
LA TEOLOGIA NEGATIVA RISCHIA DI ANNULLARE TUTTI QUEI TEMI DAI QUALI GENERA LA DOTTA IGNORANZA: RISCHIA DI RIDURRE LA CONOSCENZA DIVINA AD UN MISTICISMO SCARSO. Mentre la dotta ignoranza vuole mostrare il metodo per recuperare l’assoluto che si affaccia nel mondo umano (seppur anche proprio in quei momenti dove si nasconde: è proprio in questo momenti che l’intelletto, non l’estasi mistica, arriva a cogliere qualcosa di Dio, sia pure in modo fuggevole/imperfetto).

Ecco perché è vero che la teologia negativa è più esatta di quella affermativa (perché giunge ad enunciati che esprimono in modo più immediato dio), ma da sola non può essere fonte di conoscenza intellettuale di Dio. Le due teologie si integrano recipricamente.

“La precisione della verità risplende in modo incomprensibile[Cusano vuole esprimere una precisa facoltà intellettuale: proprio nel momento in cui il concetto si spezza, perde la sua presa sul reale, la mente umana afferra in modo incomprensibile (pk frammento di un’infinità) l’assoluto] nella nostra ignoranza. Questa è la dotta ignoranza su cui indagavamo.”: La dotta ignoranza non coincide dunque nè con la teologia affermantiva né con la teologia negativa, ma con quel momento in cui il concetto si spezza e si rivela (seppur parzialmente), dio. Quindi l’accento è messo sulla positività della conoscenza umana, non sul suo scacco.

Cusano può dunque essere considerato un esponente della teologia negativa, ma in alcuni punti se ne distacca: ritenere migliore la teologia negativa non implica un discreditamento della teologia positiva (la quale al contrario è imp. sul piano storico: essa ha un senso ed una presa che la teologia negativa non ha).

La teologia negativa inoltre sancisce una sconfitta ineliminabile, mentre la dotta ignoranza sancisce una vittoria, seppur parziale, dell’intelletto umano.

Tutto questo materiale teorico sarà ripreso e variato da Bruno ne “lo spaccio della bestia trionfante” (scritto a Londra nel 1585). Abbiamo visto come dal punto di vista di Cusano la teologia negativa si gioca sul piano interiore, mentre quella affermativa sul piano storico. Il guidizio di Bruno invece è specularmente ribaltato: bruno problematizza, fino quasi a dissolverlo, il concetto di sé, di individuo. C’è uno scarto fra l’esperienza del mondo e l’esperienza di sé. In Bruno l’idividuo come interiorità viene totalmente destituito di valore, in virtu di una diversa struttura ontologica.












19-10-2007

La dotta ignoranza riscatta dunque i limiti di entrambe le teologie (negativa ed affermativa).

Oggi vogliamo vedere come è stato letto Cusano, quali conseguenze teoretiche si possono trarre dalle sue tesi.


Cusano dopo la riforma: vediamo la lettura fattane da Giordano Bruno nello “spaccio della bestia trionfante”. Recupereremo la validità della molteplicità dei culti e della molteplicità dei nomi di Dio, ma dalla prospettiva opposta.

Lo spaccio della bestia trionfante viene composto da Bruno a Londra nel 1985 (?). Bruno presenta il disegno di una possibile religione filosofica, un obiettivo che potrebbe sembrare in sintonia con il fine perseguito da Cusano nel de pace fidei; inrealtà sono progetti che si muovono su versanti diversi.
Seguito alla riforma il mondo è scisso a causa delle religioni: per questo Bruno scrive (contrariamente a Cusano).

Iter intellettuale di Bruno prima dello spaccio: ripresa dei temi cusaniani declinati secondo una prospettiva radicale che ne aveva modificato il panorama teorico.
Il punto archimedeo del sistema archimedeo di Bruno è rappresentato dal concetto di MATERIA. Questo concetto non va inteso in senso corporeo: con “materia” egli intende la sostanza universale che fonda e produce tutti gli esseri creati (corporei ed incorporei). Si arriva alla def. di questo modello di sostanza a partire da Aristotele, attraverso il referente cusaniano, però.
E questo il progetto presentato da Bruno nel de la causa principio et uno l’anno prima dello spaccio.

La materia, aristotelicamente parlando, poteva essere distinta in due accezioni: 1 sostrato, fondamento della vicissitudine delle forme; 2. intesa come potenza, come pura possibilità di essere la quale viene determinata attraverso l’intervento dell’efficiente.
Secondo Bruno queste due accezioni risultano estremamente limitate e presentano un’intrinseca contraddizione.
Bruno muove dal concetto di nozione in quanto potenza. La materia considerata come possibilità non può essere ritenunta l’esatto contrappunto rispetto alla pienezza divina. La realtà poteva era come una corda tesa (x Arist), che parte dalla pienezza divina per finire al “non nulla” della materia (gradino ultimo).
Per Bruno le nozioni di atto e potenza risultano intrinsecamente congiunte, questo perché ogni atto (esplicazione), è possibile solo attraverso una potenza preesistente almeno altrettanto potente.
Ecco allora che la pienezza dell’atto divino si presta ad una diversa lettura: L’atto puro divino presuppone una potenza altrettanto assoluta (fin qui Bruno segue Cusano).
Bruno però si domanda: una volta posta che l’atto puro di Dio non può essere concepito separatamente da un’assoluta potenza, cos’è quest’ultima? Essa non è altro che la potenza assoluta della materia, che non è affatto la lontanza assoluta da Dio, ma è Dio: DIO E MATERIA COINCIDONO E SI IDENTIFICANO.
Bruno cita espressamente Cusano nel de la causa, ma esso rappresenta uno strappo netto con Cusano. BRUNO FA COINCIDERE DIO E MATERIA (Cusano invece era stato più articolato sul problema). La materia è coeterna a Dio e ne costituisce uno degli attributi fondamentali.

LA MATERIA BRUNIANA NON E INTESA IN SENSO CORPOREO-MATERIALISTA.
Essa è una sostanza assoluta la quale fonda sia la materia corporea(di cui constano gli oggetti fisici) sia quella spirituale (di cui constano le menti).
In Bruno si unificano i due poli che Cusnao nella dotta ignoranza aveva tenuto volontariamente distinti. Cusano ha mostrato come la potenza dell’atto non aveva nulla a che vedere con la materia: essa è contratta nell’atto (ULTIMA FRASE NON CAPITA PK MAL SCRITTA/COPIATA?).
Bruno smonta questo punto mostrando come la materia sia la sostanza del tutto.

La materia costituisce il volto labile, mobile transeunte di un unico immutabile essere: ECCO CHE MOVIMENTO E STASI, UNICO E PLURIMO VENGONO IDENTIFICATI NELLO STESSO “LUOGO METAFISICO”, LA MATERIA.

Cusano tendendo salda la diff. tra la potenza divina e la materia egli permette il creazionismo (mondo creato per un atto libero e volontario di Dio).
Nel de la Causa Bruno, unificando i due estremi, crea il presupposto per un nuovo scenario: da questa materia unica si genera necessariamente (una necessità quasi biologica), spontaneamente l’universo. Ecco che l’universo non è frutto di un atto libero di Dio, ma di un esplicarsi necessario della materia. Quelle forme che in Dio coesistono indifferenti vengono manifestati nel fluire della materia. La materia in Bruno si esplica senza alcuna logica, senza alcun progetto, senza alcun disegno.
Essere (Dio) è: materia, vita, anima, uno e buono.
Le varie manifestazioni corporee di dio sono accidenti di ente, non l’Ente, perché l’ente è “materia, vita, anima, uno e buono”.

[1. Perché l’essere è buono?
2. Perché un’azione per essere buona dev’essere bella?

Dio è potente e deve attuarlo.

Bene non è inteso in senso morale, ma la materia è bene in quanto offre il fondamento dell’essere, dell’esistenza. Proprio perché per Bruno essere e bene s identificano. Bene è la forza creativa, l’esplicarsi. La materia è bene perché esprime la pienezza dell’essere. Per Platone il bene è ciò che è diffusivo di sé. é un movimento spontaneo, intrinseco, ecc. Ma non è morale: tant’è vero che questo bene sarà a fondamento del male: proprio il fatto che le parti siano finite si ha il male, che però è tale rispetto alle parti.

Dal punto di vista platonico bellezza e bene appartengono a quei generi sommi che si trovano alla radice completamente intrecciate. ma ance i n questo caso belo no significa secondo i canoni estetici, ma adesione a quei principi di armonia e di proporzione che sono consustanziali ai principi....
VEDI MENONE, MA NON SONO CONVINTO]

Dalla visione bruniana deriva la dissoluzione di tutti quei temi umanitici della dignitas hominis: l’uomo non ha carattere di eccellenza, ma è uno degli infiniti accidenti che si affermano sul piano dell’essere. Nella prospettiva dell’esplicarsi della vita dell’essere, tutta la vicenda unama non è altro che un accidente → non è possibile pensare ad una vita ultraterrena: l’uomo è destinato ad essere riassorbito all’interno della materia, di diventare non-apparente.
Cade anche la prospettiva del Dio retributore.
Di fronte a quest’inconciliabilità con gli elementi cattolici, bruno opta per una prospettiva averriosta: la differenza fra sapienti ed incolti. I sapienti, che sono in grado di vivere una vita morale, possono sopportare l’impatto di questa rivelazione, la quale non va comunicata ai popoli ignoranti, i quali devono essere educati dai teologi con l’espediente del Dio retributore (soluzione proposta nel 1584: anno del suo arrivo in Inghilterra).
Questa posizione di Bruno si incrina in Inghilterra a causa di un’esperienza: Unasituazione in cui la religione non ha una funzione pedagogica, bensi sembra esser diventata uno stimolo all’odio ed al fanatismo. Di fatto non è possibile procedere sulla base di questa comoda semplificazione averroista. NON E VERO CHE LA RELIGIONE EDUCA AUTOMATICAMENTE I POPOLI ALLA VITA MORALE. E POSSIBILE CHE ESSA DIVENTI FONTE DI INTOLLERANZA.
Non può dunque esistere una religione che sia sciolta del tutto dal discorso sulla Verità, del tutto sciolta dalla prospettiva dei sapienti. Chi fa qualcosa di violento per cause religiose, perde la capacità addirittura di valutare lo spessore della sua azione e se ne seguiranno premi o punizioni divine.
BISOGNA DUNQUE SECONDO BRUNO METTERE IN SINTONIA FILOSOFIA E RELIGIONE.
Da questo punto di vista Bruno ha di fronte a sé una sfida intellettuale non di poco conto. Nella prospettiva aperta da Bruno non c’è una scelta, non c’è un disegno divino (la potenza divina è impersonale).

Questo problema Bruno lo affronta nello “Spaccio della Bestia trionfante”. Si nota una certa contraddizione nello spaccio, in quanto il programma dello spazio (mettere in sintonia religione e verità), è stata preclusa nel de la causa. Bruno, secondo........., non avrebbe dovuto scriverla se fosse stato coerente.
Bruno procede nello spaccio con una mossa magistrale: egli prende spunto da una narrazione mitologica e crea un dialogo che sotto il profilo narrativo si costituisce con un dialogo mitologico. Egli mette in scena gli dei che si siedono a consiglio. Ma attraverso questa fiction mitologica Bruno dipana un ragionamento rigoroso. Il Dio giove diventa la maschera attraverso la quale Bruno può rappresentare l’immagine dell’esperienza di un uomo che riflette sulla propria vicenda e sulla propria fine al di là di ogni discorso religioso (riflette sulla propria morte dal punto di vista agnostico).

Giove vuole mettere al corrente gli altri dei di un fatto tragico: si è accorto di stare invecchiando. Ma anche Venere è invecchiato. questa vecchiaia spinge Giove a radunare gli dei a consiglio perché l’invecchiamento spinge a giove a pensare l’impensabile: prendere in considerazione l’idea di dover morire.
Un uomo ha sempre convissuto con l’esperienza della morte, ma far pensare qualcosa del genere ad un Dio è un espediente elegante e tagliente: giove non ha mai pensato alla morte, inoltre non sa cosa vi sia dopo la morte (è lui Dio).
Quindi Bruno può presentare la morte come qualcosa di nuovo, al di fuori di ogni sovrastruttura e soprattutto al di fuori di ogni “soluzione religiosa” (se Dio muore, allora la religione esiste, è menzogna).

Bruno ripropone degli elementi del de la causa. Egli osserva che tutto ciò che esiste non è altro che il frutto di un’unica sostanza, e questo può tuttavia garantire una forma di eterntà. E possibile ipotizzare una forma di immortalità in quanto sia la materia del mio corpo che la materia della mia anima, dato che la materia è immortale, non si annulleranno, ma vivranno per sempre. QUESTO PERO SPOSTA IL PROBLEMA NON LO ANNULLA. CHE L’ANIMA VIVRA ETERNAMENTE NON E UN SOLLIEVO, IN QUANTO L’INDIVIDUALITA CHE IO SONO NON ESISTERA PIU. E LA PERDITA DEL SE CHE E TRAUMATICA. NON SI DICE CHE DALL’ALTRA PARTE C’E IL NULLA, BENSI L’IGNOTO!
Si potrebbe dire, come dicevano i greci, che si può vivere nelle memorie collettive in futuro, ma alla fine questa memoria, con il tempo, si perde.

Di fronte a quest’opzione Giove individua un’altra possibilità: c’è una altro tipo di eternità, la metempsicosi dei pitagorici. Il giove dello spaccio ipotizza un principio etico all’interno della vicissitudine. Posto che lo spirito vivrà eternamente ed andrà ad informare un altro corpo, questo avverrà casualmente o vi sarà un principio etico che regoli questa incarnazione.
Esiste dunque la possibilità di non attendere semplicemente la dissoluzione di sé, ma agire per decidere qualcosa sul proprio futuro dopo la morte.
Se questo è vero, l’uomo non è schiacciato dalla mutazione: egli ha la possibilità che questo sé, che in realtà non è nulla, sia qualcosa, in quanto questo sé, questo attimo, ha la possibilità di incidere nell’ordine futuro delle mutazioni.
Ovviamente questa possibilità è da verificare filosoficamente parlando: bruno sa che è solo una scommessa. Si potrebbe scommettere anche sull’altro atteggiamento: dato che comunque sul futuro posso solo ipotizzare, allora vivo come se il futuro non mi riguardasse.
Bruno fa scommettere Giove sull’opzione che abbiamo presentato per prima, così egli potrà fondare una religione filosofica, ma ammette onestamente che questa scommessa non DEVE essere fatta, non vi sono motivi che fanno propendere per questa opzione.












FILOSOFIA TEORETICA 24-10-2007

Beierwaltes: capitoli significativi, dal X al XVI.

[Seguito dello “Spaccio della Bestia trionfante”]
Riforma: espulsione dalla corte celeste di alcuni personaggi negativi, altri aggiunti.

Giove si chiede ora se la Provvidenza debba essere mantenuta nella corse celeste oppure debba essere modificata per adeguarsi alla forza della vicissitudine.

Giove contrappone all’idea antropocentrica della provvidenza un diverso modello di quest’ultima, e lo fa attraverso una riflessione che ci porta nella fucina di Bruno, a partire dall’intreccio di scelte linguistiche, stilistiche e filosofiche.
In Bruno sembra che le categorie del..... si infrangono. Bruno intreccia spesso la riflessione filosofica con immagini triviali e rozze per una precisa scelta filosofica: è una strategia direttamente connessa all’ontologia di Bruno, e che discende dalla messa a fuoco dell’unica sostanza universale che governa il mondo esplicato. Dal punto di vista di Bruno diventa impossibile mantenere le gerarchie: non c’è differenza fra uomo ed animale, ecc. E questo ha conseguenze anche linguistiche.

Lo Spaccio della bestia trionfante è scritto in italiano, ma egli non rifiuta il latino “dogmatico”, tipico dei trattati, tanto per atteggiamento ribelle (Il dialogo viene scritto a Londra ed il dialogo arriva cosi a rivolgersi ad un pubblico molto ristretto, dato che davvero pochi nella corte di Londra parlano italiano; anche se c’era una cultura della lingua italiana a corte). Bruno sceglie il volgare per potersi muovere in una lingua che non è codificata dogmaticamente, ma può spaziare su tutti i registri. Come in natura non c’è una gerarchia di enti, cosi nella lingua non c’è differenza fra registri linguistici. Non esiste una lingua della filosofia, ma essa coincide con tutto il linguaggio parlato. Mettere in sintonia la natura ed il linguaggio naturale significa far filosofia su temi comunemente ritenuti estranei alla filosofia.

[QUANDO SCRIVO IL TESTO DI BRUNO TRA PARENTESI NE TRADUCO IL SENSO, IN QUANTO LA LINGUA E OSTICA E LA LETTURA TROPPO VELOCE PER UNA ABSCHREIBUNG ALL’IMPRONTA]
Scarto evidente tra lo spaccio e la dotta ignoranza. Si basano su un’ideologia simile, ma Cusano scrive in latino e sottoforma di trattato, Bruno cerca di trovare anche un linguaggio nuovo per poter rispecchiare questa nuova relazione (antigerarchica) scoperta da Bruno all’interno dell’esplicarsi della materia infinita: tutti gli enti hanno pari dignità e possono ugualmente essere utilizzate per fare ricerca filosofica.
Ecco che quando Bruno spiega la provvidenza non porta in scena la Provvidenza inventata dai teologi (una provvidenza tutta incentrata sull’uomo), ma contro questa immagine fa dire a Giove:
“La provvidenza ha ordinato che oggi a mezzogiorno due meloni siano maturi, che dal sterco del suo bove nascan 259 scarafaggi, ecc.”
Presentare questa riflessione come filosofica è un’innovazione in filosofia. giove mette qui in scena dei temi che si intrecciano all’infanzia di Bruno.
Il senso di queste piccolezze viene spiegato nelle battute che seguono:
“ti inganni se pensi che non stiano a cuore cosi le minimi come le grandi cose, quest’ultime non portano senza le minime. Tutto dunque, quantunque minimo, è retto dalla provvidenza.”

