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Federico Inviato il: Apr 5 2020, 10:32 PM


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CITAZIONE(andreademilio @ Feb 19 2008, 06:52 PM) *
Roberto Garaventa

Bruno Forte contro Vito Mancuso, ovvero l’ennesimo tentativo di riabilitare il dogma del peccato originale.

Il vescovo di Chieti/Vasto, Bruno Forte, è intervenuto sull’Osservatore Romano per criticare il libro di Vito Mancuso «L'anima e il suo destino» (Raffaello Cortina), rimproverandogli «la mancanza di senso tragico, l'ottimismo ingenuo per cui il peccato originale viene considerato inconsistente». Infatti, «dal punto di vista cristiano, svalutare la potenza del male significa affidare la salvezza non alla grazia, a un dono di Dio, ma alla capacità dell'uomo di autodisciplinarsi». In questo modo Mancuso finirebbe per avvicinarsi agli gnostici, secondo i quali l'uomo è in grado di redimersi da solo. Ma ciò significherebbe rendere superflue l'incarnazione e la resurrezione di Gesù.
Soffermiamoci sul primo punto (la dottrina del peccato originale), lasciando il tema della centralità della morte e resurrezione di Gesù per la salvezza dell’uomo a un’altra volta.
Il peccato originale nella sua formulazione tradizionale, agostiniana, viene dunque riproposto come dogma imprescindibile per la concezione cristiana del mondo. Ma stanno veramente così le cose? Il peccato è veramente un’eredità che ci portiamo dietro fin dalla nascita e che ci deriva dalla caduta dei nostri progenitori? Ha senso credere ancora che Adamo ed Eva siano veramente esistiti? Non è il racconto del Genesi un mito, che ci dice verità fondamentali sull’uomo, ma non contiene alcuna notizia storica in senso stretto? Quando sarebbe avvenuta la caduta? Seimila anni fa, come pensavano ancora molti teologi medievali e moderni e come sostengono ancora adesso molti fondamentalisti protestanti americani? L’uomo non risale forse a qualche milione di anni fa? Come si concilia l’esistenza di due esseri come Adamo ed Eva con quello che le scienze ci dicono circa l’origine dell’uomo? L’uomo primitivo, preoccupato, nella sua bestiale rozzezza, di procacciarsi cibo e tenere acceso il fuoco, è forse il prodotto della cacciata dal paradiso dopo la caduta? Si può parlare ancora di Adamo ed Eva come di essere umani “uguali” a noi? Non appaiono, nel loro paradiso terrestre, nel loro status perfectionis, esseri di tutt’altra razza e specie?
Tuttavia la teologia cattolica è costretta a conservare questo dogma (per cui la colpa dei progenitori verrebbe trasmessa per eredità a tutta l’umanità), nonostante la sua evidente assurdità, per due motivi principali:
In primo luogo perché, senza il dogma del peccato originale, chi potrebbe essere imputato per la presenza del male nel mondo (lo status corruptionis) se non Dio stesso? E in realtà il dogma del peccato originale serve soprattutto per spiegare il male di fondo presente nel mondo (il male cioè di cui l’uomo non è responsabile). Se infatti non fosse possibile addossare ai primi uomini la colpa di tutte le tragedie che hanno segnato la storia dell’umanità, bisognerebbe (almeno in parte) accusare Dio per la presenza del male nel mondo. Non a caso il compito principale di ogni teodicea è da sempre quello di scagionare il Dio creatore dall’accusa di essere il responsabile ultimo dell’imperfezione e limitatezza del mondo (il «male metafisico di Leibniz) e del male fisico (malattie, catastrofi naturali, vecchiaia e morte) presente nel mondo. E la dottrina del peccato originale è una delle forme classiche di teodicea (di giustificazione di Dio) in quanto antropologizza il male, cioè lo riconduce a una colpa dell’uomo (il male come poena peccati).
