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> Leggendo alcuni libri su Nietzsche..., di Vincenzo Saffioti
andreademilio
messagio Jul 25 2007, 02:04 PM
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BIBLIOGRAFIA.
La bibliografia su Nietzsche è sterminata. Ho quindi pensato che sarebbe stato
interessante fornire un breve profilo di alcuni libri di cui la stessa si compone.
Ho proceduto, sia nella scelta dei libri che nella loro descrizione, in maniera capricciosa,
totalmente arbitraria e faziosa. Non ho voluto <<recensire>> ma, senza alcuna pretesa di
scientificità, tratteggiare brevemente le mie sensazioni durante la lettura.
Le seguenti <<note di copertina>> sono ordinate sul cognome dell’autore, secondo un
criterio alfabetico.
Vincenzo Saffioti vince.saff@tiscali.it
A.A.V.V., Crucialità del tempo – saggi sulla concezione nietzschana del tempo. (7)
H. ALTHAUS, Nietzsche – una tragedia borghese. (7)
G. BIONDI, L’enigma della serpe secondo Nietzsche – guida ai simboli dello Zarathustra. (9 1/2)
G. COLLI, Scritti su Nietzsche. (6 1/2)
G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia. (7 1/2)
M. FINI, Nietzsche – L’apolide dell’esistenza. (3)
E. FINK, La filosofia di Nietzsche. (61/2)
S. GIAMETTA, Nietzsche – il poeta, il moralista, il filosofo. (8 1/2)
K. JASPERS, Nietzsche – introduzione alla comprensione del suo filosofare. (9)
K. LÖWITH, Nietzsche e l’eterno ritorno. (71/2)
MAZZINO MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche. (8)
MORENO MONTANARI, Il Tao di Nietzsche. (10)
NEGRI, Nietzsche e/o l’innocenza del divenire. (7 1/2)
G. PACINI, Nietzsche lettore dei grandi russi. (7 1/2)
K. SCHLECHTA, Nietzsche e il grande meriggio. (8 1/2)
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. (5)
VERRECCHIA, La catastrofe di Nietzsche a Torino. (6)

A.A.V.V., Crucialità del tempo – saggi sulla concezione nietzschana del tempo.
Il libro contiene quattro saggi dedicati ad unico tema, importantissimo e fondamentale,
ovvero quello della concezione nietzscheana del tempo. Trattandosi di monografia, non è
il testo con il quale iniziare per venire introdotti a Nietzsche. I quattro saggi sono molto
diversi tra loro; il loro minimo comun denominatore consiste nell’essere risposte (diverse a
seconda dell’autore) ad un’unica domanda: com’è possibile, nell’epoca della “permanente
rivoluzione”, un tempo della Festa (dove per festa deve intendersi il compimento del
lavoro concettuale, l’avvenuta integrazione dei diversi)? Cioè: qual è il rapporto tra
concetto in quanto autocomprensione del divenire stesso e concetto in quanto
conoscibilità del divino, Festag? Il primo saggio di Bertaggia analizza la risposta dialettica,
di Hegel in particolare, alla domanda di cui sopra e focalizza soprattutto il tema della
Festa come progresso, durata indifferenziata, trionfale incedere della “spiritualizzazione”
del mondo. Il secondo ed il terzo saggio (rispettivamente di Cacciari e Franck) analizzano
la risposta di Nietzsche al problema della intersezione di tempo ed eterno facendo leva sul
pensiero dell’Attimo. A questa lettura reagisce il quarto e conclusivo saggio di
Pasqualotto, incentrato sull’insegnamento nietzscheano della “ermeneutica interminabile”.
Il primo saggio presuppone la conoscenza della filosofia di Hegel, il secondo è
praticamente scritto in tedesco, il terzo ed il quarto sono i più godibili. Erudito e quindi
noioso. Voto: 7.
2
H. ALTHAUS, Nietzsche – una tragedia borghese.
Peccato, occasione perduta, perché con un po’ più di coraggio ed un po’ meno di
pedanteria avrebbe potuto essere un ottimo libro. Fu scritto nel 1985, consta di 600
pagine, ed è una biografia con numerosi inserti saggistici. Anzi, se la prima impressione è
quella di trovarsi di fronte ad una biografia, man mano che si procede nella lettura e che
gli eventi della vita di Nietzsche diminuiscono fino a coincidere con la pubblicazione dei
suoi scritti, la sensazione che subentra è quella di essere impegnati nella lettura di un
saggio critico. L’inizio è incerto, ed un errore storico posto proprio all’inizio del libro (a pag.