Vediamo come questa pagina delle minuzzerie di Bruono è collegato alle prime pagine della dotta ignoranza di Cusano, dove egli parla di provvidenza.
“Allo stesso modo l’infinita provvidenza divina complica le cose che avverranno e quelle che non avveranno, cosi come le complica... Tutte le cose hanno dunque una necessità legata alla provvidenza divina, sia quelle che avveranno che quelle che non avverranno”.
Bruno ha spostato il tiro, ma ha portato il ragionamento alle estreme conseguenze: “Se nulla si sottrae alla provvidenza, allora tutto è dovuto a questa provvidenza”. Ma se Cusano nella sua riflessione si concentra su Dio (il quale abbraccia ciò che è e che sarà, cosi come ciò che non è che non sarà). Bruno invece guarda alla natura: la vicenda di ogni ente è parimenti importante (le vicende di scarafaggi che vengono schiacciati sono tanto importanti quanto le vicende umane).

Cusano sembra lasciare spazio alla libertà umana, ma lascia un problema aperto: in che rapporto sta la prescienza con l’arbitrio dell’uomo. (questo punto viene volutamente eluso da Cusano.). Anche Bruno elude questo problema, ma lo racchiude all’interno del discorso delle minuzzerie.
“di quei che di essi(delle cimici) dovrà essere questa sera, provvederemo, lo stesso quando si narra le vicende di paolino si lascia un punto d’incertezza: se bestemmierà per quello che li accade, provvederemo”. Bruno presenta una provvidenza che pur essendo infinitamente grande, è anche limitata dall’arbitrio dell’uomo (essa non sa se paolino bestemmierà o no, non sa cosa ne sarà delle cimici). Bruno mette dunque a fuoco il problema individuando un limite alla provvidenza divina (essa interagisce anche con i minimi termini della realtà, i quali, pur dominati dalla provvidenza, hanno delle caratteristiche tali da mettere un freno alla provvidenza stessa).
Il rapporto fra sapienza di Dio e libertà umana è tutto giocato a favore dell’uomo in Bruno: Dio non consce esattamente il futuro, dato che esso è costruito volta per volta dalle scelte NON SOLTANTO DELL’UOMO, MA DI TUTTI GLI ENTI DELLA REALTA. QUESTA LIBERTA GERMINA DAL FINITO, E RUOLO DEL FINITO E DUNQUE E UN ATTRIBUTO DI TUTTI GLI ENTI FINITI (NON DI TUTTI GLI UOMINI), IL QUALE ARBITRIO LIMITA LA PRESCIENZA DIVINA.

E dunque una rivisitazione di Cusano, e si contraddistingue per una costante: se Cusano è sempre concentrato sull’assoluto, per Bruno il fuoco dell’attenzione è costituito da quel finito che genera e costituisce il volto labile e transeunte di un eterno essere, dove la libertà è presente.

Frattura fra Bruno e Pico: pur insistendo sull’assoluta libertà dell’uomo (Pico individua nell’uomo ed in dio due poli di libertà in contrasto che si determinano in un mondo determinato), Pico non l’estende al creato come fa Bruno.
Cusano parla di libertà solo riguardo all’uomo, Pico a l’uomo ed a dio, Bruno a Dio, uomo e natura (perché per Bruno sono una sola e medesima cosa).

Bruno: carattere corporeo quale distintivo dell’uomo. (?)

Spaccio delle bestia...: la riflessione sulla religione si risolve in un’analisi temporale dei nomi di Dio.

Analizando gli ultimi 3 cap. del I libro della dotta ignoranza abbiamo visto come cusano analizza teologia affermativa e negativa, analizzando anche i nomi di Dio.
Già in partenza vediamo come nel sistema di Bruno le categorie cusaniane sono messe in discussione. Egli è persuaso dell’inconsistenza del primato della teologia affermativa con l’elemento esteriore e di quella negativa con l’elemento interiore.. IN BRUNO VIENE MENO LA DIMENSIONE INTERIORE DELLA RELIGIONE. L’essenza dell’uomo non si costituisce nell’esperienza intellettuale, ma esclusivamente nella sfera esteriore delle azioni. E quello che faranno le cimici determinerà il sorgere di un’altra concatenazione di eventi. E dall’azione che germina la possibilità di dar significato ad un’esperienza che di per sé è esclusivamente accidentale e di “godere”/vivere alla fine il proprio ruolo, cioè un ruolo finito.

L’unico elemento che Giove ha per metter in scacco la provvidenza è dato dalle scelte e dalle azioni. Ecco perché per Bruno una riflessione teologica giocata sul dato interiore/della fede, non ha alcuna importanza proprio perché l’uomo non esiste se non nelle scelte, nel farsi, nella dimensione esteriore: una dimensione interiore umana non esiste. Essa sarebbe solo pura possibilità/potenzialità, ma se non si traduce in azione rimane solo un’occasione persa, e la potenzialità rimane all’interno del tutto, cosi come tutte le potenzialità (ricordiamo inoltre come per Bruno non c’è differenza fra uomo ed altri enti: e non diciamo che un sasso abbia una dimensione interiore, allora non possiamo dire che l’uomo ce l’abbia). [Confonto
Campanella/Bruno: Campanella vuole difendere un sé, si simula pazzo. Bruno non ha un sé da difendere, non abiura ← PARAGONE CHE LA PROFESSORESSA AMMETTE ROZZO, PERO CHE SPIEGA COME PER BRUNO NON ESISTA IL SE]. ← notiamo come Bruno è UNO DEGLI ESITI PIU ANTIUMANISTICI (il se non esiste) della cultura occidentale. Elimina i presupposti della dignità umana: risolve nella prospettiva dell’effimero e dell’accidente anche tutto il mondo del pensiero, il quale se non si concretizza in un’azione rimangono solo potenzialità inespresse, destinate a svanire alla morte dell’individuo perché non hanno generato conseguenze. In piu per Bruno non esiste l’anima, ecc. → è antiumanista.

Per Bruno porre una scissione fra mondo interiore ed esteriore significherebbe infrangere l’uno o l’altro.

[Rapporto Bruno/Nietzsche: vitalismo ed antiumanesimo (non vicenda biografica però). C’è però un punto di snodo importante: vitalismo= volontà di fare dell’esistenza un intreccio quasi inestricabile di esperienza intellettuale e concreta, cioè di tradurre l’io nell’azione. Per Bruno però c’è un punto di distacco forte: l’io non esiste come un sé autonomo, semmai esiste come fucina nella quale si generano desideri, pulsioni, le quali però rimangono nella dimensione dell’effimero e del caduco se non si realizzano concretamente (rimangono nell’infinito calderone delle possibilità cusaniane). Per Bruono questo “sé” non esiste se non se traduce all’esterno, esso diventa valutabile solo alla luce dell’azione. Ma Bruno dice: se il mondo è finito, questo significa che o Dio è finito oppure è malvagio. Ecco che l’azione compiuta acquisisce un’oggettività tale che ci permette di distinguere il se. Non è l’azione stessa, ma le conseguenze dell’azione che fanno la differenza. Tradurre un pensiero in azioni significa portarlo in essere perché ha delle conseguenze.
[Tradizione ermetica: l’uomo è il Dio della Terra, il Dio secondo, perché è l’unico in grado di creare esseri viventi (statue, ecc.) e quindi di operare come Dio ← Verrà criticato da Agostino nel de civitate Dei: l’uomo non fa altro che emulare.] Il mondo civile nasce per Bruno dallo strappo con la natura, come apoteosi della libertà umana e può dare senso al sé. Questa è comunque una via che finisce per individuare un elemento di eccellenza dell’uomo: LA VITA ASSOCIATA, ALL’INTERNO DELLA QUALE C’E UNA SERIE DI VALORI E DISVALORI. Sono positive quelle azioni che promuovono la società, non lo sono quelle che la distruggono.
Vediamo come la via di Bruno non ha nessun rapporto con il vitalismo di Nietzsche: per Bruno l’uomo può diventare qualcosa di più di ciò che è in natura. Il bene ed il male per Bruno non hanno nessun valore assoluto, ma diventano scoperte e si rivelano sul piano storico, assumendo consistenza soltanto all’interno del processo sociale.
Il momento che invece stabilisce continuità fra gli autori è l’approccio antiumanistico].

Notiamo come la critica di Tocco era esatta: il giove di Bruno comunque ha uno spessore interiore, che nella prospettiva bruniana non dovrebbe esserci. Possiamo per giustificare questa sia come servizio alla società + vicenda biografica.

Altro dialogo: “la cabra del cavallo pegaseo”. bruno presenta un’umanità che non è niente, un casuale intreccio di materia.




- DOMANDA: SULL’ARS MEMORIA DI BRUNO (Le ombre delle idee).
Francis, Ieiz, l’arte della memoria.
Paolo Rossi, clavis universali, arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibnitz.
Marco Matteoli, apparso su “rinascimento”, l’arte della memoria nei primi scritti mnemotecnici di bruno. ← Base per il commento del de umibris idearum e nel cantus circeo. Pubblicati nell’edizione adelfi di Bruno , opere mnemotechniche a cura di Rita sturle, Matteoli e Tirinnanzi.





- Ciliberto: “morire martire e volentieri” nel volume intitolato “pensare per contrari”.










Filosofia teoretica 25-10-2007

Concetto di sé in Bruno:

La specificità dell’uomo non è nellaccidentalità del corpo, non nell’accidentalità dell’intelletto, ma nell’unione di entrambi.
“Soggiunse che gli dei avevano donato all’uomo l’intelletto e le mani, e questo consentiva di poter operare nella natura, ma anche al di fuori di quella. Per questo la provvidenza ha preposto che l’uomo lavori con le mani e nella contemplazione dell’intelletto, di maniera che non vi sia un operare senza contemplazione, né una contemplazione senza operare” (dialogo terzo nello spaccio della bestia trionfante)
Notiamo come queste due componenti si danno solo come una totalità continua ed unica, sorreggendosi reciprocamente. Bruno propone un dato di fondo: il fatto che l’uomo appartiene al mondo della mutazione, al mondo in cui i contrari coesistono e si intrecciano in modo del tutto unico. Se è anche possibile pensare un contrario in modo isolato e sussistente, questo non vale per la vita concreta dell’uomo: NELLA VITA CONCRETA I CONTRARI NON SI TROVANO MAI L’UNO SENZA L’ALTRO.
“ogni dilettazione non vediamo consistere in altro che moto e passaggio: spiacevoli sono sia fame che sazietà, quello che diletta è il passaggio dall’uno all’altro.”
Il mondo dell’uomo è quello della mutazione, dove i contrari si intrecciano e si confondono continuamente: è più facile trovare intrecciati due contrari che due enti simili. Il fatto che nell’uomo coesistano operare e contemplare non è altro che un corollario di questa teoria dei contrari. L’azione deve sempre esser guidata dalla contemplazione e la contemplazione deve sempre risolversi in azione.
“Cabala del cavallo pegaseo”: secondo dialogo morale di Bruno.
Il destino dell’uomo dipende dalla sua costituzione corporea: ciò che fa l’unicità dell’essere umano non è la materia spirituale, ma viceversa la costituzione corporea. L’anima dell’uomo è la stessa di quella delle mosce (proprio perché si tratta di una determinazione dell’unica materia spirituale).
Quest’unico spirito va a giungersi ad una specie idi corpo o adu n’altra, ed è proprio quella specificità del corpo che può esprimere la particolarità di ingegno e di azione: il ragno ha altra intelligenza dell’uomo. La stessa anima incorporata nella forma di un ragno svolge opere di ragno, incorporata nella figura umana genera atti umani.
Propone un esperimento mentale: se modificassimo un serpente (dandogli una testa umana, delle gambe, ecc.) allora avremmo un uomo (dato che il principio spirituale è identico).
Come per il contrario, l’uomo non sarebbe altro che un serpente se venisse a contrarre braccia e gambe, se le ossa si deformassero, ecc. Allora con il suo ingegno al posto di camminare striscerebbe, ed andrebbe in un buco piuttosto che in una stanza, ecc.
Ecco che è grazie al corpo che l’uomo ha il suo destino, e non a causa dell’anima.
L’uomo, senza opere, è nella stessa condizione del serpente. Il serpente: un essere che pur avendo ingegno vive strisciando, perché non ha altra possibilità. Una mente di uomo in corpo di serpente farebbe una vita di serpente: non ha altre possibilità. Il serpente non ha un intelletto che può guidare la mano e spingerlo a creare/scrivere, ecc.
Per Bruno vivere esperienze interiori senza esprimerle è un errore teoretico. Il sapiente agisce 50% contemplazione e 50% azione. Agire senza contemplare significa non esplicare al massimo le potenzialità umane (quasi vivere come un serpente). E possibile pensare senza agire, ma è vizioso (quindi il pensiero a sé stante esiste? PER ME BRUNO SI CONTRADDICE!! NON TUTTO IL SISTEMA E CONTRADDITTORIO, MA L’AFFERMAZIONE: “UN’ATTIVITA INTERIORE DELL’UOMO NON ESISTE”).


“Cabala del cavallo pegaseo”← costituisce il proseguimento dello spaccio, ma anche la smentita.
Bruno mette in scena un asino al quale rivela di essere sopravvissuto ad infiniti cicli di reincarnazione, portando con sé la propria memoria, per volere di Giove, il quale ha voluto premiare cosi la propria astuzia.
Bruno mette in scena una sorta di mito di Er alla rovescia. L’asino racconta di essere morto e, una volta andato nell’oltretomba, ha scoperto che l’anima che informa l’uomo non è diversa da quella dell’uomo o da tutti gli esseri viventi che sono comunemente ritenuti senza vita. Casualmente le anime, tutte uguali, si congiungono ai corpi. Non c’è dunque un principio etico o meritorio: tutto è giocato sulla base del caso (principio in sintonia con il “de la causa” di Bruno).
Bruno delinea le due diverse conseguenze che generano dalle diverse scelte: se Giove, con un assunto che è una forzatura, da inizio ad una riforma che porta alla giovinezza del mondo, al rinnovamento della società, ecc. le scelte dell’asino si intrecciano inevitabilmente a scelte di vita tese a protrarre, acuire l’inganno e la decadenza del mondo.
L’asino si è reincarnato in Aristotele, contribuendo a portare allo sfacelo la filosofia.
Mentre nello spaccio Giove non conosce la verità e vuole creare un mondo migliore, nella cabala l’asino conosce la verità ma si parla di un avvizzimento del mondo. I personaggi Asino e Giove sono contrapposti.
Le due opere si illuminano a vicenda: la cabala illumina le forzature interpretative dello spaccio, ma mette in risalto la generosa ingenuità di Giove (attraverso l’errore vuole riattuare la giovinezza del mondo). Questo mostra la problematicità dello spaccio, che nasce come progetto di riforma di una società in crisi (Europa del 1525).

Eroici furori.
Si cerca di raggiungere un obiettivo del tutto irragiungibile, vizioso, per l’uomo finito: cercare di vivere in un mondo tutto interiore. (questo spiega il motivo di tutto il discorso fatto sopra). Per Bruono gli eroici furori sono la storia di un vizio, di una scelta fatta contro la logica della filosofia, della ragione, del sapiente.
Il furioso è un vizioso perché sceglie un comportamento scorretto, non vive da sapiente (vivere cioè nella dialettica dell’azione e della contemplazione): egli sceglie di gettarsi tutto in un polo, quello contemplativo. Altrettanto viziosa sarebbe la scelta di concentrarsi solo sull’azione senza riflettere.
Per Bruno il testo che andremo a leggere non è un testo che porta alla purificazione: PER BRUNO I FURORI SONO UN VIZIO, proprio perché si tratta di una scelta contraria a quella che è la logica della ragione. L’uomo deve cercare di vivere nel mondo del moto e del mutevole, perché questa è la sua natura. Il furioso invece, tramite i furori, vuole accedere all’infinito: ma l’uomo è finito. Egli dovrebbe accettare di essere intreccio di contemplazione ed azione.
Gli eroici furori sono proprio la storia di chi dice: si può anche pensare senza agire.

L’etica bruniana: L’uomo può essere Dio secondo creando una società diversa (non sottostante alle leggi di natura)←ecco la divinità dell’uomo ed il motivo per agire bene, anche se poi alla fine l’uomo scompare dopo la morte, teoreticamente sarebbe preferibile la morale dell’asino.
Per Bruno il modello di giustizia che regola il mondo naturale è incentrato sull’assoluta uguaglianza (perché tutti gli enti hanno dignità diversa), per Bruno nel mondo umano regna un tipo d’uguaglianza diversa. Proprio perché l’uomo ha la possibilità di scegliere comportamenti diversi, la giustizia sociale dev’essere improntata alle differenze e spingere così gli uomini ad agire bene (premiando chi ben agisce). Ecco che il Giove dello spaccio può essere un Dio secondo.

