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> Il SUPERUOMO secondo nemo
nemo
messagio Feb 5 2008, 11:11 AM
Messaggio #1





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Quando Nietzsche parla di "superuomo", per me, non intende una nuova razza di uomini
superiori, tutt'altro...
Ma, nemmeno un uomo che si eleva sprezzante al di sopra dell'uomo, isolandosi tra le
vette della piena conoscenza di se e della vita.
La mia interpretazione di "superuomo", quello che ho capito del pensiero di
Nietzsche, riguardo al concetto (sempre secondo me) portante, della sua filosofia è
il seguente:

Ogni uomo, nascendo uguale ad ogni altro uomo, ha, all'inizio, le stesse
possibilità; l'ambiente, l'educazione, il caso e le necessità, ne costruiscono, poi
il carattere, il modo di vivere e il pensiero.
Ma, e questo non so spiegarmelo, per alcuni la propensione all'individualità è
innata e fortissima e (scusate i gioco di parole) il loro pensiero trascende il
trascendente, sono legati all'immanente, al "fisico", al reale, alla terra, come
dice N.
Sono uomini che fanno affidamento solo su se stessi, animali della foresta,
solitari, che cacciano da soli ed elaborano strategie di sopravvivenza, ma non
disdegnano i buoni compagni, e nel caso, sono disposti a dare la vita per loro.
Vivono la vita per quello che è "in sè" come valore più alto; non hanno altri valori
che la vita stessa, che cercano di proteggere e preservare.
Non fanno progetti per il futuro, per loro conta solo il presente, il "giorno per
giorno", pienamente consci che l'esistenza si consuma qui, tra questa polvere e
questo fango.

Ecco che l'"uomo" va al di la dell'uomo, lo supera, lo travalica e, paradossalmente, ritorna ad essere UOMO!

L'uomo che diventa "superuomo" di se stesso e per farlo, deve tornare indietro; un ritorno che potrebbe essere "eterno"...
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c71
messagio May 2 2008, 07:49 PM
Messaggio #2


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Quelli delle civiltà antiche e della “natura dell’uomo” sono terreni molto instabili, persino evanescenti, e proprio quando siamo convinti di aver trovato un saldo appoggio, vediamo la terra franare sotto i nostri piedi e aprirsi un vuoto abisso. Sono perciò doverosi alcuni approfondimenti e alcune rettifiche, allo scopo di non ridurre la discussione a un vaniloquio. La carne che è stata messa al fuoco è tantissima, e, come se non bastasse, è la più difficile da digerire. Vorrei scrivere molte cose, ma cercherò di sintetizzare il più possibile e il più chiaramente possibile.
Anzitutto, non è detto che la democrazia sia il risultato della ribellione degli schiavi nei confronti dei padroni. Per esempio, secondo Gobineau la degenerazione del sistema castale indiano sarebbe da ascriversi a delle contraddizioni interne al sistema, createsi dai rapporti di forza intercorrenti fra le due caste superiori, e non alla malvagia volontà della casta inferiore. Le “Leggi di Manu”, in cui vengono introdotti i ciandala, rappresenterebbero allora un disegno di organizzazione castale volto a difendere la conquista aria dell’India (questo Nietzsche non lo sapeva, perché lesse l’edizione di William Jones, la quale presentava le “Leggi” come molto più antiche di quello che erano in realtà). Quello dei ciandala era quindi un tentativo di rimediare alla decadenza del sistema e alla minaccia di corrompere la purezza razziale degli Arii. Ma fu un rimedio, nonché tardivo, ingenuo, giacché la mescolanza razziale è inevitabile. E giacché altrettanto inevitabile è l’impulso dell’uomo alla libertà e all’affermazione della propria dignità. E’ qui, infatti, il nodo del problema, è qui che cadono ingenuamente tutte le società che pretendono di instaurare gerarchie tra gli individui. Società fortemente irreggimentate, tradizionali e conformiste, per sopravvivere hanno bisogno di soffocare la libertà individuale. La quale, inesorabilmente, finisce per riprendersi il posto che le spetta, con le buone o con le cattive. La democrazia si dimostra qui una forma di governo superiore, proprio perché riconosce in ogni uomo, per il fatto stesso di essere uomo, quella dignità e quel diritto alla libertà per esso tanto preziosi. Non è più un governo centrato sulle capacità fisiche, intellettuali o spirituali, oppure sulle ricchezze o sulla razza o classe di appartenenza degli individui; ma sull’essere vero e proprio, considerato come il nucleo più profondo, più originario, più universale, cioè l’essere uomo.
