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> Spe Salvi, J.Moltmann e B.Forte
AndreaF.
messagio Mar 5 2008, 12:37 PM
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AVVENIRE – Domenica 2 Marzo 2009
“Teologia della speranza” (1964) fu un’opera dal successo mondiale. Ecco come l’Autore - teologo evangelico - valuta l’Enciclica di Benedetto XVI Spe Salvi
Osservazioni sull’Enciclica SPE SALVI del Sommo Pontefice Benedetto XVI
Jürgen Moltmann


1. Se si confronta l’Enciclica sulla speranza di Benedetto XVI con la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, la sua peculiarità risulta subito evidente: essa è intesa all’interno della Chiesa, è rivolta in senso pastorale ai vescovi della Chiesa cattolica romana e a “tutti coloro che credono in Cristo”. Essa limita la speranza cristiana ai fedeli e li separa da quelli che nel mondo “non hanno alcuna speranza”. Gaudium et spes inizia con l’<<intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana>>: <<le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore>>. La Gaudium et spes indaga perciò sui problemi dell’umanità del mondo di oggi, quali la dignità umana ed i diritti umani, la pace e la costruzione di una comunità di popoli. Nulla di questo si ritrova nell’Enciclica. Il “mondo”, come “un mondo senza Dio” è solo “un mondo senza speranza”.

2. L’Enciclica non inizia con la solidarietà del Cristo con tutti gli uomini, e nemmeno con l’obiettivo, universale “Dio della speranza” (Rm 15, 13), ma soggettivamente ed ecclesialmente con “noi”: “Siamo salvati dalla speranza”, noi e non gli altri, la Chiesa e non il mondo. In questo modo si vuole acuire la differenza tra i credenti e i non credenti, o i diversamente credenti: noi abbiamo la speranza, gli altri non hanno alcuna speranza (par.: 3, 5, 23, 27 e altrove). Il primo esempio di Bakhita, la santa africana vissuta nel XIX secolo, più che un esempio della forza della fede è un esempio della certezza della speranza. Lo stesso vale per il martire vietnamita Paul Le-Bao-Thin (37).

3. Per quanto riguarda il noto punto della Lettera agli Ebrei 11,1 – “La fede è una certa fiducia delle cose che si sperano..”, il Papa ci fa conoscere il suo concetto di ipostasi, che egli traduce con substantia: “La fede è l’ipostasi delle cose che si sperano”. Significa: il presente del futuro. Il che non è certamente sbagliato. Ma perché collegarlo con un’autocritica protestante, citando l’esegeta evangelico H. Köster: “ […] Non può più essere messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile”? Si sarebbe potuto consultare Lutero o anche Calvino, oppure le opere sulla Lettera agli Ebrei degli stessi ex-colleghi di Ratzinger a Tubinga Otto Michel e Ernst Käsemann. Se partiamo dalla resurrezione oggettiva di Cristo, non costituisce problema pensare al presente del futuro. Se però si afferma che la fede equivale alla speranza e la speranza equivale alla fede, si presenta il problema la cui soluzione viene proposta qui.

4. L’Enciclica affronta apologeticamente la moderna accusa secondo la quale la speranza cristiana è “individualistica” (13-15) e la definisce “comunitaria”. La salvezza è stata sempre considerata come una “realtà comunitaria” (14). “Questa visione della “vita beata” orientata verso la comunità mira, sì, a qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo” (15). Obiettivo e futuro della speranza cristiana, secondo l’Enciclica, è la beatitudine della vita eterna. La via che conduce ad essa viene definita con quella “condizione intermedia” che altrimenti si chiama purgatorio, e la porta che vi conduce viene definita come “primo Giudizio”. Cosa manca? Non c’è un richiamo sufficiente al Vangelo del Regno di Dio, al messaggio del dominio del Cristo Risorto sui vivi e sui morti e sull’intero cosmo, che troviamo nell’Apostolo Paolo, alla “resurrezione della carne” e “la vita del mondo che verrà”, come pronunciata nelle professioni di fede, alla redenzione della creatura implorante (Rm 8) e alla speranza del nuovo mondo, nel quale abita la giustizia (1 Petr 3, 13); in breve alla speranza della grande promessa di Dio, che dice: “Ecco, faccio ogni cosa nuova (Rivelazione 21, 5). Aggiungerei gli orizzonti di speranza per la creazione, per questa terra, per l’umanità – e sulla venuta stessa di Dio. Si potrà qui obiettare che l’Enciclica si occupa dell’antropologia della fede e della speranza e non della teologia della speranza. Ma se si limita la speranza alla beatitudine dell’anima nella vita eterna decadono anche le promesse profetiche dell’Antico Testamento. E la speranza cristiana difficilmente si distingue dalla religione gnostica della redenzione.