ALLA FINE LA MERITOCRAZIA CHE DIO NEGA NELL’ALDILA NON LA AUSPICA ALL’INTERNO DELLA SOCIETA, E DUNQUE SULLA TERRA. Ecco che l’uomo è Dio. A Bruno preme sottolineare come non vi è sintonia fra stato e natura, ma distacco: già a partire dalla concezione di giustizia. Quelle differenze che non esistono ontologicamente, possono però esistere nel mondo umano. Eco perché è giusto buttarsi sull’azione ongiunta di intelletto ed azione e non solo teoresi o azione: tramite esso possiamo creare uno stato giusto, essere dio in quanto creatore di un qualcosa in rottura rispetto all’ordine naturale.

I NOMI DIVINI.
Il punto di partenza di tutto il nostro ragionamento era il tema cusaniano dei molteplici nomi esplicati di Dio della teologia affermativa.
Questi temi ricorrono nello spaccio, dove egli parla della molteplicità delle religioni.
Dà l’esempio egiziano: considerato un culto idolatra lontano dalla retta ragione (quindi presentare questo esempio come nome di Dio provoca uno spaesamento del lettore.). Cusano ha mostrato come la divinità fosse unica→ approccio idolatra sbagliato. Il culto egiziano adorava divintità dalla forma ferina o vegetale, oppure di esseri ibridi, ecc. → l’Egitto è da sempre stato attaccato per il suo culto (si veda ad esempio i libri sapienziali: con lo stesso legno con il quale fabbricano le sedie, fabbricano degli idoli propri).
Bruno presenta questo culto egiziano quale base di una società, ispirandosi ai Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio di Machiavelli (che però parla dei romani). Per machiavelli il culto civile religioso contribuisce a formare nuovi cittadini, i quali individuavano come sommo bene la capacità a sacrificarsi per la grandezza della patria in guerra → il culto religioso civile è buono.
Su questo punto Bruno non concorda: la guerra non costituisce la logica prosecuzione di una vita dello stato (come invece voleva machiavelli: essa era vista come la prosecuzione di un incontro fra due viventi), ma vuole invece mostrare una forma di religione alternativa che sappia costiuirsi come collante sociale, ma che sappia educare non al culto della violenza e della guerra, ma alla ricerca e all’impegno del miglioramento della società →abbandono del modello romano di machiavelli a favore di quello egizio.

Nella de docta ignoranza abbiamo letto come i gentili hanno dato a Dio nomi storici diversi, ma non falsi (erano pur sempre un momento dell’esplicazione).
Scrive Bruno nello spaccio: “cosi i numi eterni hanno nomi temporali, in altri tempi ed altri nazioni, cosi come paolo di Tarso fu nominato mercurio ecc. perché si stimava che quella virtù divina, che si trovava in Mercurio in altri tempi, ora si trova in Paolo”. ← L’attacco è cusaniano: che i nomi di Dio cambino non è segno di irreligione, dato che gli uomini, in tempi diversi, non fanno altro che individuare i tanti modi con cui Dio si rivela all’uomo in tempi diversi. Ecco perché, secondo Bruno, è lecito lodare Dio in galli, coccodrilli ed altro.

Bruno insiste sull’identificazione fra la divinità ed il mondo animale (NELLO SPACCIO DELLA BESTIA TRIONFANTE). Non si tratta di identificare un effetto e di ricondurlo alla propria causa (cusano), ma si tratta di riconoscere la divinità del mondo.
Gli egizi hanno fatto una scelta giusta: hanno chiamato dei le cose naturali perché in essi si riflette la divinità. Il nome ineffabile di Dio è del tutto estranea alla prospettiva umana: in essa hanno senso solo i molteplici nomi di dio; l’unico nome ineffabile di Dio non ha senso nella prospettiva umana.
Dio, in quanto absoluto, non ha a che fare con noi. Il dio assoluto di Cusano, dal punto di vista di Bruno, non ha niente a che fare con l’uomo: egli non può raggiungerlo e non ha nulla in comune con esso. Ecco che per Bruno è nel mondo naturale che si ritrova Dio.
E questo l’unico modo di far entrare in relazione Dio e l’uomo: egli può avere un rapporto solo con la forza divina quale si manifesta nella forza della natura.
Ecco che nello spaccio la descrizione della religione egizia si intreccia a temi cusaniani, ma se ne distacca.









FILOSOFIA TEORETICA 26/10/2007


“Assoluto”: indica in cusano la totale unità divina
“Contratto”: indica la determinazione particolare dell’assoluto


“Simbolo” per Cusano significa simbolo matematico (che serve per indagare l’assoluto).
La contrazione, che si indaga utilizzando come mediatore la natura che risplende nell’ombra.

TEMA DELL’OMBRA.
Sorta di crocevia intellettuale fra la tradizione platonica e neoplatonica e quella patristica.

Il concetto dell’ombra nasce nella Repubblica di Platone, dov’è descritto il mito della caverna. Lo schiavo può contemplare solo le ombre che sono proiettate sullo sfondo della caverna. Nell’interpretazione platonica il tema dell’ombra viene a configurarsi come il tema del limite in cui è immerso l’uomo quando segue la strada dei sensi per la conoscenza. L’uomo non ha accesso alla verità, ma si limita ad osservare le ombre. Per giungere alla verità bisogna compiere l’itinerario dello schiavo: l’uomo si libera e si rende conto di come stanno le cose, di uscire poi dalla caverna, di guardare le cose naturali e poi addirittura il sole. L’ombra raffigura dunque lo stato più elementare di conoscenza.
LA METAFORA DELL’OMBRA VIENE AMPIAMENTE RIPRESA E SFRUTTATA DALLA TRADIZIONE SUCCESSIVA, LA QUALE AVEVA INDIVIDUATO NELL’OMBRA IL GRADO PIU IMPERFETTO DI CONOSCENZA, CHE DOVEVA ESSER SUPERATO PER ARRIVARE ALLA VERA CONOSCENZA (Proclo).
In età rinascimentale, 20 anni dopo la pubblicazione della dotta ignoranza, Marsilio Ficino nel suo commento al convivio platonico riprende le tesi di proclo, soprattutto riguardo l’ombra. Ficino una questa metafora come emblema del gradino più basso della conoscenza.
L’accezione è dunque tradizionale, ma Ficino pone un’accezione particolare: l’ombra è il simbolo di una vita vissuta secondo la perdita di sé. Ficino reinterpreta il mito classico di Narciso (per prendere la sua immagine sull’acqua, vi cade ed annega). Per Ficino l’uomo è un problematico punto di equilibrio all’interno del reale: si trova al confine fra mondo materiale e mondo spirituale. Ficino presenta dunque un’immagine dell’uomo amara, aspra, irrisolta (diffidare dunque dalle presentazioni manualistiche, le quali presentano un Ficino umanista a 360 gradi, che loda la dignità dell’uomo ecc.). L’uomo non è altro che il campo di forze nel quale si confrontano il finito e l’infinito → l’uomo vive nello scontro di due contrari, non trovandosi mai nella dimensione dell’equilibrio, della pacificazione, della felicità. L’uomo deve ogni volta scegliere fra finito ed infinito, esagerando però sempre da un lato o dall’altro, non può trovare un equilibrio ideale/ottimale. Una scelta che privilegia l’aspetto temporale sarebbe di tipo narcisista: innamorato dell’immagine riflessa, Narciso rappresenta colui che affoga e si perde nell’ombra del reale. Narciso non capisce che ciò che dà consistenza al proprio sé è l’elemento immortale. Ciò che il mondo esterno può dare sono solo ombre, frammenti imperfetti/incerti, che non tracciano un itinerario attraverso il quale accedere al primo vero.
Anche qualora si scelga la dimensione della luce per Ficino il risultato non è garantito: in questo caso è impossibile per l’uomo porsi nella prospettiva dell’eterno/dell’assoluto. Come Prometeo, l’uomo può essere solo un assoluto ricercatore della verità (cercare le tracce dell’intellligibile che costituisce la realtà), ma come Prometeo è divorato dall’aquila, cosi l’uomo è divorato da un desiderio della conoscenza della verità che non potrà mai essere appagato.
IN ENTRAMBE LE SCELTE C’E UN LIMITE INVALICABILE.
In ogni caso per Ficino l’ombra appartiene ad una particolare esperienza di vita, il punto di partenza di un itinerario che se svolto con coerenza e costanza permette all’uomo di individuare le tracce delle idee e di riafferrare la luce divina. L’ombra è dunque l’elemento costantemente superato dal filosofo, il quale muove da esso per iniziare il suo cammino verso la verità.
Ombra e luce rappresentano dunque due elementi distinti di un percorso unico. L’elemento dell’ombra dev’essere superato (se non si vuole come Narciso perdere la propria identità in cose mondane che non possono riempire lo spirito umano, cosi come anche i frammenti di luce non possono appagare il desiderio di luce piena dell’uomo). L’ombra è per Ficino il mondo naturale, il mondo esplicato, proprio perché esso non rappresenta l’essenza/l’immagine divina, ma un’ombra.
L’ITINERARIO TRACCIATO DALLA DOTTA IGNORANZA E FINALIZZATO A TRASPORTARE L’UOMO DALL’OMBRA ALLA LUCE.
Esiste per Ficino un’altra possibilità, che egli illustra con la figura di Paolo di Tarso, nel libello “de raptu pauli” (il ratto di Paolo). Ficino recupera il motivo dell’epistolario paolino, il quale viene rapito al terzo cielo. Ficino vi individua l’unica possibilità dell’uomo di uscire da quella condizione di tipo narcisista o prometea. Attraverso il ratto mistico diventa possibile per l’uomo porsi nella dimensione della luce. Tutta la dimensione di Paolo viene esplicitata da Ficino attraverso tutto un lessico di tipo “luce non inquinata dalla vicissitudine”. L’esperienza mistica rappresenta l’archetipo di una conoscenza del divino che proietta l’uomo già da questa vita nella prospettiva della piena luce affrancandolo dall’ombra.
Ficino dedica tanto spazio all’esperienza di Paolo perché essa individua un itinerario che certo si compie anche per un aiuto gratuito da parte di Dio, ma che comunque qualunque uomo potenzialmente può compiere. Riprendendo un lessico bruniano che non appartiene a Ficino, possiamo dire che per Ficino non conta solo la grazia, ma rimane saldo in Ficino un rapporto fra merito e grazia. E vero che soltanto la misericordia di dio proietta Paolo oltre il velo dell’ombra, ma questo amore divino non è del tutto gratuito, perché proprio nell’ottica dell’amore si ama nella misura in cui si è amati.
Ficino: traduttore e commentatore di Platone e di testi magici (sopratutto “sul modo di ottenere la vita dal cielo”). Ficino non è l’esponente di un sincretismo (mischiare elementi teorici tra loro: quello mistico e questo magico). In realtà c’è un’unità profonda: la vicenda umana intesa come ventaglio di possibilità teso fra i due estremi di narciso e prometeo (proprio ontologicamente ciò avviene). C’è una possibilità di una conoscenza immediata del divino, e solo sotto questo aspetto gli interessa la magia (non usare le tecniche magiche per dominare la natura, persuadere gli uomini, ecc.). Non c’è dunque iato fra lettere paoline e componenti magiche rilevati da Ficino: le arti magiche sono una delle tecniche che il sapiente ha per avviare il ricongiungimento di tipo paolino con il divino. ← TUTTO QUESTO A PARTIRE DA UNA PARTICOLARE CONCEZIONE DELL’OMBRA, INTESA COME LUOGO IN CUI L’UOMO SPERIMENTA IL DRAMMA DELAL SUA NATURA ANCIPITE: L’UOMO NON E APPAGATO DALL’OMBRA, E QUESTO SEGNA LA SUA NATURA ED IL SUO DESTINO. ALL’UOMO APPARTIENE IL TORMENTO, EGLI E UN ANIMALE INSODDISFATTO, IN QUANTO COSTRETTO A VIVERE NELL’OMBRA, PUR NON ESSENDO OMBRA. Comunque NOTIAMO COME DALL’OMBRA E POSSIBILE USCIRE: ESSA DIVENTA QUASI UN DESTINO PER COLORO CHE SCELGONO LA DIMENSIONE NARICISANA, ALTRIMENTI L’UOMO E LIBERO DI PORSI ANCHE NELLA LUCE (CON L’ESPERIENZA MISTICA). L’ombra rappresenta il punto di massima lontananza dalla pienezza del divino e tanto più ci si allontana dall’ombra, tanto piu ci si avvicina a Dio (e viceversa).