19 si legge che il padre di Nietzsche sarebbe morto a seguito di un trauma cerebrale
causato da una caduta, ovvero la versione di Elisabeth) rende subito sospettosi. Tuttavia,
non è l’errore storico isolato a lasciare perplessi, dato che quello che conta è la
ricostruzione globale della personalità del de cuius. Ed è per l’appunto qui che si passa
dalla diffidenza alla delusione: non già perché la personalità di Nietzsche sia tratteggiata
in maniera erronea, quanto perché… essa non è quasi tratteggiata. Insomma, l’opera è un
lungo susseguirsi di eventi, una cronaca dettagliata, che però non trasmette emozioni,
come un referto della polizia, un documento dell’anagrafe. In definitiva il libro è piatto,
sciatto, sciapo, insipido, se fosse una bevanda sarebbe acqua.
Non solo difetti tuttavia. Anzi.
Il fatto che nel libro si trovino numerosi inserti critici sottolinea la contiguità tra la vita ed il
pensiero di Nietzsche e, soprattutto, i numerosi ed ampi squarci a tutto tondo sui grandi
temi dell’epoca aiutano a contestualizzare ottimamente la vita e l’opera del filosofo. Alla
fine, il libro è un utile compendio, una summa tanto della vita quanto del pensiero, che dà
atto anche delle tendenze generali dell’epoca. L’unico rimprovero che mi sento di
muovergli è che una selezione critica di alcuni eventi della vita e di alcuni temi del
pensiero, a discapito di altri e ad insindacabile giudizio di merito dell’autore, avrebbe reso
l’opera più frizzante. Se poi quello spazio vuoto fosse stato riempito dalle considerazioni
personali dell’autore, allora sarebbe stato il massimo.
Politically correct. Voto: 7.
3
G. BIONDI, L’enigma della serpe secondo Nietzsche – guida ai simboli dello Zarathustra. (9 1/2)
Uno dei saggi più belli che abbia mai letto, di cui ho condiviso quasi tutto,
dall’impostazione di fondo, al metodo seguito, all’idea centrale. In questo libro l’Autore
focalizza l’attenzione sul capitolo La visione e l’enigma dello Zarathustra, e ne analizza i
simboli alla luce dei possibili significati. Ogni singolo elemento viene dapprima analizzato
isolatamente e poi, conclusivamente, alla luce del significato finale del capitolo. Ad ogni
simbolo l’Autore ricollega una pluralità di significati a seconda del contesto culturale di
riferimento (per esempio il significato della “serpe” varia a seconda che essa venga
considerata in un contesto di riti dionisiaci oppure di tradizione religiosa giudaico-cristiana
ovvero esoterico-alchemistica piuttosto che mitraica o egiziana) e questo straordinario
lavoro esegetico sulle fonti si risolve in una interpretazione finale in forte contrasto con la
classica lettura heideggeriana. Il capitolo zarathustriano acquista così una profondità
prima sconosciuta, direttamente proporzionale alla crescita esponenziale dei vari intrecci
tra i vari significati di ciascun simbolo. Soprattutto, il libro seduce e si presenta come un
vero e proprio viaggio iniziatico nei misteri della vita, attraverso l’analisi ed il confronto (e
soprattutto: il rilevamento di straordinarie analogie) tra le visioni del mondo persiane,
egiziane, presocratiche ed esoterico-alchemistiche. Quello che più convince è la stretta
fedeltà al testo, di cui ogni elemento viene isolato e riletto alla luce della restante
produzione nietzscheana allo scopo di chiarirne il significato: un lavoro filologico
straordinario. Lo stile è scorrevole ed il testo può essere apprezzato da tutti. Su questa
ottima base di partenza si innestano poi dei veri e propri colpi di genio dell’Autore, che
ovviamente non svelo ma accenno soltanto. Quello forse più significativo è una nuova
ipotesi sulla sequenza “storica” dei vari capitoli dello Zarathustra, che non sempre
coincide con quella “letteraria” fornita da Nietzsche stesso, come se Nietzsche avesse
scritto lo Zarathustra servendosi talvolta della tecnica narrativa del flash back. Il libro
contiene nel finale una interessante analisi sullo stato degli studi al riguardo, confrontando
velocemente ma esaurientemente le soluzioni di Heidegger, Löwith, Jaspers, Gadamer,
Deleuze, Lyotard, Vattimo, etc. etc., e sostenendo con ognuno dei menzionati autori un
confronto serrato ed avvincente, che tocca, tra gli altri, il tema del rapporto tra pensiero
forte (dialettica) e pensiero debole (ermeneutica).
Iniziatico. Voto: 9 1/2.