5. L’Enciclica passa poi criticamente all’attacco della “trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno” (16-23). Senza far riferimento all’Enciclica Populorum Progressio, critica la fede nel progresso del mondo moderno, a partire da Francesco Bacone, come smania umana di grandezza. Dato che il disastro europeo della prima e della seconda guerra mondiale ha già messo fine a tale vecchia fede nel progresso, la critica del Papa rischia di essere l’assassinio di un cadavere. Lo stesso vale per la critica alla “ragione” e alla “libertà”, al “regno della ragione” dei tempi moderni ed alle moderne rivoluzioni della libertà, delle rivoluzioni civili e socialistiche. L’entusiasmo di Kant per l’Illuminismo viene rifiutato senza indagare sul feudalesimo e sull’iniquo assolutismo del suo tempo. Anche al cadavere del marxismo viene poi attribuito un “errore fondamentale” (21). “Il suo vero errore è il materialismo” (21). Non si discute la sua dialettica e nemmeno le tesi di Marx su Feuerbach. “Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male”. Questo tardo antimarxismo non può essere più semplice!
L’Enciclica fa propria l’”autocritica” del tempo moderno della Scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer, per dimostrare con la “dialettica dell’illuminismo” che l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza” (23). Questo rischia di non convincere gli intellettuali del nostro tempo, poiché hanno già operato questa autocritica e non hanno necessità di una teologia al riguardo. Dietrich Bonhoeffer avrebbe detto: la teologia cristiana non ha nulla di proprio da offrire allo spirito del tempo moderno?
A seguito del Vaticano II e in particolare della Gaudium et spes, negli anni sessanta i teologi cattolici ed evangelici grazie alla Paolus-Gesellschaft sono entrati nel dialogo cristiano-marxista. Abbiamo avvicinato la grazia ai marxisti umanisti, in rapporto al male, e la speranza di resurrezione in vista della morte. Milan Machovec e Roger Garaudy hanno compreso molto bene i deficit delle speranze immanenti della modernità e noi abbiamo compreso la loro passione per la liberazione degli oppressi e per la giustizia per gli umiliati. La “Teologia della speranza” del 1964 e la “Teologia della liberazione “ del 1971 sono nate dall’analisi critico-cooperante della situazione dell’epoca moderna. La “Teologia politica” ha rappresentato il contesto globale dell’“intima unione della Chiesa con l'intera famiglia umana”. Il fatto che “un mondo senza Dio” sia “un mondo senza speranza”, detto con questa semplicità può essere empiricamente frainteso: un mondo con Dio è, empiricamente, un mondo in cui possono esistere la rassegnazione e il terrore in nome di Dio. Dipende dal Dio di Israele e da Gesù Cristo, dal Dio della Resurrezione e del futuro Regno sulla terra. Solo questo Dio è il “Dio della Speranza. Solo lui “è colui che viene” (Rivelazione 1, 8).

6. È bene che l’Enciclica indichi i “luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza (32- 48). Innanzitutto la preghiera viene indicata come “scuola della speranza”. Questo è certamente importante, ma la preghiera è allo stesso tempo anche la scuola della fede. Che cosa aggiunge la fede alla preghiera? Il vegliare. La chiamata alla preghiera nel Nuovo Testamento è sempre collegata con il richiamo al risveglio. Nella tentazione nell’orto del Getsemani, ai discepoli che dormono Gesù chiede soltanto: “Non potete vegliare un'ora con me?" (Marco, 14, 34). “Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione”. La preghiera è sempre collegata con il risveglio per il mondo di Dio e il risveglio di tutti i sensi. Essere svegli e attenti, vegliare ed attendere, vegliare e vedere sono sempre correlati alla fede cristiana nel Messia. Pregando noi ascoltiamo e parliamo, stando svegli apriamo gli occhi e tutti i sensi alla venuta del Signore nella nostra vita e nel mondo. La preghiera con Cristo fa parte della spiritualità dei sensi vigili, affinché possiamo “vedere” Cristo nei poveri, nei malati e nei prigionieri (Matteo 25, 37). La veglia è il luogo di apprendimento della speranza.

7. Come secondo luogo della speranza vengono indicati l’”agire e soffrire della speranza”. Questo è certamente corretto, ma si tratta sempre dell’agire e soffrire della resistenza contro i vizi dell’uomo e le forze della morte. “Resistere”, scrisse Marie Durand nel Tour de la Constance a Aigues-Mortes, dove fu incarcerata per 38 anni per la sua fede evangelica. Non tutte le sofferenze sono sofferenze piene di speranza. La partecipazione alla sofferenza di Dio nel mondo è la sofferenza messianica: se soffriamo come Cristo, risorgeremo con Lui. L’Enciclica cita infine anche il “Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza”. Anche questo non è certo sbagliato, ma vorrei riportare lo sguardo dalla fine all’inizio. Il luogo di origine della speranza è la nascita, non la morte. La nascita di una nuova vita è motivo di grande speranza. E quando i morti sono risorti, entrano nella realizzata speranza di vita. Il luogo di apprendimento della speranza nella vita è pertanto il poter iniziare e il nuovo inizio, la vera libertà. I sensi risvegliati dalla speranza e la ragione da essa illuminata esplorano le possibilità che si aprono a noi ad ogni nuovo inizio. Al senso di realtà dell’amore, la speranza affianca il senso di possibilità del cambiamento.

8. Chi è secondo la tradizione biblica il Dio della Speranza? Papa Benedetto XVI chiude con un inno a Maria, la serva umile e fedele del Signore, divenuta madre di tutti i fedeli, e la chiama “Madre della Speranza”. Ma nella Bibbia c’è anche l’altra Maria, che gioisce di Dio, del suo Redentore:
“Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha colmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.” (Luca 1, 48-54)
Essa riprende il canto di Anna (2 Sam 22) lodando il Dio rivoluzionario dei Profeti, che Martin Luther King ha citato nel suo sogno del 1963 a Washington:
“Preparate la via del Signore.
Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
Allora si rivelerà la gloria del Signore
e ogni uomo la vedrà». (Is. 40, 3-5).
Paolo vede questo Dio operare nella comunità di Cristo:
“Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, Chi si vanta si vanti nel Signore. (1 Cor. 1, 26)
Il Dio, che rende giustizia a coloro che soffrono la potenza, il Dio che ha risvegliato il Gesù umiliato e crocifisso, questo è il Dio della Speranza per Maria, per i Profeti e per gli Apostoli.


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Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte

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AndreaF.   Spe Salvi   Mar 5 2008, 12:37 PM
AndreaF.   AVVENIRE – Domenica 2 Marzo 2009 Su invito di Avve...   Mar 5 2008, 12:39 PM


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