1582: Bruno compone a Parigi un trattato mnemotecnico. In seguito ad una serie di lezioni, dove Bruno si guadagnò fama di esperto maestro di memoria, Bruno pubblica il “de umbris idearum”, dall’altro intergra la sua opera con due ampie sezioni filosofiche nelle quali risponde alle critiche dei critici e sviluppa tutta un’analisi del motivo dell’ombra, chiamando in gioco una diversa tradizione interpretativa.
E dunque un opera stratificata: un grande blocco è di natura didascalica. Spiega delle tecniche che consentono al lettore di memorizzare con estrema facilità dati estremamente complessi. Nelle sue intenzioni dovrebbero costituire il concentrato degli artifici mnemonici, presentandoli spesso sotto forma poetica. Due parti “Ars memoria” e “artes breves”.
Tutta una prima parte sembra ingiustificata (lo notava già Felice Tocco). Nella prima parte Bruno non espone solo le premesse del sistema, ma Tocco nota come Bruno “espone troppo”: tutta la prima parte, teorica, è superflua ai fini della comprensione dell’opera. QUEST’OSSERVAZIONE E PREGNANTE. La prima parte, teorica, viene scritta per ultima rispetto alle altre due.
In realtà in de umbris è una sorta di manifestazione in laboratorio della riflessione di Bruno, proprio perché l’opera nasce in due momenti diversi, ma non radicalmente distinti: la parte didattica è la prima ad essere composta. Essa è il risultato delle lezioni di mnemotecnica tenute da Bruno. E chiaro che dunque essa è la prima che consegna al tipografo (quasi fosse un materiale già pronto all’indomani delle lezioni). Diversa la situazione se si guarda la parte introduttiva. Essa è stata portata in tipografia in un secondo momento e sopratutto è stata anche composta in un secondo momento. Si riscontra anche un lessico che, rispetto alla prima parte, è radicalmente mutato, anche su temi cardine. Ci si potrebbe interrogare sulle ragioni di questa doppia anima del de umbris: perché Bruno affatica l’opera con questa parte “inutile”?
Se guardiamo al dialogo preliminare apologetico, Bruno riferisce e cerca di confutare alcune critiche che erano state rivolte al de umbris idearum. Esse si possono dinguere in due gruppi: 1. limiti tradizionalmente riconosciuti dell’ars memorie 2. elementi ritenuti deboli nell’insegnamento dell’autore.
Obiezioni generali (tipiche di Erasmo): l’arte della memoria costringe solo a duplicare lo sforzo. Essa costringe l’utente a memorizzare prima un codice, poi porta l’utente a trascrivere il testo secondo un codice e comunque a ritenere una sequenza del codice (a questo punto potremmo anche ritenere il testo), poi a decifrare il codice. Bruno risponde che è solo questione di pratica: una volta acquisita l’abilità necessaria (quando l’atto della composizione diventa automatico, così come nella scrittura, allora si può fruire di questa pratica). Questa critica è cogente per Bruno solo se colui che parla si trova alle prime armi. ← argomentazioni generali e legati alla peculiarità dell’autore. Per esempio alcune obiezioni sono legate alla metodica di insegnamento: egli utilizza un linguaggio difficile, ecc.
C’è invece un gruppo di critici che muovono obiezioni filosofiche: se ai primi critici (quelli di quelle inutili) Bruno risponde rapidamente (quasi che egli fosse consapevole di queste critiche: egli ritiene questi studenti accademici, svogliati, ecc.), per quanto riguarda i critici filosofici vengono trattati con molta dignità.
La critica di questi filosofi non riguarda la prima parte del de umbris idearum, ma la seconda parte, e sono inutile perché ad esse si risponde nell’introduzione. Alcuni hanno avviato un ragionamento gnoseologico filosofico, mettendo a fuoco il concetto di ombra I critici gli obiettano di aver scritto, nella seconda parte del de umbris, che “l’arte conformandosi alla natura, va a porsi sotto l’ombra delle idee”.
Per i parigini questo uso del concetto di ombra è anomalo e contraddittorio. In una prospettiva platonica, una tecnica perfetta non può situarsi nell’ombra, in quanto la conoscenza deve allontanarsi da essa. Se invece ci ponessimo in una prospettiva aristotelica, dicono i critici, allora è possibile che l’arte nasca dalle ombre delle idee. Per Arist le idee non esistono eternamente, ma nascono da un processo di astrazione, partendo dal mondo sensibile. Potrebbe essere allora vero che l’arte nasce dall’ombra delle idee (i contenuti mentali non hanno sussistenza autonoma, ma sono costruzioni umane dovute al processo dell’astrazione). Quindi loro dicono: non si capisce se sei platonico o aristotelico. Se sei platonico non dovresti dire che l’arte nasce dall’ombra delle idee, ma che essa nasce dal tentativo di discostarsi da essa. Se sei invece aristotelico allora fai bene a dire che l’arte nasce dall’ombra delle idee, solo che in questo caso ci devi spiegare come mai affermi che la tua arte della memoria è conforme alla natura. Se i concetti umani sono concepiti per astrazione, e le idee non esistono in natura, allora esiste una cesura netta fra la natura e l’arte umana che segue i principi elaborati dall’uomo, che non esistono in natura. Dovresti dunque a questo punto affermare, aristotelicamente, una cesura fra uomo e natura, fra idee umane e natura.
COSTORO CHIEDONO DUNQUE A BRUNO DI DEFINIRE IL CONCETTO DI OMBRA. Sembra una richiesta bislacca, in quanto tutta la prima parte è una trattazione sull’ombra. SEMBRA DUNQUE LOGICO IPOTIZZARE CHE TUTTA QUESTA PRIMA PARTE SULL’OMBRA SIA STATA SCRITTA IN UN SECONDO MOMENTO, QUALE RISPOSTA ALLE OBIEZIONI DI QUESTI PARIGINI.
Bruno ricorre ad una nuova tradizione interpretativa. In apertura al de umbris idearum troviamo un capitolo diviso in 30 aforismo che Bruno definisce intenzioni.
Intezione I: “Volendo alludere alla perfezione dell’uomo e dell’unico stato che si può avere, il sapientissimo ebreo fece pronuciare alla sua amata queste parole: mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato”.
Bruno costruisce un panorama all’interno del quale si definisce la possiblità per l’uomo di raggiungere la perfezione, ma: “volendo alludere alla perfezione dell’uomo e alla conquista del miglior stato che si può avere in questo mondo” → nesso fra perfezione e conquista: ma qual’è la perfezione dell’uomo? Per Cusano era la consocenza intellettuale, nel quale consisteva il fine della conoscenza umana. Bruno definisce il fine dell’uomo utilizzando le battute del cantico dei cantici (attribuito a Salomone, il sapientissimo re). La perfezione dell’uomo può essere espresso con il testo del cantico dei cantici.
Prosegue una serie fulminea di annotazioni: “la nostra natura non ha la capacità di dimorare nel campo stesso della verità” ← attacca tutto il paradigma platonico. L’uomo ha la possibilità di fondare il suo giudizio su una serie di giudizi veri dato che egli ha la possibilità di un soggiorno nella verità e quindi può giudicare non secondo l’apparenza, ma secondo gli archetipi immutabili.
Bruno scrive “campum veritatis”: è una citazione di Ficino; così egli aveva tradotto l’iperuranio platonico → Bruno cita sicuramente Platone.
Bruno scrive: “è stato detto infatti, vanità è l’uomo vivente, tutto è vanità” (riprende le battute dell’ecclesiaste).
2 punti fondamentali: l’uomo si situa nella dimensione della vanita e da questo stato non si esce.
Secondo Bruno lo scarto ontologico che separa l’assoluto dall’esplicato non può essere sanato: l’uomo non può aver nessun accesso al campo della verità (non è possibile argomentare a favore di una vita prima di questa, dove l’uomo abbia acquisito strutture conoscitive eterne), proprio perché l’uomo appartiene alla dimensione della vanità, non a quella eterna. Per questo per Bruno all’uomo basta sedere nell’ombra del bene e del vero.
Quel mondo umbratile che per ficino aveva raprresentato il punto di partenza di quell’itinerario conoscitivo che porta a Dio, diventa in Bruno un destino insuperabile: ontologicamente l’uomo appartiene al dominio della vanitas, del fluire, non vi è dunque contatto gnoseologico fra uomo e Dio (non esistono idee eterne/immutabili).
Potrebbe sembrare un’affermazione destinata a concludersi in una sorta di relativismo assoluto. Sembra significare che non esiste alcuna conoscenza di ordine assoluto. A questo punto Bruno sviluppa il suo ragionamento in una nuova prospettiva: Bruno sigla la perfezione umana immaginando la bella sullamita all’ombra dello sposo “mi sono seduto all’ombra di colui che ho desiderato”. Sembra una citazione fedele, ma se confrontiamo questo testo con la vulgata, esso scrive: “la sposa si siede all’ombra che(la quale ombra) ha desiderato”. E questo il testo che anche Bruno conosce, tant’è vero che ogni volta che deve citare questo passo utilizza la forma consueta/corretta. Questa “svista” ha una ragion d’essere: tutto il ragionamento di Bruno si gioca su questo “quem” (Bruno scrive “quem” invece di “........”). Bruno non ha volutamente alterato il testo biblico, ma si è ispirato a Origene, il quale nel commento al cantico dei cantici aveva proposto una traduzione nella quale il relativo era riferito allo sposo “illius” e su questa unione aveva fondato un’interpretazione, modificando il concetto di ombra nel modo in cui interessa a Bruno.
Notiamo dunque come Bruno si rifà a Salomone, ma non al Salomone del testo biblico, bensì ad Origene. Questa traduzione di Origene era stata spesso creduta di Gerolamo.
Origene propone la variazione sul greco, tutti i traduttori successivi lo riportano sul latino. Origene ritiene che l’articolo doveva essere riferito al maschile, e non al femminile ombra.
Nel primo caso: la sposa si siede sotto l’ombra che ha desiderato (quindi ha desiderato l’ombra).
Nella variante di origiene: la sposa si siede sotto l’ombra dello sposo che ha desiderato (quindi desidera lo sposo). Per origene questo espleta come l’anima dell’uomo desidera Dio, e non potendolo riafferrare con le forze del suo intelletto, ecco che accetta almeno di sedersi nell’ombra, ma non un’ombra qualsiasi, bensì nell’ombra dello sposo stesso.
NOTIAMO COME L’IMMAGINE DELLA PERFEZIONE UMANA COINCIDE CON COULUI CHE SIEDE NELL’OMBRA: L’UOMO CHE DESIDERA LA LUCE MA SA DI POTER FRUIRE SOLO DELL’OMBRA, LA QUALE COMUNQUE NON E INDISTINTA (come diceva Ficino), MA NELLA QUALE VI E DISTINZIONE E QUINDI FRA LE TANTE ANCHE L’OMBRA DEL SOMMO BENE.

[NON C’ERO. SUNTO]

7.11.2007

Cusano distingue in un momento finito e uno infinito, mentre per Bruno esiste solo l’infinito.





FILOSOFIA TEORETICA 8-11-2007
Cap. II del II libro del de docta ignorantia. cusano elabora un ragionamento che sarà ripreso da Spinoza: Dio è il massimo puro e semplice che è causa di se stesso. Questa condizione originaria del massimo distingue il massimo dagli altri enti, i quali non hanno in se la causa del proprio essere e sussistono solo in quanto esplicazioni della causa assoluta (Dio).
Nel cap III Cusano procederà ad approfondire i rapporti fra il massimo esplicato e le creature, individuando una serie di spunti nei quali è possibile vedere come l’essenza del massimo sia presente nel mondo sensibile.
Il massimo viene a coincidere con la totalità dell’universo, che va interpretata non in senso quantitativo (l’universo non è la somma di tutte le cose esistenti), a Cusano interpreta il massimo come il principio che sussiste in tutte le cose, che è causa del loro essere e che le giustifica nella loro singolarità.
Cusano paragona cosi l’universo ad un corpo, e le singole parti dell’universo alle singole parti del corpo stesso, mostrando come l’essenza delle singole parti del corpo non si spiegano come qualcosa di separato dal tutto, ma si giustificano in quanto parti di una totalità: E LA FORMA CHE DA SENSO A TUTTO IL COMPOSTO.Gli arti e le varie parti del corpo ricevono senso e significato in quanto strutturalmente congiunte in un organismo vivente, cosi l’universo è la radice che fonda e trascende tutte le singole parti.
Abbiamo dunque un Dio che non si identifica con il mondo, ma che contemporaneamente è ovunque ed è il mondo. Dio non è né immerso nelle cose né unito ad esse: è possibile immaginarsi un mondo senza le cose (resterebbe Dio), ma senza Dio le cose non possono sussistere (→ un mondo senza dio sarebbe inimmaginabile, in quanto significherebbe un mondo senza Dio e senza le cose).
Tra l’essere delle cose e l’essere di Dio c’è uno scarto: le cose ricevono l’essere da Dio.
Cap.: “IN CHE MODO L’UNIVERSO, MASSIMO SOLTANTO CONTRATTO, E L’ORIGINE DI TUTTE LE COSE.”
In che senso va inteso il rapporto di immagine? IN QUESTO CAPITOLO SI SPEZZA IL LEGAME DI CUSANO CON PLOTINO.
Questo tema è presente nell’enneade V, ma Cusano l’intepreta in modo originale: l’universo è immagine di Dio non in quanto è immagine/emanazione di dio, ma perché l’universo è costituito dall’essenza divina.
Dio si costituisce come un contenuto particolare del sapere proprio perché è l’unico ente riguardo al quale la domanda sulla natura coincide con la risposta.
Cusano utilizza un gioco linguistico che si perde in italiano.
“Che cos’è Dio?” ← ecco la risposta. Spieghiamo questo gioco linguistico (Cusano lo fa in latino).
”Quid est deus?” ← Per Cusano qui si rivela tutta la particolarità di dio. Per Cusano basta sostituire il punto interrogativo con un punto fermo: Dio è il quid delle cose.
SECONDO CUSANO ESISTE UNA COMUNE RADICE DELL’ESSERE CHE UNIFICA TUTTI GLI ENTI: LA QUIDDITA ASSOLUTA DELL’ESSERE DEL SOLE NON È DIVERSA DALLA QUIDDITÀ DELL’ESSERE DELLA LUNA; LA QUIDDITA E SEMPRE DIO.
QUESTO VALE PERÒ PER IL MONDO COMPLICATO.
QUANDO SI PASSA ALL’MONDO ESPLICATO, LE COSE SI DIPANANO NEL TEMPO, IN UN MONDO DOMINATO DALLA LEGGE DEI CONTRARI → SI DA TENISIONE E LOTTA FRA GLI ENTI, NON UNITA.

Cusano interpreta dunque il motti di Anassagora “tutto è in tutto”.
La pratica magica del 1300 si basava su questo concetto: bastava arrivare all’essenza ultima delle cose, per cui poi si poteva riconfigurare la parte accidentale dell’ente (→ il suo apparire nel mondo) a piacimento.

Cusano era al corrente di questa interpretazione, ma la sua interpretazione del “tutto è in tutto” anassagoreo è diversa. Proprio perché nella radice dell’essere della pietra vi è la quidditas divina, nella pietra vi sono racchiuse tutte le cose.
Su questo punto potremmo pensare che Cusano rompe con una visione dualistica della realtà. C’è un’esperienza conoscitiva che nasce dalla dotta ignoranza: conoscere una cosa significa comprendere che la sua essenza è una, che il quid della sua sostanza è Dio stesso e quindi capire non c’è differenza fra ciò che conosce e ciò che è conosciuto (perché sono entrambi manifestazioni della stessa sostanza divina).
Ma vi sono altre conseguenze gnoseologiche: abbattendo la distinzione fra soggetto ed oggetto, la dotta ignoranza è in grado di prospettare in termini nuovi il problema della conoscenza ← TEMA CHE VIENE AFFRONTATO NEL CAPITOLO VI. Questo Capitolo che piacque molto al neokantiano Cassirer. Per Cassirer Cusano è il più gran pensatore moderno, in quanto aveva trattato il problema della conoscenza ed avrebbe, secondo lui, precorso la teoria delle categorie kantiane. Egli tratterebbe le condizioni di possibilità della conoscenza.
Critica a Cassirer: PER CUSANO IL PROBLEMA NON E SOLO QUELLO DI INDIVIDUARE IL FUNZIONDAMENTO DELL’ATTIVITA CONOSCITIVA UMANA, MA CAPIRE LA COMPLICATIO E L’ESPLICATIO DI TUTTE LE COSE. Solo a partire da queste premesse si può individuare una “logica” del sistema: la logica del sistema sottostà all’esplicarsi di Dio. Per questo Cusano riprende delle categorie Pitagoriche, già riprese in età medievale dai Platonici di Chartres. Secondo cusano nell’effondersi dell’unità c’è una logica: il procedere dell’unità nella decade, della decade nella centinaia, ecc.
L’esplicarsi di Dio ha dunque in sé un ritmo (denario) e un’armonia, non è casuale.

SE QUESTO E IL RITMO CHE GOVERNA L’ESPLICAZIONE DELL’UNO, QUESTO RITMO DOVRA ESSERE RIFLESSO IN TUTTI GLI ENTI, I QUALI DERIVANO DA DIO E TROVANO IN DIO LA CAUSA DELL’ESISTENZA (quindi questo ritmo dovrà segnare tutti gli enti naturali). Dovremmo dunque ritrovarlo nell’uomo e nelle azioni esplicate dall’uomo → anche nell’attività cognitiva.

C’è dunque una struttura unica nella realtà: essa ha un ritmo preciso e marca a fondo le operazioni di ogni essere (proprio perché essa costituisce l’essenza stessa della realtà).

Cusano ritiene cosi di aver posto le premesse nuove per impostare il problema della conoscenza. Si potrebbe pensare che Cusano riprende la questione degli universali: che valore hanno i contenuti della nostra conoscenza. I concetti (cane, casa, ...) hanno una loro realtà oggettiva, o è il frutto di un processo di astrazione umano.
A questo problema erano state date 2 risposte:
1. Platone: le essenze sono immorali e solo la vera realtà (non appartengono al mondo dell’ombra e dei riflessi, ma appartengono all’unica dimensione vera della realtà), e l’uomo le possiede proprio perché l’anima è anche immortale
2. Aristotele: i contenuti mentali di carattere generale sono ottenuti per astrazione, al termine di un processo che affonda le proprie radici in un processo di natura sensibile. Il concetto di umanità deriva da un processo di astrazione: si parte da dati empirici e si astrae←non ha una sussistenza di per sé, ma esiste solo nell’uomo.

Cusano ritiene di poter metter in sintonia queste due prospettive.
La risposta riguardo alla natura della conoscenza umana non è né perfettamente quella aristotelica, né quella platonica.
I contenuti universali non sono solo quelli di ragione, sebbene non si trovino in atto che nei singolari.

Arist.: i contenuti di carattere generale esistono in atto solo nella mente dell’uomo. Ma questo, per Cusano, non significa affatto che essi siano prodotti squisitamente umani. Se nell’universo esiste un ritmo scandito nell’esplicarsi dell’unita nel 10, 100, 1000, ecc., allora anche l’attività conoscitiva umana segue un ritmo: sia di esplicazione(quando si conta dal 10 al 100, al 1000←dal particolare al generale), sia di complicazione (quando si conta dal 1000, al 100, al 10← dal generale al particolare). Questo modo di procedere non è casuale: c’è una corrispondenza del modo in cui conosce l’uomo e del modo in cui si esplica la realtà. → da un lato è possibile sostenere che la conoscenza si fonda su modelli eterni ed immutabili (Platone)←COMPLICAZIONE(?), ma è anche lecito affermare che la mente umana astrae (Aristotele)←ESPLICAZIONE(?).
Gli universali sono nell’intelletto, anche se essi esistono anche per natura. Da un lato gli universali sono frutto di un processo di astrazione, ma sono anche i corrispondenti perfetti di una struttura che esiste in natura.

L’atto conoscitivo dell’uomo è distinto da quello divino. Per la conoscenza divina pensare e creare avviene in un solo atto, mentre l’attività conoscitiva umana procede “come in natura”: i contenuti universali che l’uomo possiede nella mente sono “la copia” di quegli universali che esistono in natura, copie ottenuti, come voleva Aristotele, a partire da dati empirici, attraverso un processo di astrazione← ma ciò non vuol dire che essi siano arbitrari: coglie un atto di esplicarsi della realtà. Anche la realtà si esplica per generi, specie, ecc. Tra i due ordini di universali c’è perfetta corrispondenza, ma questa corrispondenza non è dovuta a contenuti innati nell’uomo, ma il fatto che le attività umana segue lo stesso ritmo dell’esplicarsi del mondo, proprio perché il quid che sostiene l’essenza di entrambi è lo stesso (Dio).
Quel che è coerente con le strutture della realtà non è il contenuto stesso del conoscere, ma è la modalità del conoscere, che, nata dalla stessa essenza della natura, segue gli stessi ritmi che governano la natura. → c’è comunque un fondamento oggettivo di validità.

Ecco che Cassirer apprezza il fatto che Cusano determini una struttura originaria che determina la conoscenza umana. TUTTAVIA NOI DOBBIAMO NOTARE CHE PER CUSANO LA CONOSCENZA SI FONDA SU UNA STRUTTURA OGGETTIVA CHE SPIEGA SIA LA STRUTTURA DELLA NATURA CHE QUELLO DELLA CONOSCENZA, MENTRE PER KANT NON E ASSOLUTAMENTE COSI (Kant parla solo delle strutture della conoscenza umana, non della struttura della natura: il noumeno noi non possiamo conoscerlo).

SE IL PRIMO LIBRO SI CONCLUDE CON L’AMMISIONE DI UN FALLIMENTO (l’intelletto umano può consocere la divinità soltanto nel momento in cui si nasconde), è anche vero che la dotta ignoranza permette di dire molte cose non su Dio, ma sul mondo esplicato (SECONDO LIBRO): il processo conoscitivo trova validità in una struttura dell’esplicarsi tanto della conoscenza quanto della natura.