L’errore fondamentale di Nietzsche è stato quello di non portare la “morte di Dio” fino alle estreme conseguenze. Perché la “morte di Dio” conduce paradossalmente alla più pura democrazia, sola forma di governo che non esige punti di riferimento trascendenti, o comunque esterni all’uomo, per sussistere. Per la democrazia è infatti l’uomo stesso il punto di riferimento essenziale, non le sue qualità fisiche o spirituali, non le sue ricchezze o le sue ascendenze, e tanto meno un essere trascendente, perché questi sono meri accidenti. La sostanza è sempre e solo l’uomo. Passando da un’epoca all’altra, da una cultura all’altra, da un costume all’altro, cambiano le qualità che si tengono in onore: in talune civiltà è fondamentale la ricchezza, in talaltre la razza, in altre ancora la forza fisica e il coraggio, in altre la sapienza, e così via, a dimostrazione che si tratta di accidenti che si aggiungono alla sostanza. Ma non vi è civiltà umana in cui non vi sia l’uomo. La democrazia è l’unica forma di governo che considera l’uomo per quello che è, un uomo, e non per qualsivoglia suo accidente.
Non dimentichiamoci, inoltre, che Nietzsche ha vissuto nel XIX secolo e che era impregnato di romanticismo. L’ideologia del sistema gerarchico trifunzionale, che organizza la società in base alle tre funzioni di sovranità religiosa, forza guerriera e forza produttiva, poggia sulla convinzione che sia esistita una protopopolazione nomade e ferocemente aggressiva, gli Indoeuropei, da cui proverrebbero la maggior parte dei popoli eurasiatici. La scoperta di questi fantomatici Indoeuropei – che altri non sono che i mitici Arii – deve tutto a una serie di studi di linguistica comparativa. E, sebbene non si siano mai trovati documenti archeologici che attestino la verità di questa ipotesi, tutti l’hanno fatta propria come fosse Verbo, e su di essa c’è chi ha tentato di erigere imperi. Quello del nazismo è il tentativo più noto, che sin dal 1933 si costituì all’interno di tre funzioni ricalcate su quelle attribuite all’ipotetico popolo Indoeuropeo (o Ario): la Partei, cioè la sovranità magico-giuridica; la Reichswehr, la funzione guerriera; e l’Arbeitsfront, l’organizzazione del lavoro. Tutto questo facendo appello, non solo, ribadisco, ad una ipotesi con pochissimi fondamenti, ma anche, guarda caso, all’Eterno Ritorno, non quello nietzschiano, ma proprio quello che, secondo taluni studiosi e secondo i nazisti, sarebbe stata un’ideologia propria degli Arii. Senonché, qualche tempo fa, un solitario filologo fiorentino, Giovanni Semerano, sconvolge l’establishment con una teoria rivoluzionaria: le lingue, le culture, le civiltà dell’Europa mediterranea avrebbero una matrice semitica! Ma ve l’immaginate, voi, la faccia di Hitler a una notizia del genere? La teoria di Semerano, benché sia molto difficile da digerire da parte degli ortodossi, specie in Italia, vanta, tra i suoi sostenitori, intellettuali del calibro di Cacciari, Severino, Galimberti, Pontiggia, Cardini, e in Inghilterra ha ricevuto amplissimi consensi. Dice Semerano: “Storicamente fu il giudice inglese William Jones a fornire nel XVII secolo un apporto decisivo [alla teoria del ceppo linguistico e culturale indoeuropeo], immaginando di aver scoperto una lingua affine alle lingue europee. [Ma l’indoeuropeo è] una lingua interamente ricostruita, […] una lingua ipotetica, non fondata su alcun documento reale. […] Nella formazione dell' indoeuropeo ha giocato un ruolo dominante l'ideologia eurocentrica. Se proviamo a gettare uno sguardo nell'antichità dei millenni, non ci imbattiamo in lingue indoeuropee. Quello che ci è dato