4
G. COLLI, Scritti su Nietzsche.
Questo libro contiene una raccolta delle prefazioni scritte da Colli per le edizioni Adelphi
delle opere di Nietzsche, dalla Nascita della tragedia fino ai Ditirambi di Dioniso. Il libro
quindi costituisce una perfetta introduzione al pensiero di Nietzsche che viene seguito
passo passo attraverso le sue opere, commentate in ordine cronologico. Lo stile
espositivo è fresco e godibile e nelle prefazioni de quibus si trovano molti interessanti
spunti di riflessione, com’è logico aspettarsi data la caratura dell’autore. Tuttavia non ci si
sottrae facilmente alla sgradevole impressione che la presente pubblicazione corrisponda
più ad un progetto commerciale che ad una operazione culturale. Non si trova niente che
già non fosse stato pubblicato, nulla è stato toccato, non si è arricchita la raccolta
nemmeno di una misera prefazioncina. Insomma, sembra che la Adelphi abbia voluto
raschiare il fondo del barile, in un settore peraltro inflazionato. Il libro si legge in una
serata e la confezione spartana non invoglia di certo. Imprescindibile per i novizi,
superfluo per tutti gli altri.
<<Best of…>>. Voto: 6 1/2.
5
G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia.
Un libro al quale ho detto no quasi ad ogni proposizione e, nonostante tutto ciò, un libro
che mi è molto piaciuto. Deleuze ha riempito Nietzsche con la propria filosofia senza
scindere le parti “sue” da quelle “Sue”. Questo in quanto l’autore era alla ricerca di un
nuovo modo espressivo (a “mosaico”) più che della delimitazione rigorosa mio-Suo. Non
concordo, in particolare, con la sua distinzione tra reazione che viene agita e reazione che
viene patita (pag. 167) e tra memoria delle tracce e memoria della volontà (pag. 201).
Dubbia la sua formulazione dell’eterno ritorno come criterio etico-selettivo (pag. 101). Mi
sembra che in tutti questi casi parli non tanto Nietzsche quanto <<la speranza>> di
Deleuze, che lo ha indotto ad introdurre arbitrarie distinzioni per mitigare l’asprezza del
testo nietzscheano e l’ineluttabile abissalità e sconforto portato da alcuni suoi pensieri (per
esempio la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale). Dubbia la scelta dei frammenti postumi
per suffragare le tesi dell’autore ed in particolare queste distinzioni. Ma prima di <<dirgli di
no>>, si deve molto riflettere. Stimolante. Voto: 71/2.
(P.S.: Le due appendici fanno storia a sé. Poesia. Voto: 10).
6
M. FINI, Nietzsche – L’apolide dell’esistenza. http://www.massimofini.it/
Fini su Wagner: <<Il suo numero preferito era scucire del denaro a qualche ricco
benefattore, sedurgli la moglie, scopargliela davanti al naso e, non contento, prenderlo
per il culo rappresentando la tresca in qualche sua opera dove l’adulterio era giustificato
da imprescindibili ragioni metafisiche e sacrificali, il tutto senza perdere l’amicizia e,
soprattutto, i quattrini del magnifico cornuto>>.
Evidentemente questo libro presenta tutti i difetti dell’epoca moderna: è trash, volgare,
urlato, caciarone, coatto, superficiale, becero. Fini suggerisce una ipotesi circa i
destinatari del libro ed il suo scopo. Le ragazzine <<trendy>> che, ascoltando <<Nice, che
dice? boh!>>, hanno la curiosità di sapere <<ke dice Nice>> e non hanno voglia di leggere
“Che cosa ha detto Nietzsche” (v. infra), potranno trovare in questo libro delle risposte alle
loro domande. Che il pubblico di lettori ai quali si rivolge questo aborto su cellulosa siano
le suddette, ce lo confida lo stesso autore, storpiando sempre e comunque l’attributo
<<nietzscheano>> in <<nicciano>>. Resta da vedere se “ke dice Nice” di Fini contenga
effettivamente delle risposte corrette alla domanda del Fornaciari.
Ciò emergerà dal confronto tra alcune chicche, scelte a caso tra le molte contenute in
questo “libro”, ed il pensiero espresso da ben altri intellettuali.