Cusano mostrerà come questo permetta di spiegare il dinamismo del cosmo molto meglio di quanto abbiano fatto i filosofi a lui precedenti.
Cusano si rifà ai filosofi di Chartres per mostrare come l’uno si esplichi in una struttura ternaria.
La riflessione sull’uno si risolve necessariamente in un ritmo ternario. L’unità si risolver per forza con l’identità con se stesso, e identità significa relazione di identità con sé stesso (Guglielmo di Coches(?)).
Ragionando sull’uno si giunge inevitabilmente al tre.

CHE COS’E L’UNO?
1) L’uno è ciò che è uguale a sé stesso
→2) L’uno è IDENTITA con se stesso
→ 3) Identità significa RELAZIONE con sé stesso

Cusano riporta questo discorso al discorso della Trinità (rimanendo però sempre in ambito filosofico: già i pitagorici parlavano di trinità, riflettendo sull’Uno).

ECCO ALLORA CHE L’UNIVERSO ASSUME UN RITMO TERNARIO

CAP VII al X: Si parla della TRINITà DELL’UNIVERSO, cioè di come la vita del mondo esplicato sia scandito da un ritmo trinitario.

Notiamo come si parla della trinità in 4 capitoli (dal VII al X). Perché? L’ultimo capitolo è dedicato alla materia (punto delicatissimo).
Cusano si trova nella necessità di scindere fra la potenza divina e la potenza della materia. Dio è l’unità originaria, è la fonte dell’essere (→ “padre di tutte le cose” ). Ma in che rapporto si situa questa potenza divina con l’altra potenza che, nella storia della fil., da Aristotele in poi, è stato oggetto di studi filosofici. Quando si parla di “potenza” aristotelica.... Per Aristotele la materia prima è la potenza assoluta, che aspetta una causa efficiente per essere informata.

In che rapporto stanno queste due potenze? Cusano vuole porre una cesura netta. sotto il fuoco della rilfessione di cusano sta il concetto della potenza assoluta. Da Arist. in poi si è continuato a sostenere che la materia prima, priva di qualsiasi determinazione, sia la potenza.

Per Cusano questo è un errore gravissimo, si confondono due piani dell’essere che devono rimanere distiniti. Per Cusano gli aristotelici hanno considerato la materia come possibilità assoluta, ma questo non può essere perché “possibilità assoluta” è solo Dio.
Non bisogna dunque confondere i termini: la potenza creatrice di dio è una cosa (ed è assoluta), la “potenza” aristotelica della materia un altra (non è infinita, altrimenti sarebbe Dio). La materia appartiene ad un momento successivo: essa scaturisce quando l’originaria unità divina si contrae, nel binomio di unità e forma (→ unione di contrari). La materia appartiene alla dimensione dei contrari (→è materia esplicata, non ha più nulla della piena potenza creatrice divina).

Per Cusano ogni essere riceve Dio totalmente (anche se non in modo assoluto, ma in modo perfetto, relativamente cioè alla sua natura). Ecco che tutte le cose hanno una propria perfezione e bellezza e tutte hanno gli strumenti per raggiungere il fine ad esse proprio.

Alla fine del secondo cap. del II libro:
“ Siccome Dio comunica l’essere senza .................. e senza invidia, ecc..” “ogni essere creato da dio ha una perfezione particolare “regalatagli dall’Uno” e non desidera qualcosa di diverso dalla propria natura, ma non desidera altro che conservarlo e perfezionarlo senza che si corrompa”
SIAMO NEL DESIDERIO: Il desiderio di ogni singolo essere è quello di conservare il proprio stato, senza che si corrompa. Questo punto determina un elemento di tensione nel pensiero cusaniano (punto sul quale farà leva Bruno).
SE OGNUNO DESIDERA ESSERE CIO CHE E, PERCHE LA MATERIA DESIDERA LA FORMA (per Aristotele la materia desidera la forma per ricevere quella perfezione che essa non possiede. Questo punto continua ad essere sostenuto da Cusano: la materia è pura potenzialità e, per passare all’atto, desidera l’intervento della forma)? Se il desiderio nasce dalla spinta ad essere conformi alla propria natura, allora la materia non può desiderare la forma (che non è conforme alla propria natura)

Bruno parla quasi in tutte le opere della materia, soprattutto nelle sue opere magiche.
Leggiamo un passo dal “De unculis in genere”(?) (Trattato sui vincoli), un’opera magica di Bruno:
Per Bruono il vincolo d’amore non è altro che la tendenza di ciascun essere a raggiungere la propria perfezione. quando una cosa imperfetta desidera essere condotta a perfezione, essa desidera questo non a partire dall’imperfezione, ma perché essa partecipa della perfezione in qualche modo.
→ PER BRUNO L’AMORE E LEGATO AL DESIDERIO DI PERFEZIONE.
Se una cosa imperfetta desidera perfezione, è chiaro che essa deve avere qualche contatto con la perfezione. L’oggetto del desiderio testimonia della qualità del soggetto che desidera.

La materia è cosi desiderosa di perfezione che essa non desidera soltanto un’unica forma, ma le desidera tutte (perché nessuna forma riesce a liberare la materia dalla sua imperfezione ← concetto aristotelico mantenuto da Cusano).

BRUNO DICE: SE DICIAMO CHE LA MATERIA DESIDERA CIO CHE E CONFORME ALLA PROPRIA NATURA, E SE IL DESIDERIO PORTA A PERFEZIONARE IL PROPRIO ESSERE, ALLORA NON POSSIAMO CONTINUARE A DIRE CHE LA MATERIA DESIDERA LA FORMA (addirittura non una sola, ma molte).
L’oggetto desiderato da informazioni sulla natura del soggetto: un soggetto che ha desideri intellettuali sarà un soggetto intellettuale. SE PENSIAMO PERO AD UN SOGGETTO CHE DESIDERI TUTTE LE FORME, ALLORA QUESTO SOGGETTO Può ESSERE SOLO DIO. “PERFETTISSIMO E QUEL PRINCIPIO CHE DESIDERA DIVENTARE TUTTE LE COSE. CON IL SUO DESIDERIO CERCA NON UNA FORMA PARTICOLARE, MA LA FORMA UNIVERSALE E LA PERFEZIONE UNIVERSALE.” ← Vediamo che questo principio ha la natura di Dio. “Di tal fatta è la materia in generale, al di fuori della quale non si dà alcuna forma”.

Il fatto che la materia desideri tutte le formi ci dice cusanianamente che quel principio non appartiene all’esplicato, ma all’assoluto. Quel desiderio di perfezione non è indice di imperfezione (come voleva aristotele), ma dato che quel desiderio è assoluto, allora l’assolutezza di questo desiderio non può che appartenere al mondo assoluto, e non al mondo esplicato. “DUNQUE LA MATERIA E UN QUALCOSA DI DIVINO, COSI COME LA FORMA NON E NULLA OPPURE E QUALCOSA DI DIVINO. MA LA MATERIA E QUALCOSA SOLO DAL MOMENTO CHE E NELLA MATERIA”.

→ PER BRUNO LA POTENZA ASSOLUTA DELLA MATERIA LA POTENZA ASSOLUTA DI DIO COINCIDONO (mentre abbiamo visto sopra come Cusano distingua i due piani).

SUNTO FONDAMENTALE:
Cusano parte dal desiderio, e sul filo di questa riflessione distingue la potenza di dio da quella della materia → distingue dio e materia.
Bruno ripercorre lo stesso iter speculativo a ritroso, mostrando però come dio e materia abbiano la stessa perfezione → come Dio e materia siano la stessa cosa. La materia non è un principio che appartiene al mondo finito, ma al mondo infinito, perché se ogni essere desidera secondo la propria natura, un essere che desidera acquisire tutte le possibili forme non può altro che essere divino.
IL FONDAMENTO DELL’ESSERE NON E DUNQUE, COME VUOLE CUSANO, UN DIO CHE CREA LA MATERIA, MA, PER BRUNO, UNA MATERIA CHE E ESSA STESSA DIVINA.

Parentesi storica: Bruno non elabora questa strategia in modo originale, ma si serve della dottrina dell’”incoatio forme” di Alberto Magno (oltre che del de docta ignorantia di Cusano). Egli si era posto il problema di giustificare perché la materia desiderasse la forma. Alberto Magno si era rifatto alla dottrina stoica della ragioni seminali: la materia era il luogo dove esistono solo gli abbozzi della forma, ma non un luogo privo di forme, per cui essa desidera acquisire la forma nella sua pienezza.



Filosofia teoretica 15-11-2007

Il concetto di materia in Giordano Bruno. La materia sintetizza la trama di esistere dell’essere.←Concetto di materia elaborato nel de la causa principio et uno, partire dalla def. aristotelica di sostrato e potenza.
Bruno ne deduce che la materia non si definisce allora come corporeità, ma come potenza assoluta→di Dio→ diventa il fondamento tanto del corporeo quanto dell’incorporeo.

Nel de umbris bruno riprende un capitolo del de docta ingrantia (il terzo), quello sulla fede, che Bruno riporta apparentemente fedelmente. Invece Bruno: si crede attraverso la fede. Questo ce lo insegnano i teologi ed i filosofi, ma ce lo insegna la natura: la forza che opera i fenomeni naturali rimane sempre nascosta. E una potenza che opera in modo nascosto, e questo testimonia la validità del metodo seguito tanto da filosofi quanto da filosofi. (APPARENTE FEDELTA, MA IN REALTA DISTINZIONE). Le due fides (dei filosofi e dei teologi), sono riflessi di una prima fides originaria, la quale spiega il susseguirsi dei fenomeni naturali. Entrambi i metodi della fede (teologi e filosofi) sono validi, e sono resi validi dalla teoria sulla materia.
Un sinonimo del concetto di materia bruniano è il termine spinoziano di sostanza.

Esaminiamo il lessico di Cusano per affrontare il testo LE CONGETTURE.

La predica al Padre nostro (prima opera delle congetture) è stata composta più o meno nel 1340. Anche il de docta Ignorantia è del 1340 (→contemporaneo).
La predica al Padre nostro è una predica scritta in tedesco per una piccola cerchia di uditori (→ tipo diverso del trattato latino del de docta ignorantia).

Nel de docta ignorantia l’arrivo del cammino speculativo sono 3 categorie trinitarie.

Vediamo a questo punto come si comporta Cusano “quando fa il prete e non il filosofo” ;-P

Incipit: Gesu, pur nella sua umilissima natura umana, era dio, cosi erano divini i suoi insegnamenti → anche la preghiera da lui insegnata. Cosi come la divinità si è nascosta nella carnalità di Cristo, cosi la divinità dell’insegnamento si cela dietro le parole di Cristo”.
Analizziamo: Gesù era veramente Dio (si parte da un dato di fede → notiamo come, quando fa il prete, Cusano parte da dati di fede → valorizza lo sforzo filosofico del de docta ignorantia).

Analisi preghiera
“Padre nostro”: Cusano vede due elementi di spicco (in un caso da teologo: il Padre rimanda a dio, il “nostro” pone immediatamente l’accento sulla molteplicità) → tutto ciò mostra come il molteplice abbia sua quiddità nell’uno.
NOTIAMO COME QUESTE DUE PAROLE, “PADRE NOSTRO” SONO UN INCIPIT PER RIMETTERE IN AZIONE LE CATEGORIE DEL DE DOCTA IGNORANTIA.

Cusano si trova di fronte ad un punto problematico: “padre nostro CHE SEI NEI CIELI”. Se ripensiamo alla cosmologia sviluppata alla fine del II Libro del de docta, il concetto di infinito permetteva a Cusano di spezzare la dottrina secondo la quale la Terra si trovava in un punto basso e quindi fosse portatrice del peccato (egli si è sforzato di mostrare come la Terra sia stata creata da dio→ come anch’essa sia divina).
Notiamo come Cusano spezza queste parole, perché ora non ha preoccupazioni teologiche, bensi preoccupazioni filosofiche. Per Cusano l’assoluto si caratterizza di essere ciò che è. ECCO COME CUSANO ESCE DAL PROBLEMA:
“Per il fatto che il padre è egli è l’essere di tutte le cose e cosi dio è tutto ciò che è in ogni essere che è”. Se pensiamo che Cusano sia approdato alla trinità nel de docta solo perché era un prete, allora qui lo si dovrebbe accusare di filosofeggiare invece di fare il prete: infatti qui ha una visione del tutto filosofica del padre nostro, andando a “scanzare” il significato che avrebbero i termini “padre nostro CHE SEI NEI CIELI” (significherebbe porre una scissione fra un cielo divino ed una Terra peccaminosa)”
Cusano nota che Dio è l’essere di tutte le cose: Dio non si nega a nessun ente esplicato. La stessa distinzione fra conoscente e conosciuto salta, in quanto tutti derivano da un unico essere.
“NEI CIELI” viene spiegato cosi: per Cusano questo significa dire che Dio si trova fuori dal piano sensibile, proprio perché nella sua pienezza, Dio non è mai risolto nel sensibile e non può essere colto nel sensibile, ma soltanto con l’intelletto.
“SIA SANTIFICATO IL TUO NOME”. Nella storia vi sono state diverse interpretazioni legate a questo passo. Esaminiamo quali erano le interpretazione precedenti a Cusano con le quali egli si confronta, per capire la genialità della proposta Cusaniana.

[Come si fa dire che Dio è trascendente se si esplica in natura? La natura non è tutto Dio. Essa pone addirittura un limite all’infinità divina. Il riconoscimento di Dio e della sua unità può essere dato solo all’intelletto, contrariamente a quanto può fare la ragione. La conoscenza di Dio si dà proprio nel momento in cui si scoprono i limiti dei nostri concetti. Il finito (es: una pietra) rivela Dio, ma anche lo nasconde. Chiedersi come fa Dio ad essere trascendente se si esplica in natura significa ragionare con la ragione, e non con l’intelletto (infatti solo per la ragione vale il principio di non contraddizione, mentre noi sappiamo che per conoscere Dio dobbiamo far saltare le nostre categorie logiche). Certo: il modo in cui l’uomo recepisce la divinità è qualitativamente diverso del modo in cui lo recepisce la pietra (mentre per Bruno vi è solo una differenza “quantitativa”, potremmo dire, ma non qualitativa, perché tutto è materia ed ha pari dignità)].

Cusano, nel de docta, mostra come Dio ha necessairamente dovuto prendere forma umana per salvare l’uomo, perché per Cusano l’uomo è l’essere privilegiato della natura, in grado di ricercare l’assoluto.
Un’altra posizione è quella di Erasmo da Rotterdam ne “l’elogio della follia”. Quando Erasmo parla della follia dei teologi, egli confronta la la fede degli apostoli, che veneravano Cristo quale Dio e uomo, mentre i teologi stanno a chiedersi se dio avrebbe potuto incarnarsi in una zucca. E ovviamente una battuta polemica. Da un punto di vista teologico, data l’onnipotenza divina, egli poteva benissimo redimere l’uomo incarnandosi in una zucca (→ ha scelto arbitrariamente di incarnarsi nell’uomo).
MENTRE PER CUSANO DIO ERA NECESSITATO DI INCARNARSI NELL’UOMO, PERCHE L’UOMO E L’UNICO ESSERE CAPACE DI ESSERE ALLO STESSO TEMPO ASSOLUTO E CONTRATTO, IN QUANTO EGLI COMPRENDE IN SE TUTTE LE IMPERFEZIONI DEGLI ENTI INFERIORI E LI ELEVA ALLA PERFEZIONE DI DIO E DELL’ESSERE TRAMITE LA CONOSCENZA.
Bruno invece è più tragico, perché il problema è che un serpente, anche se avesse 10 volte più ingengno dell’uomo, senza braccia, senza lingua, senza intelletto ecc. non se ne farebbe niente. Tutti gli enti hanno pari dignità. Per Bruno esiste una sola potenza conoscitiva, la quale si sviluppa in modo diverso a seconda della struttura, della costituzione corporea degli esseri (→ per Bruono una pietra potrebbe immaginare Dio, mentre per Cusano no: questa è sola prerogativa dell’uomo, in quanto egli è l’unico ad avere la ragione e l’intelletto).

[ERIUGENA: NONOSTANTE E UN MEDIEVALE, HA FATTO VEDERE COME IL CORPO ABBIA UNA GRANDE DIGNITA (TANTO E VERO CHE VI SI E INCARNATO DIO)→ Non bisogna abbandonarsi alle categorie orientative, secondo cui ad es. “nel medioevo si è svalutato il corpo, nel rinascimento lo si rivaluta”.]
“SIA SANTIFICATO IL TUO NOME”: Coordinate teoriche che cusano aveva di fronte a se.
1 quella aristotelica, secondo cui i nomi sono convenzionali, effetto di una scelta dei parlanti (assegnazione di un segno linguistico ad un oggetto)
2. linea platonica: il nome no designa convenzionalmente una cosa, ma ne esprime l’essenza e permette di interagire con essa.