incontrare semmai sono le lingue sumera, accadica, babilonese, assira. Lingue da cui è dipesa la nascita della nostra cultura occidentale. […] L'Occidente deve tutto alle grandi civiltà del Vicino Oriente. E soprattutto, lo ripeto, alle civiltà sumera, accadica e babilonese. Di esempi se ne possono fare tanti. Matematica, geometria, astronomia, medicina, diritto e musica – i cui influssi sono giunti inequivocabilmente fino a noi – fiorirono nella fertile Mezzaluna. E qui nacquero anche le prime biblioteche, alcune istituzioni che meglio qualificano la civiltà di un popolo. C' è un vincolo che risale a cinquemila anni fa tra l'Europa e l'antica Mesopotamia.” (Intervista di A. Gnoli a Semerano, “Repubblica”, 28.04.2005).
Insomma, pare proprio che questa idea di una realtà gerarchicamente tripartita sia da considerarsi tutt’altro che naturale. A dimostrarlo, oggi, ci si mettono anche gli studi antropologici ed etnologici. Tanto per cominciare, l’impulso all’aggressività e alla lotta, in cui eccellevano più d’ogni altro proprio le bionde bestie arie, è messo seriamente in discussione. Ci sono alcuni antropologi, come Colin Turnbull, i quali ritengono che l’uomo primitivo provasse sensi di colpa e compassione nell’uccidere gli animali (figuriamoci l’uomo); e fa anche notare come, tra i dipinti rupestri che illustrano le imprese dei cacciatori, non vi siano mai raffigurate lotte tra uomini, a testimoniare l’assenza, o comunque la carenza, di aggressività intraspecifica. La lotta, per alcuni studiosi, potrebbe non essere originaria, nell’uomo. Fromm, in “Anatomia della distruttività umana”, pensa che il primo strumento di autoconservazione sia l’istinto di fuga; e scrive: “Un’analisi storica potrebbe dimostrare che la repressione dell’impulso di fuga e l’apparente trionfo dell’impulso di lotta dipendano in larga misura da fattori culturali piuttosto che biologici”. In secondo luogo, l’uomo preistorico non conosceva gli schiavi né le gerarchie. C’erano, sì, i leader, i capi-tribù, ma la loro autorità era basata, non già sulla forza, l’intelligenza, l’abilità, ecc., bensì su qualità, per così dire, affettive: equanimità, abnegazione, generosità, ecc. L’antropologo Service scrive a proposito che “[…] nelle società primitive umane la forza deve essere posta al servizio della comunità e, per guadagnare il prestigio, l’individuo deve letteralmente sacrificarsi, lavorando più duramente e ricevendo in cambio meno nutrimento”. Era una necessità, perché le società primitive, a causa delle primitive tecnologie di cui disponevano, dipendevano maggiormente dalla collaborazione di tutti i membri, e il leader era tenuto ad incarnare il modello di questo spirito di collaborazione e sacrificio. Le qualità fisiche e intellettuali del leader erano comunque necessarie, giacché esse dovevano fungere da mezzo per ottenere quello scopo prioritario, e ovviamente il leader era tenuto a dimostrare anche queste. La consuetudine, solidificatasi, con il passare dei secoli e dei millenni, sotto le forme del sistema sociale, ha fatto sì che non si distinguesse più tra l’essere e l’avere, tra le reali qualità e i simboli che le richiamano: “[…] nella storia umana, quando la dominanza viene istituzionalizzata e scissa dal principio della competenza personale – che sopravvive invece in molte società primitive – il leader non ha più bisogno di esibire costantemente le sue qualità eccezionali, anzi non ha nemmeno più bisogno di possederle. Il sistema sociale condiziona la gente a vedere nel titolo, nell’uniforme, o in qualsiasi altra cosa, la prova che il leader è competente, e finché esistono questi