Un primo esempio: <<Il “transvalutatore di tutti i valori”, il dissacratore, il trasgressore par
excellence, non violò mai nemmeno un regolamento municipale.>> Qui si rimprovera a
Lupin di non aver mai rubato una caramella ad un bambino!…
Un secondo esempio: <<Colui che prese partito contro tutto ciò che è <<malato,
malriuscito, sofferente-di-sé>> fu malato, malriuscito, sofferente di sé.>> Fini, con
rozzezza intellettuale inaudita, attribuisce al termine malriuscito un significato biologico (lo
stesso per intenderci che gli hanno dato i nazisti traducendo il § 2 dell’Anticristo) laddove
Nietzsche gli attribuiva un significato eminentemente psicologico (cfr. Così parlò
Zarathustra, 4^, 1885, dell’uomo superiore, § 15). Fondamentalmente, quindi, proprio il
fatto che Nietzsche fu malato e, ciò nonostante, fu il Fürsprecher des Lebens
dimostrerebbe il suo essere <<benriuscito>> (cfr. soprattutto Ecce homo, perché sono
così saggio, § 2). Conferma questa tesi un tale Jaspers: <<Egli [Nietzsche] parla di ciò
che nel comportamento dell’uomo verso se stesso può essere definito <<malato>> e
<<sano>> dal punto di vista esistenziale (il risultato è che per lui e in una certa prospettiva
del suo pensiero chi è malato dal punto di vista medico, grazie al suo comportamento può
risultare esistenzialmente sano, mentre chi dal punto di vista medico è sano può essere
esistenzialmente malato).>> (Nietzsche – introduzione alla comprensione del suo
7
filosofare, 1935, Mursia, 2°, V^, 281). Quindi, dove Fini vede una confutazione, a ragione
tutti gli altri, tra cui Jaspers, vedono una dimostrazione.
Un terzo esempio: <<Perché Nietzsche, cosa abbastanza singolare per un uomo della
sua intelligenza, era quasi totalmente privo di sense of humor.>> (pag. 18). Sennonché,
scrive Deleuze (Nietzsche e la filosofia, 318): <<Terzo punto: il rapporto tra l’aforisma e
l’ironia, o lo humor. Coloro che leggono Nietzsche senza ridere, e senza ridere molto,
senza ridere spesso, colti talvolta da un fou rire, è come se non leggessero Nietzsche.>>.
Evidentemente Fini ride sulle battute di Boldi, quelle di Nietzsche neanche le registra.
Un quarto esempio: <<Ma l’ambizione poetica, come quella musicale, non lo abbandonerà
mai del tutto. Si sfogherà in Così parlò Zarathustra e nei Ditirambi di Dioniso con risultati,
da questo punto di vista, modesti, perché non aveva un vero talento d’artista, gli mancava
l’istinto, era troppo logico, razionale, cerebrale.>> (pag. 31). Anche qui, potremmo citare la
crema delle avanguardie letterarie del novecento per avere un giudizio opposto (Benn,
Rilke, Musil, Hesse, Mann, Kraus, Jünger, etc…), ma a cosa servirebbe? Fini per <<vero
talento d’artista>> intende effluvi lirici come <<sedurgli la moglie, scopargliela davanti al
naso e, non contento, prenderlo per il culo rappresentando la tresca>> (v. supra) e quindi,
probabilmente, un giudizio non è formulabile.
Potrei andare avanti all’infinito, ma non avrebbe senso: è opinione del sottoscritto che i
brani tratti da <<Così parlò Massimo Fini>> siano più che sufficienti per consentire ai
lettori di trarre le loro conclusioni in merito al valore culturale di questo libro ed alla cifra
intellettuale del suo autore.
Becero e dozzinale. Voto: 3.
8
E. FINK, La filosofia di Nietzsche.
Carino, ma da come mi era stato presentato (<<un capolavoro>>) pensavo meglio. Il libro
è scritto molto bene, è coinvolgente, agile, veloce, alcune intuizioni sono davvero brillanti
(come la chiave di accesso che si trova nelle prime pagine per accedere ad un nuovo
livello nella <<metafisica d’artista>>). All’autore non manca personalità, muove critiche
quando serve, anche severe, e scopre con coraggio territori inesplorati. Peccato però che
il libro sia un po’ troppo scolastico, come nella suddivisione del pensiero nietzscheano per
epoche storiche. Questo comporta che l’autore vada in crisi quando deve descrivere il
contenuto di opere scritte per aforismi e che le liquidi velocemente, omettendo dalla sua
analisi molti temi assolutamente fondamentali che tagliano trasversalmente l’opera di
Nietzsche; p. es., non si trova il minimo accenno alla teoria della conoscenza, al c.d.
biologismo, alla teoria dell’io, il problema della verità è appena accennato, etc…
Sarebbe stato probabilmente più opportuno dividere l’opera per temi anziché per periodi.
Ma, forse, quello che interessava a Fink non erano tutti i temi, ma uno solo, cioè la
“metafisica” di Nietzsche. Tuttavia, se quella era l’intenzione, allora sarebbe stato più
appropriato redigere una monografia anziché un manuale di istituzioni. Infatti, come
sempre accade, la forma determina il contenuto. La scelta manualistica ha costretto Fink
a banalizzare tutto quanto non fosse metafisica.