In secondo luogo, tuttavia, il peccato originale è fondamentale anche perchè senza di esso perderebbe fondamento il dogma mariano dell’immacolata concezione (un dogma senza alcun fondamento biblico, ma a cui la tradizione cattolica tiene particolarmente).
Negare la “storicità” del primo peccato di Adamo ed Eva non significa tuttavia, come cerca surrettiziamente di suggerire Bruno Forte, negare il malum mundi (la presenza del male nel mondo) e i mala in mundo (i concreti mali presenti nel mondo). Il problema è che il male nel mondo esiste, ma non è il frutto del peccato dei primi uomini (che non c’è stato). Il Dio creatore è il responsabile primo e ultimo dell’esistenza dei mali nel mondo, tanto è vero che, pur avendo fatto all’atto della creazione tutte le cose “molto buone”, è stato costretto a promettere “nuovi cieli e nuove terre” (attribuendo l’imperfezione del suo operare a un intervento malvagio dell’uomo).
Certo: nell’uomo è insita una tendenza al male: lo diceva anche Kant. Ma questa tendenza al male da dove deriva? E non era forse già presente nei primi uomini? A questa domanda Agostino e la tradizione cristiana hanno cercato di rispondere ricorrendo o alla concupiscientia o alla superbia dell’uomo. Ma chi ha creato un essere dotato di concupiscientia e di superbia, se non Dio stesso? D’altra parte: molti dei mali che attanagliano l’uomo non derivano necessariamente dall’uomo, ma dalla natura in e fuori di lui? E chi è dunque responsabile di questi mali se non il creatore stesso? Non è un caso che Kant, nel cercare di spiegare la presenza nell’uomo di una “tendenza al male”, non abbia saputo far altro (dato che rifiutava la concezione agostiniana del male radicale come eredità) a imputarla all’uomo stesso. Ora, che questa “tendenza al male” debba essere imputata all’uomo stesso (come sostiene Kant), è una soluzione che non aiuta molto. Forse aiuta di più quella di Kierkegaard.
Per cercare di chiarire in che cosa consista questa tendenza o propensione al male presente costitutivamente nell’uomo, Kierkegaard è infatti ricorso all’angoscia, che è quello stato d’animo che accompagna ineludibilmente la libertà umana. L’uomo è libero (a differenza degli animali che sono istintualmente determinati), ma proprio per questo è assalito dall’angoscia. Ed è l’angoscia che lo fa sbagliare, peccare, che lo induce a scegliere il finito piuttosto che l’infinito, perché è più facile cercare sicurezze nelle cose nell’aldiquà che in quelle dell’aldilà. La colpa (il peccato) è il risultato quindi di una libera scelta dell’uomo, ma questa scelta è, proprio perché libera, imbrigliata dall’angoscia. Il peccato originale (o ereditario) è, invece, solo l’insieme delle colpe che ci provengono dalla nostra storia e che gravano quantitativamente sulle nostre spalle; ma questa eredità di peccato che ci portiamo dietro fin dalla nostra fanciullezza non toglie la nostra libertà: non a caso colui che nasce in un quartiere mafioso o camorristico, non deve per questo diventare necessariamente un mafioso o un camorrista, ma resta libero di scegliere una vita diversa rispetto a quella cui lo spingerebbe l’atmosfera che regna nel suo quartiere o rione.
Per spiegare il male presente nel mondo, non serve dunque riproporre un dogma come quello del peccato originale, che è il frutto di un’interpretazione errata di Agostino di un celebre passo della Lettera ai Romani di Paolo, o magari richiamare la figura mitica di satana, il tentatore. E’ sufficiente richiamare la responsabilità di Dio (al momento della creazione) e l’angoscia dell’uomo (nel momento in cui è chiamato a fare delle scelte). L’angoscia che attanaglia l’uomo al momento di fare delle scelte non elimina ovviamente la sua responsabilità; ma anche Dio resta responsabile, per parte sua, del modo in cui ha creato il mondo e ha fatto l’uomo.