simboli, confermati dall’intero sistema, l’uomo medio non osa nemmeno domandarsi se l’imperatore è tale soltanto per la corona che porta in testa” (Fromm). E’ difficile, per altro, capire se gli schiavi dovevano essere tali perché si riconosceva in loro un’inferiorità di razza o di spirito (come in India), oppure per altre ragioni. Ad esempio, la Arendt riteneva che la schiavitù fosse nata per il disprezzo nei confronti del lavoro, cioè non tanto “come espediente per avere lavoro a buon mercato o uno strumento di sfruttamento a scopo di profitto, ma piuttosto il tentativo di escludere il lavoro dalla condizione della vita umana”. Questo sentimento di disprezzo del lavoro si formò nel momento in cui l’uomo conobbe il lusso; e l’uomo conobbe il lusso nel periodo di transizione dall’economia del dono a quella di mercato, quel periodo in cui l’economia è centralizzata e basata sul comando, ossia il periodo degli imperi della Mesopotamia e dell’Egitto. Come contro esempio si possono considerare ancora una volta le società primitive. Certe tribù che abitavano le coste nordoccidentali dell’America del Nord, studiate da Marcel Mauss, praticavano il “potlach”, una forma di scambio commerciale verticale detta “economia del dono”. In questa pratica, le autorità tribali distribuivano le eccedenze delle risorse ai sudditi. Ma nel praticare questa distribuzione, le autorità si affannavano a prodigarsi col massimo dell’amore possibile nei confronti dei loro sudditi, persino scusandosi della modestia dei doni, suscitando così, da parte dei sudditi stessi, la più grande fedeltà e solidarietà. Lo scopo, è ovvio, era quello di generare una solida coesione sociale. E il lusso era del tutto estraneo a quegli uomini. Secondo Mauss, l’economia del dono si fondava sulla “reciprocità”, che consisteva in tre fasi, tutte necessarie: donare, ricevere, rendere. Oltre ad assicurare così una circolazione continua dei beni all’interno della comunità, l’effetto ottenuto era quello di generare una solida coesione sociale. Insomma, niente a che vedere con le società gerarchiche e schiavistiche.

In conclusione, voler organizzare la realtà sulla base di una pretesa “natura umana” è del tutto sbagliato. Già Hume avvertiva che “ogni ipotesi che pretende di rivelare le qualità originarie ultime della natura umana deve fin dal principio essere respinta come presuntuosa e chimerica”. E poi è piuttosto dubbio che la natura imponga un’organizzazione gerarchica delle società umane. La impone alle altre specie vivente, questo è palese, ma l’uomo, ribadisco, è più che un insieme di istinti, come lo sono, in fondo, l’aquila e l’agnello. Anzi, se si vuole proprio tirar fuori qualche qualità originaria dell’uomo, non ve n’è una più certa dell’anelito alla libertà. Forse è proprio la ribellione degli schiavi ad essere un fatto di natura, e l’ingenuità di ogni società che voglia istaurare una gerarchia è la convinzione di poter soggiogare eternamente gli individui che considera inferiori. Quegli individui, è sicuro, insorgeranno e ribalteranno l’ordine costituito, diventando loro i padroni e schiavizzando coloro che li schiavizzavano. Allora i padroni diventano schiavi e gli schiavi diventano padroni. Forse gli schiavi di un dato periodo non erano che i padroni di un periodo precedente. Questa sì che è una contraddizione. La democrazia, invece, va oltre. Forma di governo più matura, la democrazia elimina schiavi e padroni, eliminando perciò la contraddizione, il circulus vitiosus, e parificandoli in nome del fine a cui tutti gli uomini (forse) tendono: la libertà.
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