Così, per esempio, mentre ampio spazio è dedicato alla Nascita della tragedia, a Così
parlò Zarathustra ed ai frammenti postumi (della Volontà di potenza), tutte le altre opere
sono sbrigate con una fretta irritante. Leggere tutta la restante produzione di Nietzsche
solo come preparazione o come spiegazione dello Zarathustra è francamente riduttivo.
Finché l’autore si muove nel terreno che gli è congeniale (la metafisica), riesce a fornirici
nuovi importanti spunti di riflessione (come all’inizio, quando segna i confini dell’influsso di
Schopenhauer ne La nascita della tragedia), ma appena si esce dal seminato (quando
Nietzsche veste i panni dello psicologo, come in tutta la produzione finale) allora l’autore
barcolla e persino rimprovera a Nietzsche di non aver confutato il cristianesimo
filosoficamente ma, “solo”, psicologicamente. Sennonché, come disse Nietzsche, <<non
si può confutare con la ragione qualcosa che si è appreso senza ragione>>.
Nelle pagine finali, è tangibile il fastidio dell’autore per l’approcio psicologista di Nietzsche
e questo fastidio conduce l’autore a fraintendere completamente il senso dei capolavori
successivi allo Zarathustra. Alcune affermazioni sono francamente imbarazzanti,
soprattutto quelle riferite alla Genealogia della morale (un libro eccezionale, come ha
compreso Deleuze che su di esso ha basato tutto il suo libro). Secondo Fink, p. es., nella
9
prima dissertazione si traccerebbe la psicologia del cristianesimo e come prova porta un
brano riferito… all’ebraismo! Tutta l’esposizione su quest’opera non può che esserne
conseguentemente compromessa. Ed infatti, circa la seconda dissertazione, afferma che
essa tratterebbe della coscienza (mentre in realtà il tema centrale è la <<cattiva>>
coscienza) e cita come brano riferito alla nascita della coscienza un brano viceversa
riferito alla nascita della <<cattiva>> coscienza. Questo, a sua volta, comporta che venga
fraintesa anche la terza ed ultima dissertazione, in cui si parla del cristianesimo (è qui che
si parla del cristianesimo!) come religione della reinterpretazione sacerdotale della
<<cattiva>> coscienza (attraverso il <<peccato>>).
Parimenti, è completamente frainteso L’Anticristo che, secondo Fink, non aggiungerebbe
niente di nuovo alla Genealogia, sennonché proprio nell’Anticristo (e solo nell’Anticristo),
si trova l’equazione tra cristianesimo, platonismo, buddhismo e socialismo, cioè il nocciolo
teorico del libro. Il Crepuscolo è appena menzionato, Ecce homo (l’opera definitiva in cui
Nietzsche passa dalla teoresi alla prassi) è saltato a pie’ pari.
Inoltre, ricorre spesso l’affermazione che Nietzsche <<non spiega>>, ma proprio in
Genealogia (questo libro di psicologia non gli è andato giù!) Nietzsche si chiede: <<Cosa
ho mai a che fare io con le confutazioni?>> (prefazione, § 4). Infatti, il “filosofo
dell’avvenire” non spiega, legifera! (Al di là del bene e del male, § 211). È un approcio di
Nietzsche che si può non condividere, criticare, biasimare, ma non ignorare!
Il libro pertanto segue le inclinazioni dell’Autore: la prima parte è semplicemente
meravigliosa, dedicata alla metafisica dell’artista, che è spiegata in maniera suggestiva ed
encomiabile; la seconda è scadente, Umano, Aurora e la Gaia scienza sarebbero solo un
preludio allo Zarathustra; la terza è di nuovo molto buona, l’autore si muove a suo agio fra
superuomo, eterno ritorno e volontà di potenza; la quarta è pessima, per i motivi già detti;
la quinta ed ultima è meravigliosa. A parte gli sbadigli che talvolta si reprimono a stento
nel leggere di Entità dell’Ente, Essere dell’Ente, perfino <<cosità della cosa>> (!!!), rimane
il fatto che l’autore sviscera il cuore della metafisica di Nietzsche e cioè <<il rapporto>> tra
eterno ritorno e volontà di potenza. Queste due dottrine vengono ricondotte ai temi iniziali
del libro (la metafisica dell’artista, Apollo e Dioniso), che così acquista un procedere
circolare, e vengono unificate nel nome di… Si può condividere o meno la soluzione
proposta, ma va dato atto all’autore di essersi posto il problema del <<rapporto>> e di
aver provato a risolverlo in maniera coraggiosa. Cosa sia ciò che unifica eterno ritorno e
volontà di potenza (secondo l’autore), non posso certo svelarlo… Intermittente. Voto: 61/2.