In epoca medievale queste due correnti si sintetizzarono in modi dissimili, anche perché la questione del linguaggio si intrecciò con gli studi sulla storia sacra ed interagi con la dottrina secondo cui esiste una storia mondana ed una storia sacra (elezione sul popolo ebraico e poi nuovo testamento ecc.). L’intreccio è singolare, strano ed interessante.
De vulgari eloquentia di Dante alighieri (per spiegare questo intreccio): testo paradigmatico per mostrare come la questione venga affrontata in modo medievale e come queste concezioni platonico aristoteliche vengano ad intrecciarsi con la storia sacra.
Dante vuole argomentare il primato della lingua volgare rispetto al latino, insistendo sulla maggiore naturalità del volgare. Il latino bisogna studiarlo, il volgare viene appreso istintivamente (rappresenta è un fattore naturale). Il linguaggio parlato è dunque più vicino alla natura → È PIU NOBILE.
Dante stabilisce un nesso strettissimo tra la vocazione politica dell’uomo ed il linguaggio. L’uomo si distingue tanto dal silenzio degli esseri superiori, tanto dagli esseri muti, grazie al linguaggio → linguaggio è la sfera umana, la sua peculiarità.
Gli angeli (dante riprende tommaso, summa teologie) non hanno bisogno di parlare, dato che comunicano in modo ineffabile, perché si tratta di menti perfettamente trasparenti e sopratutto si tratta di menti che sono in perfetta sintonia, unite da uguali sentimenti→ non hanno bisogno di parlare. Per ragioni opposte gli animali non parlano: seguono gli stessi ritmi, sono guidati dall’istinto e non hanno bisogno di parlare. NOTIAMO CHE DOVE NON CI SONO DIFFERENZE NON C’E BISOGNO DEL LINGUAGGIO. L’uomo ha il linguaggio perché ha un carattere fondamentalmente sociale.
L’uomo si distingue dal mondo animale proprio per essere dotato di caratteri più compositi (sono incisive le differenze). all’uomo è estraneo sia la trasparenza dell’angelo che quella dell’animale. LA ROTTURA DELL’UNIFORMITA FA NASCERE NELL’UOMO IL LINGUAGGIO.
Il sé umano non è conoscibile agli altri →ha bisogno di uno strumento per decifrarlo← il linguaggio.
Tutto questo sembra coerente con Aristotele. Ma dante non può avallare questa visione del mondo, perché il testo sacro indica che la molteplicità delle lingue non dipende dall’uomo, ma dalla torre di Babele. Di fronte a questo stimolo, dante non può andare oltre, deve superare questo scoglio.
Egli allora intreccia questa riflessione con la dottrina di una confusione originaria delle lingue. La lingua naturale, parlata dall’umanità prima del peccato, si costituisce come esempio perfetto di linguaggio (→ all’inizio c’era corrispondenza fra nomi e cose). Con la torre di babele irrompe la confusione, le lingue si moltiplicano e si distinguono. Si distinguono secondo l’esistenza dei vari gruppi d’artigiani che lavoravano alla torre (quest’intuizione è tipicamente dantesca). I gruppi di lavoro, che dovevano lavorare in comune, dopo la confusione linguistica costruirono dei segni arbitrari, i quali erano funzionali a svolgere insieme il lavoro.
A NOI INTERESSA NOTARE IL NESSO COSI STRETTO FRA LINGUAGGIO E LAVORO IN COMUNE. Dalla torre di babele non si nega la comunicazione, ma nascono diversi linguaggi. Perché? Secondo Dante perché l’uomo non è un isolato: in quell’occasione gruppi di uomini diversi lavoravano insieme. NASCITA DELLA LINGUA →← IMPEGNO IN COMUNE.
Questi gruppi di lavoro non sono più distinti dall’etnia, ecc. ma sono accomunati dal tipo di lavoro che svolgono insieme.
Dante ricorda che sempre il testo biblico attesta come non tutti gli uomini avevano partecipato alla costruzione di Babele (coloro che si limitarono ad osservare la costruzione della torre saranno i padri del popolo eletto). Per questo alcuni uomini sono stati salvati dalla sciagura di babele (conservano la lingua originale, che aveva un rapporto diretto con le cose). ← DANTE RIESCE A SALVAGUARDARE L’ESISTENZA DI ENTRAMBE LE TEORIE: Esistono le lingue storiche che sono “segni linguistici”, mentre l’ebraico è la lingua originaria (CHE PERO NELL’EVOLVERSI SI CONTAMINA CON GLI INFLUSSI LINGUISTICI DELLE ALTRE LINGUE).

Su questa interpretazione si fondarono nel 1400 quelle correnti dell’ermetismo cristiano (es: Pico della Mirandola). Pico ammirava la cabalistica ebraica fondandosi su questa teoria: per pico nell’ebraico le parole rappresentano l’espansione delle cose. QUESTA LINEA INTERPRETATIVA, SUL FINIRE DEL MEDIOEVO, SI E FATTA CARICO DI CARATTERI MAGICI. La lingua ebraica era quasi un calco del linguaggio stesso di Dio: linguaggio che non si limitava ad essere segno convenzionale, ma la cui parole creavano (Es Genesi: “sia la luce, e la luce fu”). Da qui tutta una serie di ricerche verso la kabbalistica: nascevano dal presupposto che in questa lingua si nascondevano, disperse qua e là, delle parole magiche in grado di modificare la realtà.

De docta ignorantia: nominalismo. la ragione, lavorando per contrapposizioni, elabora i nomi che non sono adeguatio alle cose (le quali nella loro vera essenza sono Dio→ non coglibile tramite il carattere logico del linguaggio).

Il linguaggio è essenziale per la conoscenza (illustra sempre un più o un meno, crea una linea unitaria ma approssimativa), ma inessenziale quando si parla di cogliere l’assoluto (la precisione assoluta è impossibile, infatti Dio lo cogliamo quando il linguaggio, anche quello matematico incatenato in categorie logiche, si dimostra insufficiente).

Rispetto al mito di Babele, come si trova Cusano?

[PER CUSANO IL MONDO E INDEFINITO (né finito né indefinito), PERCHE IL MONDO E TUTTO CIO CHE PUO ESSERE (non come manifestazione assoluta della pienezza dell’atto, ma come realizzazione di possibili che sono mantenuti nella materia).
IL MONDO E INDEFINITO: NON VI E NIENT’ALTRO CHE IL MONDO, QUINDI LA DOMANDA E SCIOCCA. MA IL MONDO COMPRENDE TUTTE LE COSE ATTUALMENTE ESISTENTI, MA COSTITUISCE UNA VERSIONE DEPAUPERATA DELLA PIENEZZA DIVINA, MA ANCHE QUELLI CHE NON SONO ESISTITI (CHE RIMARRANNO SEMPRE ETERNAMENTE POTENZIALI).
Per cusano non è solo la questione degli opposti, ma dei contraddittori (per Cusano esiste, potenzialmente quindi in Dio, sia una rosa bianca che la stessa rosa nera).]




Filosofia Teoretica 22/11/2007

opera apocalittica + rapporto tra vita e autore.

Croce: “i morti” nei frammenti di metafisica. Muovendo da una posizione idealistica, analizza il rapporto fra vita dell’autore e opere. Croce vede il sé empirico come un niente, un insieme di pulsioni che passeranno. Per Croce solo le azioni sussisteranno anche dopo la morte, quindi attraverso l’opera (che sola sopravvive) l’individuo muore a sé stesso, ma cosi si assicura l’unica forma di immortalità. Nello stilare uno scritto muore il sé empirico (dato che l’accidentale non viene riportato nell’opera), ma resta solo la vera essenza dell’autore, che nell’opera vive e continuerà per sempre a vivere.
Quello che sopravvive nell’opera non è più un flatus vocis (l’individuo empirico è solo un nome, un flatus vocis), ma congelato nell’opera è l’IO più autentico. Questo avviene anche per quanto riguarda la produzione artistica e per qualunque produzione in generale.
Quello che sopravvive nell’opera è l’io essenziale, è la manifestazione di quell’esperienza che senza l’opera sarebbe rimasto un grumo di pulsioni destinate a svanire.

Lettera di Croce a Renato Serra: Croce parla del fastidio che gli provocano le domande sulla sua vicenda personale, osservando che, a suo giudizio, non ha alcun rilievo particolare quale sia il cavallo che ha montato il suo spirito (ai posteri questo non deve interessare). ← Notiamo l’intreccio dei vari elementi simbolici. Viene ripresa qui la celebre immagine dell’anima come nocchiero dei due cavalli (mito platonico); l’altra possibilità ci porta al servo arbitrio di Lutero: “la volontà umana è come un cavallo condotto o da Dio o da Satana, e va dove lo guida il suo cavaliere”. ← COMUNQUE ABBIAMO UN CAVALLO CHE NON E UN PUNTO D’AZIONE, UN SUPPORTO. L’IO EMPIRICO SERVE DA SUPPORTO ACCIDENTALE PER CIO CHE ACCIDENTALE NON E.
Per Croce lo spirito è eterno ed assoluto, ma l’io empirico no. Si distinguono in questa prospettiva due dimensioni (empirica e spirituale). L’io empirico appartiene alla “dimensione del cavallo.” Il sé autentico è invece affidato alle sue opere (sono le opere che testimoniano dell’individuo), sono esse che testimoniano la vera essenza dello spirito dell’uomo. La vita empirica non ha alcun legame con l’attività intellettuale.
Per cui il fatto che l’individuo, dopo la morte, sopravviva nelle sue opere non è banale, ma si cela qualcosa di profondo: l’opera racchiude l’essenza dello spirito di ogni uomo. L’opera conserva soltanto le tracce di quanto è eterno, annullando gli elementi irrilevanti, perché col tempo l’opera si stacca dalla vita empirica dell’autore (e questo viene comunque auspicato da Croce).

Questa interpretazione è collegata alla matrice idealista che la sostiene e giustifica. Per Croce la vicenda eterna è il disvelarsi dello spirito, la vicenda biografica un supporto accidentale.
“De conjecturis”: questi elementi apocalittici non avrebbero significato. Sarebbero la pretesa arrogante di far esplodere l’accidentale laddove deve solo sussistere l’eterno. Dal punto di vista di Cusano invece lo sguardo è diverso, perché in questo caso la parte che Croce avrebbe definito “il cavallo” non è qualcosa di accidentale che avrebbe potuto svolgersi diversamente. PER CUSANO E PER I CONTEMPORANEI L’ESPERIENZA BIOGRAFICA E STRETTAMENTE CONNESSA ALLA RICERCA FILOSOFICA E NE COSTITUISCE UNA PARTE ESSENZIALE, E QUESTO ALLA LUCE DI UNA DIVERSA IMPOSTAZIONE.
Per Croce quello che conta è il disvelarsi dello spirito, invece per gli autori del 1500 c’è una combinazione di due interpretazioni della storia antitetiche: l’idea del tempo lineare e l’idea del tempo ciclico.
Da un lato la visione ebraico cristiana: sviluppo lineare della storia, dalla Genesi all’Apocalisse, che scandiva la vicenda dell’estendersi del cristianesimo nel mondo, vicenda che può seguire tempi dissimili.
Modello di carattere biologico, usato anche da Machiavelli per spiegare l’evolversi degli stati: la storia segue ritmi ciclici di carattere biologico (nascita, declino, morte).

Platone no è univoco su qusto punto. Nel timeo: catastrofi naturali che mettono fine alle civiltà. Gli egiziani hanno un passato da ricordare, mentre i greci no, perché sono stati spesso distrutti dalle catastrofi naturali. (Timeo).
Nel politico tematizza il tempo ciclico. Comunque c’è un tempo guidato da Dio e un tempo in cui Dio si ritrae → comunque problematico. Una parte della storia sembra in mano a Dio e l’altra parte in mano all’uomo (per questo nel 1500 vi saranno tante interpretazioni di questa tematica).
All’inizo del 1400 esistevano anche altre tradizioni (ad es. quella astrologica: gli astri tendono a muoversi per poi tornare su se stessi. Si pensa dunque ad una visione della storia dello stesso tipo. Oppure modello contadino: susseguirsi delle stagioni).
Dalle interpretazioni possiamo mettere a fuoco alcuni dati: c’è un tempo che appartiene a Dio, ma c’è un tempo che appartiene all’uomo. ECCO CHE QUEL DATO EMPIRICO, IRRILEVANTE, IL TEMPO IN MANO ALL’UOMO, PUO DIVENTARE IL MOTORE DELLA STORIA, IL PUNTO DI PARTENZA PER UNO SVILUPPO DELLA STORIA AUTONOMO (BASTAVA PRENDERE AD ESEMPIO IL 1500, DOVE REGNANO I SOVRANI E GLI STATI).
PIU CHE IL TIMEO, E STATO IL POLITICO PLATONICO A FORNIRE GLI STRUMENTI PER QUESTI DIBATTITI.
C’E QUINDI LA POSSIBILITA DI UN MUTAMENTO NELLA STORIA, DEL QUALE L’UOMO E RESPONSABILE (e ne porta quindi il peso). QUESTO SPINGE I PRIMI AUTORI DELL’ETA MODERNA A PRESENTARE UN NESSO FORTE FRA AUTOBIOGRAFIA E RICERA FILOSOFICA.
Un esempio è Ficino (grande traduttore di Platone): egli individua nella vicenda biografica una possibilità di tornare alla verità. Le scelte biografiche sono la possibilità di inaugurare un nuovo ciclo culturale. E proprio la vicenda biografica che, per Ficino, diventa elemento centrale del rinnovamento della storia, INTRECCIANDO VICENDE FILOSOFICHE E VICENDE BIOGRAFICHE.
Ficino è stato autore di un grano numero di scritti che circolano sotto forma di scambio epistolare, nei quali assistiamo ad un continuo intreccio fra i due piani.
Quel rapporto gerarchico crociano viene ribaltato. Dal punto di vista di Ficino le opere di un autore si guistificano proprio a partire da quella configurazione fisica e biografica che è tipico di ogni singolo autore.
C’è uno scritto.............., dove Ficino afferma che al momento della sua nascita fossero disposti gli astri in tal modo da giustificare il suo essere. Cosi Ficino spiega sia l’elemento assoluto di Croce, sia quello accidentale-biografico.
Ficino si diceva afflitto, secondo il linguaggio medico dell’epoca, da malinconia (oggi diremmo depressione → momenti di abbattimento e momenti di euforia). In questi scritti Ficino non individua però una distinzione fra l’io malato e l’io euforico: anche l’io malato è in grado di far filosofia, così come l’io euforico. L’attività filosofica deriva da tutte e due le esperienze. FILOSOFIA E BIOGRAFIA NASCONO DALLO STESSO FONDAMENTO E SI RISPECCHIANO RECIPROCAMENTE: la malattia non è esorcizzata dalla filosofia, ma per Ficino la malattia è essenziale alla filosofia. La malattia è, per Ficino, segno del suo particolare destino, che intreccia sia quello che è assoluto che quello che è accidentale.
E la malinconia che spinge Ficino a cercare gli antichi filosofi, e questo acquista un significato eccezionale a quella malattia, perché rimette in moto la storia, storia che non era guidata da un intelletto superiore, ma dalle proprie azioni. La malattia diventa dunque l’altra faccia della ricerca filosofica.

Lo stesso modulo può essere trovato in autori quali Bruno e Campanella (ci spostiamo dunuque dall’inizio del ‘400 (Ficino) alla fine del ‘500 (Bruno e Campanella)).
Se in Ficino c’è la consapevolezza dell’intreccio di malattia e filosofia e quindi un continuo lavorare su se stesso, in Bruno si ha una percezione lacerante di questa stessa accezione che comunque è anche di Bruno: PER BRUNO L’INDIVIDUO OSCILLA FRA ENTUSIASMO E DISINCANTO.
Bruno si percepiva come un buono Mercurio mandato dagli dei per rinnovare la storia. Nel de umbris Bruno si paragona ad uno dei buoni Mercuri che gli dei inviano sulla Terra per riscattare l’umanità (elemento entusiastico, autocelebrativo, che si trova anche nei dialoghi italiani). Questi ritratti si accompagnano ad un altro tipo di ritratto che ricorre spesso in Bruno: egli si spoglia di quest’aurea messianica in cui Bruno si presenta come lo zimbello di tutti, che non riesce a trovare collocazione né interlocutori, si sente solo. Egli comunque riesce a trovare la forza di filosofare per trovare una soluzione alle lacerazioni del suo secolo.

Campanella nei componimenti scritti in prigionia più volte paragona la sua vicenda a quella del profeta perseguitato → lotta fra luce e tenebra, fra potere e forza della ragione. Vicende squisitamente individuali vengono interpretate come messianiche: ognuno può diventare il punto di partenza per un nuovo sviluppo della storia. Non è Dio che regola la storia, ma il mondo si sviluppa all’interno di forze casuali, alle quali appartengono anche le scelte umane.

Questo excursus è utile per cogliere il de conjecutris (le congetture): vi sono riferimenti alla letteratura apocalittica, che riprendono e richiamano gli inviti ad applicarsi attivamente nella storia. Questi non sono richiami (presenti anche alla fine della dotta ignoranza) arroganti, ma battono un punto che era fortemente sentito quanto da Cusano e dai suoi contemporanei: l’idea che queste proposte intellettuali non erano parte di una storia già scritta, ma parte di una vicenda che poteva curvarsi verso il rinnovamento o verso la decadenza della storia.
Per questo egli può dire che, di ritorno dalla Grecia, riceve l’illuminazione e scrive la dotta ignoranza. Potrebbe sembrare un accento troppo eccessivo sull’autobiografia, che comunque assume il suo senso filosofico all’interno del panorama filosofico del suo tempo.
Cusano individuava, in questo nuovo metodo filosofico, una possibilità offerta all’occidente di concepire un nuovo modo di pensare il rapporto fra le religioni ed i popoli.

La natura apocalittica del testo prelude ad uno svelamento di una verità importante: il rapporto stretto fra conoscenza e creazione.