Ciao a tutti, mi chiamo Federico. è la prima volta che commento in questo forum. Vorrei condividere due pensieri riguardo a questa interessantissima riflessione trattante la questione del peccato originale. in realtà è la seconda parte che ha destato maggiormente la mia attenzione, se non altro perché condivido totalmente la prima. Espongo il mio pensiero in due punti per maggior chiarezza (spero):

1. ipotizzo (per l'appunto è solo un'ipotesi) che non esista in realtà una differenza ontologica tra uomini e animali, o meglio, questa esiste ma solo come categoria mentale umana utile per razionalizzare il mondo che ci circonda. Non credo che vi sia una differenza ontologica perché secondo me non è corretto vedere l'uomo contrapposto all'animale, come se non sapessimo che siamo animali. certo siamo diversi dalle bestie, ma ciò non giustifica credere che vi sia una differenza incolmabile tra noi e loro. in un qualche modo, una bestia è un uomo in potenza. i motivi che ci spingono a differenziarci dagli altri animali sono tanti, ma due tra i più importanti sono sicuramente la coscienza e la libertà. riguardo a quest'ultima spiegherò meglio nel secondo punto ma già qui posso dire che, a mio modesto parere, essere liberi è la logica conseguenza dell'essere intelligenti, o meglio, è esattamente una delle forme in cui l'intelligenza si mostra. La coscienza pure. Certo non si può banalizzare un concetto tanto profondo, ma pare sensato ipotizzare che ciò su cui si fonda la coscienza sia in fondo in fondo, la memoria e questa è certamente una forma di intelligenza. Certo non basta la sola memoria, perché se no i pc sarebbero già molto più coscienti di noi. la morale è che andrei cauto nel definirci liberi solo perché non condizionati dagli istinti. utilizzando una metafora, vedo la libertà umana come una bandiera che sventola nel vento. certo, siamo coscienti mentre la bandiera non lo è, però come lei, siamo continuamente mossi dal vento e contemporaneamente ben radicati a terra grazie all'asta sulla quale siamo issati (fuor di metafora, la corporeità nella sua accezione più vasta).

2. riporto a memoria una frase che penso sia di Krishnamurti: noi siamo schiavi proprio perché siamo liberi. A mio modesto parere questo è un punto importante della questione, che ovviamente è difficile tra trattare in breve. Noi partiamo quasi sempre dal presupposto che essere liberi sia un bene, ma in fondo la libertà non è ciò che prova la complessità del mondo (comprendendo anche il nostro io, difatti Nietzsche parlava di diventare ciò che si è) nel quale viviamo e i limiti della nostra intelligenza? in breve, non siamo forse liberi perché profondamente ignoranti? per spiegarmi meglio provo ad usare un esempio: la libertà la si immagina comunemente come un uomo capace di scegliere quale strada prendere al bivio che gli si palesa innanzi. Ma se invece immaginassimo la libertà in un'altra maniera? Se un uomo venisse rapito, nascosto dentro un sacco e portato alle pendici dell'himalaya per essere li liberato, dandogli poche provviste e una mappa incompleta, questi non avrebbe diritto ad incazzarsi con il rapitore? davvero sarebbe tanto felice di essere libero, ossia sperduto in un mondo di cui ignora le fattezze? concludendo con un'altra metafora: a noi pare di essere liberi perché siamo ancora lontani dalla vetta della verità (sempreché questa verità esista e sia raggiungibile), come se per arrivare alle pendici dell'himalaya fossimo partiti a piedi dall'Italia. Da così lontano, per forza ci sono un'infinità di strade da poter prendere per arrivare la. Ma man mano che ci avviciniamo (magari incontrando altri viaggiatori lungo la strada, venuti da chissà dove) alla meta, le strade diminuiscono. Infine, arrivati vicini alla vetta, le strade si possono contare sulle dita di una mano o addirittura su un sol dito. Arrivati a questo punto, davvero possiamo parlare di libertà? forse l'unica vera libertà che ci resta è se proseguire o fermarci e fare dietro front.
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