10
S. GIAMETTA, Nietzsche – il poeta, il moralista, il filosofo.
Se mi si concede la distinzione, alcuni libri sono il frutto della volontà, altri della necessità.
Appartengono alla prima categoria i libri degli eruditi, alla seconda quelli dei saggi. Il libro
di Giametta rientra in questa seconda categoria.
La sua forza è che è ricco di contenuti nuovi e fondato su una idea originale. Quindi il libro
non perde tempo con riassuntini concettosi delle tesi altrui, ma va subito al sodo: ha
qualcosa da dire. Come disse Nietzsche, <<molti si sanno superficiali e si sforzano di
essere oscuri, dato che il pubblico pensa che sia profondo tutto ciò di cui non riesce a
vedere il fondo. Pochi si sanno profondi, e si sforzano di essere chiari>> (Gaia scienza, §
173). Giametta è tra questi pochi.
Il contenuto del libro è enunciato già nel bellissimo titolo e ruota intorno alla distinzione,
spesso misconosciuta, delle diverse anime di Nietzsche. In questa operazione, Giametta
è soccorso dalla sua cultura enciclopedica, che gli permette di spaziare ad amplissimo
raggio dalla letteratura alla filosofia, passando per la psicologia e la musica. Il risultato è
che Giametta riesce a dire (quasi) tutto su (quasi) tutto ed anche di più, ovvero ci mette
del proprio. Questo è consentito solo a chi ha il dono di toccare immediatamente il cuore
di ogni problema che affronta.
Quanto al metodo, anche qui Giametta fa centro pieno. Piuttosto che svolgere il
riassuntino scolastico, che non aggiungerebbe niente a quanto già non si sappia o,
all’opposto, piuttosto che attualizzare Nietzsche mettendogli in bocca cose che non ha
detto, Giametta batte una terza strada, quella probabilmente più giusta: parte da
Nietzsche e lo integra con la propria critica, con la propria filosofia. Anche qui, come disse
Nietzsche, il valore di una filosofia non consiste nella costruzione, ma nei mattoni, che
possono servire per nuove costruzioni (opinioni e sentenze diverse, § 201). Giametta, per
l’appunto, usa i temi della filosofia di Nietzsche come mattoni per una nuova costruzione,
la sua. Anziché celebrare un edificio fatiscente, oppure anziché cercare un nuovo
improbabile intreccio per le tessere del puzzle, Giametta prende quei mattoni e li integra
con i suoi pensieri. Questo è l’unico modo per far <<rivivere>> Nietzsche davvero. Certo,
ci vogliono <<gli attributi>> per sfidare Nietzsche a braccio di ferro. Giametta lo ha fatto.
Non è compito mio dare giudizi sull’esito della lotta, mi è bastato aver assistito ad uno
scontro ai massimi livelli.
Spettacolo. Voto: 8 1/2.
11
K. JASPERS, Nietzsche – introduzione alla comprensionde del suo filosofare.
Questo fondamentale saggio del 1935 è un classico dei classici, per mezzo del quale
Nietzsche è stato riconosciuto in tutta la sua importanza filosofica ed “assolto” dall’accusa
di dilettantismo filosofico. In questo libro, infatti, Jaspers porta alla luce la complessità di
un pensiero che era stato banalizzato, anche a causa della forma letteraria e poetica per
mezzo della quale era stato espresso, e gli conferisce la massima dignità ed importanza
filosofica. È uno dei libri degli anni ’30 dedicati a Nietzsche (oltre a quelli contemporanei di
Heidegger e Löwith) per mezzo dei quali Nietzsche venne ammesso nel circolo dei
massimi filosofi, grazie al riconoscimento operato dall’interno dai più alti esponenti di quel
ristrettissimo circolo.
In generale, l’opera di Jaspers si articola in tre parti: la prima ha contenuto biografico, la
seconda istituzionale e distingue i problemi dell’universale razionale (cos’è l’uomo? cosa
la verità? cosa la storia?) da quelli della storicità esistenziale (i temi della grande politica,
dell’interpretazione del mondo, dei limiti e delle origini), la terza affronta il rapporto tra la
vita di Nietzsche (trattata nella prima parte) ed il suo pensiero (trattato nella seconda)
distinguendo il punto di vista dello stesso Nietzsche (su autosservazione, autoriflessione
ed autocomprensione) da quello dei suoi posteri (sull’eredità dell’ateismo di Nietzsche).