[Il tema del tempo viene definito da Platone con elementi che possono essere definiti “apocalittici”: il fatto che Dio abbandoni la storia + il fatto che vi siano vicende tragiche nella storia (si spiega il perché della decadenza, però disegna anche un arco della storia al cui interno diventa centrale l’azione dell’uomo, pur all’interno della decadenza. La storia è libera non per un atto di ribellione umano, ma proprio per garantire il fatto che la storia possa tornare indietro Dio lascia le redini. ECCO CHE ALLORA GLI AUTORI DEL 1500 PENSANO: SEMBRA POSSIBILE ORA PENSARE AD UNA STORIA CHE NON FINISCE PER FORZA IN MODO DECANDENTE, MA NELLA QUALE POSSIAMO VEDERE UN NUOVO INIZIO LASCIATO IN MANO ALL’UOMO).] ← APPUNTO DUBBIO E POCO CHIARO

[Attese millenaristiche: erano state valorizzate anche dalla scoperta dell’America. Per Colombo la sua scoperta era il segno della possibilità di accellerare la storia. Infatti se, come dice l’apocalisse, la fine del mondo ci sarà quando la parola di Dio sarà annunciata fino agli estremi confini della Terra, ora questi confini venivano scoperti ora! Colombo nelle sue lettere afferma di sentirsi come investito di una missione divina. Queste attese apocalittiche vengono usate anche dalla Spagna di Filippo II per giustificare la brutalità della loro conquista e della loro opera di tentare di inculcare con la forza. LO SPOSO STAVA ARRIVANDO, ERA IMPORTANTE CHE QUANTI PIU POSSIBILE SIANO SEDUTI A TAVOLA, ANCHE A COSTO DI COSTRINGERLI: ERA COMPITO DI OGNI RE CRISTIANO CONTRIBUIRE A QUESTO PROGETTO. Gli stessi calvinisti insistevano per un intervento forte in politica proprio alla luce di queste attese millenaristiche. La propaganda puritana batteva proprio su queste attese regolaristiche. Anche la propaganda di Elisabetta batteva su queste attese millenaristiche, ma sposava una prospettiva diversa da Filippo II. Elisabetta aveva scopi anticattolici ed antipuritani. Se Filippo II insisteva sullo spingere gli invitati alle nozze, Elisabetta II usa il modello di una conquista, la quale inisteva non sull’imposizione, ma sulla necessità di aprire un dialogo ed entrare in rapporti (e solo in un secondo momento fare proselitismo, comunque senza mai imporre la fede con la violenza). Ecco allora che la Spagna accusa gli inglesi di essere interessati solo al commercio (per questo bisognava secondo gli inglesi, dice Filippo, instaurare rapporti e solo quelli, senza alcun tipo di violenza: il caos della guerra boicotta il commercio)].

Dato che si aspettava la fine del mondo, non importa, nel 1500, se la storia è ciclica (e quindi se si sta alla fine di un ciclo), oppure se è lineare (e si sta alla fine della storia universale): quello che viene messo a fuoco è il peso che ha l’individuo con le sue scelte, di rinnovare un tempo che va verso la decadenza, per salvare il mondo e sé stesso o dalla dannazione eterna (se storia lineare) o da quella che avverrà nel breve futuro (se storia ciclica) e quindi proiettare la storia già verso l’inizio dell’epoca successiva (anticiparne l’inizio in qualche modo).

Notiamo come anche storicamente, fra cadute di imperi, scoperte di mondi ecc. è giustificabile la visione apocalittica del mondo.

Nel de conjecutris Cusano presenta una rivoluzione gnoseologica grazie al nesso stretto che viene presentato fra pensare a creare. La conoscenza viene concepita non come capacità di riprodurre in modo adeguato il mondo esterno, non riprodurre la trama ideale del reale, ma presentare invece un modello di conoscenza nel quale lo sviluppo delle conoscenze fosse espressione di una libera e spontanea attività creativa.
Infatti il cap. II si intitola: L’ORIGINE DELLE CONGETTURE.
“Le nostre congetture devono avere origine dalla nostra mente cosi come il mondo ha origine da Dio” (p. 207 cap II).
NOTIAMO COME “LE CONGETTURE” PRESUPPONGONO PER FORZA L’IMPOSTAZIONE DEL DE DOCTA IGNORANTIA.
Quest’affermazione ci riporta al secondo libro del de docta, dove Cusano aveva spiegato il rapporto fra Dio, mondo e mente umana. Tutto porta il segno del principio da cui deriva. Il mondo porta il segno di Dio, che è il suo creatore. Ogni oggetto è segnato dalla divinità, portandone impresso il sigillo. Allo stesso modo la mente umana, in quanto è esplicazione della divinità, è segnata dal principio da cui deriva, ed in questa prospettiva ecco che fra dio e mente esiste un rapporto di continuità.
Cusano fa ora un passo avanti. Se effettivamente dio rappresenta il quid di ogni ente e ogni singola cosa è segnata dalla potenza divina, allora anche la mente umana dovrà presentare il segno divino di cui è esplicazione. Questo significa che quando la mente umana elabora pensieri non può essere considerata il punto di partenza di immagini confuse, senza legami con la realtà. Se la mente esprime l’essenza divina, allora anche la creazione della mente non potrà non ripetere la stessa forza creatrice della divinità, seppure in modo finito ed imperfetto. Ecco che le congetture devono avere origine dalla nostra mente cosi come Dio crea il mondo. La mente umana non può creare in modo disperso, essa partecipa della stessa struttura dell’esplicarsi di Dio.
“Quando la mente umana, nobile immagine di Dio, partecipa.... enti razionali a similitudine degli enti reali”. Di nuovo è sotteso il ragionamento del de docta ignorantia.
Tra mente umana e mente divina si dà un’analogia di strutture (dato che la mente è creata da Dio). gli enti razionali che crea la mente sono di necessità a similitudine degli enti reali; infatti la stessa struttura che crea gli enti reali si ritrova nella mente umana: entrambe le cose (le cose umane e la mente umana) portano lo stesso simbolo ontologico, il marchio divino. COSI CUSANO PENSA DI AVER MESSO INSIEME LA PROSPETTIVA PLATONICA E QUELLA ARISTOTELICA.
Da un lato LE CONGETTURE (= I CONTENUTI DELLA MENTE UMANA) nascono dalla mente umana (Aristotele), ma dall’altro non sono puri segni e convenzioni, ma corrispondono alle forme del mondo (Platone).
NON C’E DUNQUE SECONDO CUSANO NESSUN’IDEA INNATA NE UN PATRIMONIO INNATO CHE VIENE RICORDATO, MA LA MENTE CREA ENTI SEMPRE NUOVI A CONTATTO CON L’ESPERIENZA, I QUALI PERO SONO SEMPRE A SIMILITUDINE DEGLI ENTI REALI, IN QUANTO ESISTE UNA STRUTTURA CONOSCITIVA INNATA DI TUTTE LE MENTI UMANE.
L’UOMO HA DUNQUE LA POSSIBILITA DI AVERE UNA CONOSCENZA FORTE DEL MONDO: L’UOMO HA LA POSSIBILITA DI ATTUARE STRATEGIE CHE MODIFICHINO LA REALTA, PROPRIO PERCHE EGLI LAVORA CON IDEE CHE CORRISPONONO ALLA STRUTTURA DELLA REALTA. INOLTRE C’E ANCHE SEMPRE CONFORMITA FRA LE CONGETTURE ELABORATE FRA I DIVERSI SOGGETTI (C’E SIMILITUDINE, MA NON PERFETTA UGUAGLIANZA ← cmq si valorizza l’elemento empirico di cui si parlava prima). Vi saranno dunque infiniti modi di conoscere, creando un mondo mentale espressione della sua singola originalità. Ognuno curva, deforma nella propria particolare prospettiva quelle esperienze che fa del mondo.
TUTTE LE SINGOLE CONOSCENZE SONO SIMILITUDINE DELLA VERITA (che comunque rimane inafferrabile in modo pieno).
“La mente umane, conclude Cusano, è forma congetturale del mondo come quella divina è quella reale del mondo.” Mente umana e mente divina sono centro di irradiazione di questi due mondi: la mente umana genera il proprio mondo mentale, la mente divina genera il mondo esplicato.

Vediamo come Cusano utilizza strumenti delle congetture per riflettere sui piu svariati temi: il rapporto fra dio ed il mondo (elemento teologico), il rapporto fra la mente ed i contenuti mentali (elemento gnoseologico).

QUESTO MODELLO DI CONOSCENZA INSISTE SUL MOMENTO AUTONOMO DELLA CONOSCENZA (non ci si adegua semplicemente alle cose, ma c’è un’originalità individuale). Ecco che la mente umana può essere definita come la complicazione di quello che nel tempo e nello spazio saranno poi i molteplici contenuti dello spazio. Tra mente umana e contenuti mentali c’è quel rapporto di complicazione ed esplicazione che segna tutta la realtà, in quanto struttura originaria di tutto l’essere.




Filosofia teoretica 29-11-2007

Notiamo come Cusano individui una continuità fra le strutture della mente umana e le strutture del mondo.

Cusano individua un elemento di continuità fra la tradizione aristotelica e quella platonica.

Progressiva scendere dell’Unità nel mondo esplicato scandito da gradi, i quali possono essere assimilati alla serie dei numeri. Questa dilatazione manifesta in sé un suo ordine ed una sua regolarità. Cusano individua delle costanti analizzando la scala dei numeri naturali.

L’elemento di continuità individuato rimanda alla logica della progressione matematica (Cap. IV del “de conjecturis”). Cusano mostra come questo sia strutturato in una scansione che ha il suo modello nel numero 4.

(cap IV): “L’1, il 2, il 3 ed il 4 messi insieme fanno il 10, il quale spiega l’unità ...”.

[quando Cusano individua nella docta ignorantia il fatto che l’uno implica il 3, in quanto l’uno contiene la relazione d’uguaglianza e di connessione (identità con sé stessa), Cusano non fa altro che riprendere la linea pitagorica tramite l’interpretazione di Boezio.]

Questo serve a Cusano per mostrare come e perché l’esplicarsi è scandito da un processo. (?)

In questo senso, dal punto di vista cusaniano, l’armonia testimonia come anche in Natura possa esistere un ritmo, che come nota Cusano è quaternario. I primi quattro numero generano la prima esplicazinoe della virtù dell’unità (ossia il dieci) ecc.
QUESTO RAPPORTO NON E CASUALE: la mente umana segue lo stesso ritmo della natura, in quanto anch’essa è natura. Il 4 oltre a rimandare alla tradizione pitagorica illustra quel primo gruppo di principi, il quale nel de docta ignrantia erano stati chiamati in causa per spiegare la natura del mondo esplicato (...................., ....................., l’anima, lo spirito degli universi) (tra p. 126 e 145. LA TIRINNANZI STAVA CITANDO A PARTIRE DALL’INDICE PERO. STIAMO PARLANDO DELLA DOTTA IGNORANTIA).
La stessa struttura è qui (nelle congetture) riproposta sul piano gnoseologico (mentre nel de docta è esposto su un piano cosmologico).

Chiaro riferimento a Plotino: cusano identifica queste 3 (o 4?).......... con Dio, l’anima ed il corpo.

Ficino utilizzerà questa stessa serie in modo diverso. Utilizzerà una serie variata: Dio, l’intelligenza, l’anima, il corpo e la materia, variando e complicando negli ultimi 2 gradi lo schema plotiniano.

Non si tratta di aderenza alla fonte in un caso e di tradimento di una fonte nell’altra.

In realtà Cusano ha obiettivi teorici diversi: Cusano vuole mostrare come la struttura della natura sia la stessa struttura della mente umana e trovi perfetta espressione nella relazione che governa i primi quattro numeri.
Il problema di Ficino è invece un altro: sancire il primato e la centralità umana all’interno del mondo. Ficino vuole mostrare come solo all’uomo sia stato dato in sorte di essere il medium del mondo esplicato e di mediare il rapporto fra le due dimensioni. Ecco che l’anima deve occupare un posto centrale e mediano: non può essere né dio né materia, deve essere intermedia. E proprio in funzione di questo progetto che Ficino altera lo schema plotiniano, uno schema che invece Cusano accetta nella sua integrità, dato che Cusano vuole mostrare come le relazioni che governano i primi quattro numeri siano le relazioni che governano la struttura della realtà. La mente fa uscire quest’unità quaternaria dal numero.

La relazione fra numeri e figure geometriche serve a Cusano per mostrare un processo come si va dai numeri, alle figure semplici, ai solidi, mostrando come si va da una pura entità logica (il numero), che si esplica piano piano diventando solido (questo esplicarsi numerico è figura dell’esplicarsi ontologico della realtà). Ci sono dunque unità che costituiscono il punto di partenza di tutte le serie. C’è il progredire dell’unità nella scala dei numeri, secondo un processo che è identico ma ai quali la mente umana assegna nomi diversi, perché li analizza da processi diversi. Le unità mentali vengono chiamati Dio, intelligenza, anima, ecc., mentre le unità materiali le chiama corpo, ma questo solo perché in realtà vi sono prospettive diverse.
DIO, CUSANIANAMENTE, E MENTE ALTISSIMA E SEMPLICISSIMA (questo ci riporta al de docta ingnorantia).

“Da questa unità originaria di dio deriva un’altra unità contratta, la quale definisce la sostanza divina, determinandola come principio che governa e guida” ← questo è l’anima.

Qui va sottolineato soprattutto il lessico utilizzato da Cusano, il quale procede per uniformità lasicando alla fine una variazione. Cusano per esprimere l’unità si rifà quasi ossessivamente al verbo “chiamare”.
Cusano, senza porsi il problema stilistico, ripete il verbo chiamare tranne nell’ultimo caso, quando parla del corpo. Nell’atto di chiamare è implicito il lavoro della congettura (in quanto ogni nome è una congettura, un’approssimazione, senza mai coglierne la realtà). Non c’è dominio del conoscente sul conosciuto, si tratta di un’approssimazione, APPROSSIMAZIONE CHE TUTTAVIA HA GRADI DIVERSI. In Dio l’approssimazione produce conoscenza, mentre l’ultimo grado, quello della congettura, è il meno chiaro. Proprio per la sua pesante solidità esplicata (del corpo) non può essere dominata dalle categorie dell’intelletto.
Mentre nel caso dell’unità divina l’occhio dell’intelletto non riesce a cogliere la divinità a causa della sovrabbondanza di Dio, nel grado più basso la cecità è dovuta alla privazione d’essere che ha il corpo (questo rende ugualmente inefficaci gli strumenti della ragione).

Questo ci riporta nuovamente alla dotta ignoranza. L’intelletto è presente in tutti gli intelligibili (la sua struttura?). La conoscenza rivela per approssimazione il mondo esterno, MA RIVELA IN MODO FEDELE LA NATURA DEL SOGGETTO CHE CONOSCE!!
La realtà esterna viene colta per approssimazione, ma ciò che è colto rivela fedelmente le strutture del conoscere: in tutte le cose conosciute esiste un elemento di unità che è costituito dall’intelletto.

Vi possono essere vari livelli di conoscenza: conformi a dio, all’intelletto, all’anima o al corpo. C’è quindi un’unità originaria che è quella della mente e c’è una seconda unità rappresentata dall’intelletto, che si distingue dal primo livello di conoscenza, proprio perché il primo livello è caratterizzato da una semplicità radicale, in cui gli opposti risultano uniti in maniera indissolubile. Nell’atto del conoscere intellettualmente invece le differenze vengono colte non come opposizione che si escludono, ma come elementi che ineriscono dialetticamente alla stessa sostanza.
Se l’atto conoscitivo esplicato dalla mente divina coincide con l’unita assoluta (unità indissolubile degli opposti), l’atto dell’intelletto consiste in un’unificazione istantanea degli opposti.
ECCO CUSANO A P 217 RECUPERA IL RAPPORTO FRA LA DOTTA IGNORANZA E LE CONGETTURE (nominando il de docta ignorantia all’interno del de coniecturis a p. 217).

La coincidenza dei contrari può essere concepita dall’intelletto umano, anche se con difficoltà (es: minimo caldo e minimo freddo). L’elemento invece in cui si dà impossibilità di conoscere è la coincidenza dei contraddittori: lì va in tilt l’intelletto umano (es: per Lutero Dio è somma giustizia e somma ingiustizia).

E significativo che nella dotta ignoranza sia usato il motivo della coincidenza dei contrari e non dei contraddittori, laddove nelle congetture cusano afferma di aver parlato di dio come coincidenza dei contraddittori (NEL PASSAGGIO DALLA DOTTA IGNORANZA AL DE CONJECTURIS CUSANO HA RADICALIZZATO LA SUA POSIZIONE). Questo significa ribadire come sia possibile parlare di Dio solo nel momento in cui vengono meno tutti gli strumenti elaborati dalla ragione umana.

Cusano utilizza: coincidenza degli opposti, dei contrari e a volte anche dei contraddittori.