In particolare, nella seconda parte sono affrontati i temi dell’uomo (dal punto di vista
nietzscheano della negazione dell’esserci – la sua morale – e dell’affermazione
dell’essenza – il superuomo), della verità (scienza, filosofia, ragione, verità e menzogna),
della storia (storicismo e morte di Dio), della grande politica (in questa parte è grottesca e
comica allo stesso tempo la serietà con la quale Jaspers tenta di organizzare in un quadro
coerente ogni “sparata” di Nietzsche sulla <<grande politica>>), dell’interpretazione del
mondo (la volontà di potenza), dei limiti e delle origini (l’eterno ritorno dell’uguale e
Dioniso, il dio filosofo, della filosofia della tragedia).
Nella terza parte sono affrontati da un lato i temi della maschera e dell’incomunicabilità e
dall’altro quelli della critica nietzscheana e della filosofia dopo Nietzsche.
Il libro, quindi, a dispetto del sottotitolo, è ben più che una mera introduzione al pensiero di
Nietzsche di cui costituisce, al contrario, una esposizione sistematica e completa. Il
linguaggio è accessibile, almeno se confrontato con l’esoterismo verbale del
contemporaneo lavoro di Heidegger, e la lettura relativamente scorrevole.
Il libro consta di 450 pagine, fittissime, dense di contenuto, scritte in caratteri piccolissimi
(nelle parti di approfondimento), cioè dell’equivalente di 900 pagine di altre edizioni. Non
12
ha senso il non concordare con questa o quella singola affermazione, per quanto
discutibile, specie al cospetto di una tale copiosità di spunti critici.
Per completezza, segnalo il rilievo critico di Löwith (op. cit., appendice, § 10, pag. 227): <<
L’esplosivo contenuto nella filosofia di Nietzsche in Jaspers è come depotenziato e
defraudato della sua efficacia storica in un reticolo artificioso di concetti sbiaditi, in cui
l’impotenza nei confronti dell’attacco rappresentato da Nietzsche si presenta come una
guida <<esauriente>> attraverso un mondo di forme concettuali>>.
Enciclopedico. Voto: 9.
13
K. LÖWITH, Nietzsche e l’eterno ritorno.
Edito nel 1935, contemporaneo dei lavori di Jaspers ed Heidegger, questo meraviglioso
libro si inserisce di pieno diritto nella grande tradizione filosofica degli anni ’30 che scoprì
Nietzsche. A differenza dei lavori coevi citati, questo libro non ha carattere di completezza
ma si concentra su un solo aspetto del pensiero di Nietzsche ed alla luce di questo rilegge
alcuni tra i più importanti temi di quel pensiero. L’idea di fondo del libro è che gli aforismi
di cui si compone l’opera di Nietzsche possano essere ricondotti ad unità tenendo
presente il loro legame esoterico, la dottrina che ognuno di essi presuppone, ovvero il
pensiero più abissale di Zarathustra.
Grazie a questo metodo, vengono ricondotte ad unità molte delle apparenti contraddizioni
del pensiero di Nietzsche, quali il rapporto tra la filosofia del mattino e quella del meriggio
(pag. 30), il rapporto tra la perdita del centro di gravità cristiano (la morte di dio) ed il
nuovo centro di gravità (l’eterno ritorno), il rapporto tra il senso del vivere umano e
l’assenza di senso dell’eterno ritorno (pag. 61). Tuttavia, la tesi di fondo del libro non
convince chi, come me, ritiene che in Nietzsche convivano diverse anime, irriducibili ad
unità. Per esempio, soprattutto, per quanto si analizzi la dottrina dell’eterno ritorno
proponendone letture estensive e progressiste, ritengo che detta dottrina sia in totale ed
inconciliabile contraddizione con il Nietzsche decisionista, della volontà, antideterminista.
Difficilmente, quindi, ci si libera dell’impressione che Löwith usi una coperta troppo corta
per la superficie che intende coprire e che conseguentemente la tiri da ogni lato, per
mezzo di metafore improbabili ed interpretazioni ardite.
Il libro, infine, contiene anche una bellissima appendice scritta nel ’54 nella quale vengono
prese in contraddizione (criticate duramente) le più importanti letture di Nietzsche del XX°
secolo, tra le quali quelle di Heidegger e Jaspers.
Pantaloni all’acqua alta. Voto: 71/2.
14
MAZZINO MONTINARI, Che cosa ha detto Nietzsche.