Parlare divinamente di Dio significa tacere, perché siamo di fronte all’unità indifferenziata. Parlare di dio intellettualmente significa prendere la strada della dotta ignoranza e far coincidere i contraddittori. Capire Dio su un piano razionale invece significa utilizzare delle categorie del tutto inconciliabili con l’assoluta unità divina, per cui questo significa parlare per approssimazioni, parlare con quei nomi divini che si limitano a cogliere un aspetto di quell’approssimazione che lega Dio agli enti naturali. QUESTI DIVERSI LIVELLI NON SONO SEPARATI ED INCOMUNICABILI, MA OGNI LIVELLO ESPRIME LA DIVINITA. Non si va da forme maggiormente in contatto con la divinità a forme meno in contatto: AD OGNUNO DI QUESTI LIVELLI AGISCE ED E PRESENTE LA DIVINITA, CHE PUO ESSERE RITROVATA ATTRAVERSO LA DOTTA IGNORANZA: INDIVIDUARE QUALI SONO I LIMITI DELLA CONOSCENZA DI VOLTA IN VOLTA INDIVIDUATA. Definendone i limiti, l’intelletto umano ha la possibilità di vedere come da questi limiti sia possibile ottenere un’approssimazione della verità. OGNI LIVELLO DELLA CONOSCENZA E UNA PARTICOLARE PROSPETTIVA DELLA VERITA. La capacità di individuare i limiti non deve mettere in discussione la validità della conoscenza, PERCHE NELLA DOTTA IGNORANZA IL LIMITE E FONTE DI CONOSCENZA. Anche i concetti della ragione diventano capaci di dirci qualcosa su Dio, soprattutto nel rapporto fra Dio e la dimensione umana, la dimensione della propria conoscenza di Dio.

Su cosa si appoggia il criterio di validità della conoscenza? Per Cusano c’è un ordine divino all’interno del quale l’uomo è immerso.
LA DEBOLEZZA DI CUSANO: COSA GARANTISCE CHE LA MENTE UMANA E LA REALTA ABBIAMO LA STESSA STRUTTURA? E UN ACCIDENTE O FRUTTO DI UN PROCESSO PIU GRANDE CHE TRASCENDE L’UOMO? MA SE TRASCENDE L’UOMO COME FA L’UOMO A CONOSCERLO?
Certo, dice la Tirinnanzi, il medesimo creatore ha creato sia l’una che l’altra, MA SECONDO ME NON E SUFFICIENTE.
LA VALIDITA DELLA CONOSCENZA UMANA E GARANTITA DA DIO (differenza con Kant: questa conoscenza non è autonoma). La ragione organizza la conoscenza in unità armoniosa, ma per Cusano quest’ordine è ontologico: corrisponde alla realtà. “LA MAPPA E IL TERRITORIO” potremmo dire.
Per questo Cusano batte sul fatto che il cosmo è ordinato e deve avere una finalità (PER QUESTO IL DE DOCTA ESPONE IN MODO APODITTICO ALL’INIZIO QUESTI DATI: IL MONDO, CREATO DA DIO, E ORDINATO SECONDO UN ORDINE PRECISO ECC.).
Per Cusano ogni elemento creato reca in sé l’impronta del suo creatore: la peculiarità umana è quella di creare concetti.

Cusano si differenzia dalla prospettiva averroistica, nella quale c’è un discrimine strutturale ontologico all’interno dell’umanità (ci sono uomini che per natura possono conoscere, altri uomini no). Questo tema averroistico sarà poi ripreso da Pomponazzi.


[Questo è diverso dal mito platonico: la religione non può e non deve avere carattere gnoseologico in Averroe, mentre il mito platonico comunica anche conoscenza.
Bruno critica Lutero non come filosofo, ma come teologo. Egli ha capito la struttura del mondo (→ buono filosofo), ma ha voluto diffondere indiscriminatamente questa verità, che a volte è meglio tacere a favore di una società coesa: non tutti gli uomini sono in grado di portare la verità.
Nella prospettiva cusaniana la capacità intellettuale è la stessa tanto nell’uomo colto quanto nell’uomo non colto: la distinzione aristotelica cade. In Ficino, seppur involontariamente, ribadisce la distinzione umana.
Nella sua opera principale: “la teologia platonica sull’immortalità delle anime”. Ficino voleva dimostrare l’immortalità delle anime singole, contro la concezione aristotelica. Nel XVIII libro, l’ultimo, Ficino deve però spiegare quale sarà lo stato dell’anima dopo la dissoluzione del corpo. ficino si trova nella necessità di spiegare cosa farà l’anima immortale dopo la morte del corpo.
Per l’anima beata la questione era semplice: ficino mostrava come l’anima beata si riunifica al suo principio e fruisce della visione divina. Piu problematico diventa lo status dell’anima impura (per averroe questo problema non esisteva, perché l’anima era una storiella da raccontare a coloro che non potevano sopportare la verità, facendoli agire moralmente in vista di una ricompensa, contrariamente a quanto fa il saggio): l’inferno implica un elemento di teodicea. Come può un Dio giusto e misericordioso creare un inferno per punire i peccatori?
Callimaco Esperiente, contemporaneo di Cusano, aveva già parlato di queste cose. Per Callimaco: un peccato finito nel tempo provoca una pena eterna. ALLORA DIO NON E GIUSTO? LA GIUSTIZIA SAREBBE CHE UN PECCATO FINITO IMPLICA UNA PUNIZIONE FINITA. Per Callimaco: o il responsabile del peccato era il corpo (e allora non si capisce perché dio punisce l’anima), oppure si dovrebbe dire che responsabile è l’anima (allora la responsabilità cade su chi ha creato l’anima peccatrice → si crea un problema di teodicea).
Abbiamo detto questo per mostrare di fronte a quali problemi si trova Ficino. Per risolvere questi problemi Ficino recupera un argomento platonico, che rimanda alla funzione delle facoltà cognitive umane, nello specifico al ruolo svolto dalla fantasia. All’epoca di Ficino si riteneva che la struttura della conoscenza fosse articolata in un procedimento che va dal senso all’intelletto. Se il senso ha nel corpo il suo referente essenziale, diverso sembrava essere per le forze cognitive, le quali sembravano utilizzare autonomamente i dati dei sensi e rielaborali.
Dopo la morte cessa l’attività del corpo e quindi del senso, ma ciò non significa che le altre facoltà non siano in grado di funzionare: fantasia, intelletto e ragione funzionano ancora. La fantasia è in grado di suscitare sentimenti e passioni con grande vivacità anche in assenza di qualsiasi stimolo corporeo. Ecco l’ipotesi di Ficino: immaginiamo che un individuo sia stato allevato nella consapevolezza che determinati comportamenti comportino una punizione ultraterrena. Immaginiamo che anche inconsapevolmente questi atteggiamenti avrebbero gravato anche sulla sorte futura. L’immaginazione avrebbe costruito, anche in modo inconsapevole, un codice di immagine legato ad elementi di dolore e sofferenza, l’inferno, in vista di simili scelte, in quanto egli era consapevole di queste conseguenze. Per ficino dopo la morte saranno proprio queste immagini a tormentare: l’inferno non esiste propriamente, ma l’immaginazione avrebbe continuato a tormentare l’anima come se fosse all’inferno. ECCO CHE DIO E SALVATO: L’INFERNO NON ESISTE, IL SOGGETTO PECCATORE SI AUTOPUNISCE TRAMITE L’IMMAGINAZIONE. Questa punizione è meccanica, perché è il frutto di abitudini che, alla fine, s esi va ad analizzare a fondo, sono tutti meccanismi culturali e non naturali (Ficino non se ne rende conto): c’è bisogno che elementi culturali quali l’inferno ecc. siano inculcate nell’immaginazione umana. MA CHI NON HA MAI SENTITO PARLARE DI QUESTE COSE NON Può IMMAGINARSI LA PUNIZIONE. BRUNO OSSERVA: QUINDI L’INFERNO E PER CHI CI CREDE!!!]



Filosofia teoretica 30-11-2007

Tutte le varie forme di conoscenza, pur essendo strutturate secondo la stessa struttura, si distinguono tuttavia proprio perché ciascuna di esse esprimono l’originalità dell’individuo che conosce. “Tutto il mondo, scrive Cusano riferendosi al lettore immaginario Giuliano Cesarini, in te giulianizza”.
Il mondo conoscitivo di Giuliano sarà come quello di Platone nella sua struttura, ma nella sua curvatura sarà quello tipico di Giuliano, ponendo cosi uno stretto legame fra conoscenza e creazione: non solo strutture eterne ed immutabili, ma anche particolare coloritura della mente del singolo.

All’interno di queste riflessioni emerge un punto importantissimo (CHE VIENE INDIVIDUATO CON IL PUNTO DI NASCITA DEL PENSIERO MODERNO): Cusano sta insistendo sulla conoscenza come atto creativo, e si trova in una posizione speculare a quella di Dio. Cusano individua cosi due poli di libertà: uno dato da Dio che crea il mondo, l’altro dall’uomo che crea il mondo della conoscenza/delle nozioni. Questo tema della libertà sarà centrale nella costituzione del pensiero moderno. Flasche, in un suo recente studio su cusano, individua un nesso fra la riflessione cusaniana e quella di Giovanni Pico della Mirandola nell’«oratio de hominis dignitate», dove si insiste sul tema della libertà come caratteristico dell’uomo: l’uomo in quanto Dio umano.
Il de congecturis e l’oratio diverrebbero due parti dello stesso movimento teorico. E INTERESSANTE, MA RISCHIAMO DI OMOGENIZZARE I DUE TESTI, tralasciando le sfumature che differenziano i due testi.

Avviamo una riflessione su questi due testi, mettendo in parallelo questi due testi. Concentriamoci sul passo contenuto alle pagine 280-281 del de conjecturis:

p. 281: “non assolutamente”: in quanto è uomo, l’uomo non può creare “assolutamente”, ma la ragione crea solo nella dimensione dei contrari. Solo Dio è assoluto, nel quale i contraddittori coincidono.
“L’uomo è anche un mondo, ma non è contrattamente tutto”: anche l’uomo contrae il mondo, ma non lo contrae tutto, perché è parte del mondo. Come in Dio c’è la coesistenza di tutto quanto poi si esplica nel mondo sensibile, cosi anche nell’uomo sta la potenzialità di ciò che si esplica nel mondo. Quindi l’uomo è come Dio, ma con gradazioni diverse: in dio tutto è atto, nell’uomo solo potenza. Considerato dal punto di vista della
l’uomo è un dio contratto, mentre l’uomo è assoluto.
IL PUNTO E: DIO CREA FISICAMENTE/CONCRETAMENTE, L’UOMO CREA SOLO REALTA LOGICHE, ED IN LUI E CONTRATTO POTENZIALMENTE TUTTO IL MONDO, MONDO CHE PERO AVRA SOLO UNA REALTA LOGICA, MENTRE IN DIO TUTTO E ATTUALE (DIO E EXPLICATIO DI TUTTE LE COSE, IN ATTO) ED INOLTRE EGLI CREA MATERIALMENTE.

Ricordiamo: la contrazione è qualitativa, non quantitativa (nota: l’infinito non si divide. La contrazione è una struttura qualitativa). Passaggio dal mondo contratto a quello esplicato significa passaggio da una dimensione all’altra, non da un’unità numerica a tante altre unità numeriche → CONTRAZIONE ED ESPLICAZIONE SONO DIMENSIONI QUALITATIVE. NOTIAMO COME QUESTO “PASSAGGIO” E PURAMENTE LOGICO, MAI CRONOLOGICO.

Il tema dell’uomo microcosmo rimanda all’ermetismo: l’uomo quale riepilogo di tutte le cose esistenti. Nell’uomo si trovano unificate tutte le qualità che sono dell’essere, che nel mondo fisico sono però scissi a vari livelli. L’uomo condivide con le essenze celesti una ragione, ma condivide anche con gli animali il nutrirsi ed il riprodursi, con il mondo inanimato la fisicità del corpo, ecc.

Cusano si adatta a questa visione ermetica?

LA MEDIETA DELL’UOMO, PUNTO DI RACCORDO FRA DIO ED IL MONDO, SI GIOCA TUTTA SULLE POTENZIALITA DELLA MENTE, E NON DEL FISICO COME IN FICINO. Non è un destino, ma è una potenzialità (il mondo (logicamente però) è tutto racchiuso nella mente umana, solo in potenza però).

Abbiamo un mondo imperfetto: non si raggiunge mai il ricongiungimento con il Principio (terza parte del de docta). QUESTO E IL SEGNO PER CUSANO CHE LA CREAZIONE SAREBBE IMPERFETTO. LA SOLUZIONE. IL MONDO E PERFETTO, E CIO CHE LEGA QUESTI DUE MONDI E CRISTO. IN CRISTO TUTTA LA DIVINITA SI E PERFETTAMENTE ESPLICATA. INOLTRE, IN QUANTO EGLI E VERO UOMO E VERO DIO, ABBIAMO L’UNIONE PIU PERFETTA FRA UOMO E DIO.
Differenza con Ficino: qualunque uomo, per Ficino, può riunirsi con Dio. Il percorso di riunificazione può essere fatto anche al contrario: non Dio che “scende” verso il mondo facendosi uomo, ma l’uomo che “sale” a Dio.
Dal punto di vista animale, creare significa soltanto moltiplicare la specie. Per l’uomo invece creare significa qualcosa di piu (grazie alla mente): ecco perché l’uomo è privilegiato rispetto al resto del creato.
PER CUSANO L’UOMO E SEMPRE MEDIATORE IN POTENZA. L’UNICO MEDIATORE IN ATTO E CRISTO.
- “microcosmo... e mondo umano”: Cusano spiega il concetto di microcosmo, derivante dalla tradizione, come mondo umano, pioché essa è dissimile da quella di microcosmo. Non ci sono gli stessi elementi in un grado diverso (microcosmo), ma un mondo tipico dell’uomo, quello della mente (mondo umano← ricordiamo: quando conosci tutto si giulianizza. Quando si conosce il mondo diventa umano, anzi, tipico del soggetto conoscente).

Per Pico la libertà è il non essere toccato da Dio: dato che dio dà una natura indefinita a Dio, l’uomo è libero i darsi un posto, un aspetto proprio,ecc. La libertà che l’uomo riceve da Dio (il dono della liberta) deriva dal non-dono (il fatto di non avergli donato una natura definita). ← [vedi il passo dell’oratio fotocopiataci dalla prof.]

ECCO LA DIFFERENZA FRA PICO E CUSANO: CUSANO BATTE SULLA PIENEZZA DELL’UOMO, PICO BATTE SUL NON-ESSERE UMANO, CHE LO SPINGE A CERCARE DI ESSERE.

L’uomo è ente che decide, desidera, ecc. proprio perché “non è”. ECCO CHE PER PICO ANCHE LA RAGIONE, L’INTELLETTO, NASCONO DAL NON DONO: DALLA NECESSITA DI DESIDERARE QUALCOSA E DAL DOVER DECIDERE DEL PROPRIO DESTINO.
Differenza del “farsi” fra Pico e Cusano: Per Pico “farsi” angelo o bestia, pietra, ecc. mentre per Cusano “farsi” angelo, bestia (congetture p. 281). IL FARSI DI CUSANO E SEMPRE LOGICO. L’UOMO PER CUSANO NON PUO ESSERE ORSO, INFATTI DICE “FARSI UN ORSO UMANO”; QUINDI RIMANE UOMO. MENTRE IN PICO L’UOMO PUO DAVVERO CAMBIARSI IN ORSO. L’UMANITA E UNA STRUTTURA CHE FONDA L’UOMO PER CUSANO. Mentre per Cusano non c’è mai una perdita dell’umanità, una degenerazione (l’uomo può farsi bestia, ma rimarrà sempre una bestia umana), laddove in Pico abbiamo un’assimilazione completa: l’uomo non è nulla e può esistere solo diventando qualcos’altro, egli può degenerare o rinnovarsi. Di fatto per Pico l’uomo non esiste né all’inizio né alla fine: all’inizio è indefinito, alla fine è per forza qualcos’altro. L’unica cosa che non può fare l’uomo è trasformarsi in uomo, rimanere al suo posto, proprio perché il posto l’uomo/l’umanità(nel senso di umanezza) non ce l’ha.

NOTIAMO DUNQUE COME QUESTA ORATIO, CHE E SEMPRE LETTA COME UN’ESALTAZIONE DELL’UOMO, IN REALTA SE SI GUARDA BENE E UN TESTO AMBIGUO. Infatti è un’orazione sulla dignità dell’uomo, ma l’uomo sparisce: c’è un vuoto che si colma diventando altro. Per Pico la ragione l’uomo la ottiene assimilandosi all’angelo, ma se decide di vivere secondo le passioni si assimila alla bestia.
La natura umana è per Pico il desiderare→il vuoto. Naturalmente la scelta va riconfermata: l’uomo è anche libero di cambiare scelta, ma ecco che allora torna nella dimensione del vuoto, del desiderio.
La libertà umana è infinita nel senso etimologico del termine: l’uomo è quasi una natura non-finita, non conclusa, che è per questo “condannata” al vuoto interiore, al desiderio, ad anelare ad essere altro.
La mossa strategica di Pico non è insensata o ingenua. Lutero, per rispondere al libro di Erasmo sul libero arbitrio afferma: “Dio opera tutto e per questo il libero arbitrio non esiste”. L’UNICO MONDO PER CREARE IL LIBERO ARBITRIO È SOTTRARRE L’UOMO A DIO (COME FA PICO): DAL MOMENTO CHE DIO TOCCA L’UOMO, QUEST’ULTIMO RIENTRA NEL DOMINIO DELLA NECESSITA. LA LIBERTA IMPLICA L’ESSERE DEL TUTTO STACCATI DA DIO.
Certo che il mito di Pico da un punto di vista teologico è problematico: un dio che abbia esaurito le forme da dare all’uomo, quindi un dio non infinito, non potente, ecc.


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