Un libro che mi è molto piaciuto proprio per i suoi difetti. Anzitutto la presunzione
dell’autore, che procede in maniera spedita, sciolta e scorrevole. A furia di lavorare sui
manoscritti di Nietzsche, è cresciuto un Nietzsche dentro di lui: quando parla di Lui, parla
di Sé. Conosce la materia a memoria e la espone senza cervellotici intellettualismi. E poi
le molte omissioni: piuttosto che dirci tutto su tutto (Heidegger), ci ha messo in mano gli
strumenti per scavare. Oltre a questo, mi è piaciuta la distinzione tra una introduzione
biografica ed un successivo svolgimento del suo pensiero, qualcosa a metà tra un saggio
ed una biografia. Piuttosto che esporci le teorie di Nietzsche, ci ha esposto i più frequenti
errori che si commettono nella sua interpretazione e, così facendo, ha messo in guardia i
lettori. Non ha le pretese del libro di Deleuze eppure preferisco questo di Montinari. Un
libro a cui ho detto sì dalla prima all’ultima riga e a cui ho soprattutto detto grazie, per gli
utili avvisi. Saccente. Voto: 8.
(P.S.: molto bella la nota conclusiva in cui sono ricostruiti i rapporti tra lui e Colli. Lezione
di storia. Voto: 8).
15
MORENO MONTANARI, Il Tao di Nietzsche.
Questo libro molto suggestivo affronta in maniera brillante e coinvolgente un tema
affascinante e molto complesso quale quello del rapporto tra la filosofia di Nietzsche e le
principali scuole di pensiero orientali (buddismo Zen, buddismo Ch’an, Taoismo, etc…).
Per quanto Nietzsche conoscesse poco tali scuole, anche a causa della scarsezza di
traduzioni dei testi base esistenti ai suoi tempi, l’autore mette in luce sorprendenti
analogie tra queste due visioni del mondo, sull’assunto delle similitudini esistenti tra
l’insegnamento di Buddha e quello di Eraclito, cui Nietzsche si ricollegherà. Due visioni
caratterizzate e accomunate, principalmente, dal rifiuto della logica aristotelica degli
opposti (logica duale) e dalla decostruzione (concetto “derridiano” sul quale l’autore insiste
molto) di tutte le categorie dell’Essere (il soggetto, il verbo, il numero, l’atomo, il concetto,
la norma, etc…) che costituirebbero meri antropomorfismi per mezzo dei quali l’uomo
tenta di imbrigliare (…la dialettica è una ragnatela…) una realtà in eterno Divenire.
Dalla lacerazione delle ragnatele per mezzo delle quali l’uomo ha falsificato il mondo per
poterci vivere meglio, consegue un naufragio nell’infinito, naufragio che diventa esso
stesso oggetto di indagine. Tale naufragio consiste in quel famoso danzare sugli abissi
nietzscheano che l’autore declina nel concetto di deterritorializzazione e conseguente
nomadismo.
Da questa considerazione l’autore muove infine per offrire una propria personale (anche
se forse non originale) spiegazione del crollo mentale di Nietzsche, inteso quale volontaria
messa in opera della propria filosofia da parte di Nietzsche, messa in opera che si
sarebbe tradotta in una coestensività / farsi ascolto del Sé di Nietzsche con quello
dell’ordine naturale delle cose (Tao).
Tale spiegazione viene avvalorata mediante la citazione di letteratura psichiatrica
“alternativa” quale quella offerta dai testi di Laing, Lacan, Bateson.
Conclusivamente, <<[…] Comparando aforismi (sentenze) nietzschiani ai Koan (chiamate
in giudizio) Zen, l’amor fati alla wu-wei (non azione) taoista, l’illuminazione buddista
(Bodhi) al risveglio del Meriggio zarathustriano, la Wille zur Macht al Tao, il nichilismo al
vuoto e così via, quest’indagine s’inscrive nel più rigoroso prospettivismo nietzschiano
sondando angolature ancora del tutto inedite nel panorama italiano dell’esegesi
nietzscheana>> (nota di copertina).
Coinvolgente e suggestivo. Voto: 10.
16
A. NEGRI, Nietzsche e/o l’innocenza del divenire.
In questo libro Negri dimostra che è possibile dire ancora qualcosa di nuovo su Nietzsche
e che molto anzi rimane ancora da scrivere, come si evince dai molti spunti di
approfondimento appena accennati e rimandati ad altra sede. Tra le molte cose che
rimanevano da dire all’epoca in cui il libro fu scritto (1984), l’autore sceglie il tema degli
<<effetti>> del pensiero nietzscheano dell’eterno ritorno delle stesse cose. In particolare,
nel secondo capitolo del libro, l’autore descrive tali effetti dal punto di vista eracliteo,
quello dell’innocenza del divenire, mentre nel terzo libro egli critica questo punto di vista,
che a suo avviso può sfociare in contemplativismo teorico o in misticismo, e ne propone
uno alternativo. Nello specifico, l’alternativa è posta a partire dalla descrizione del tipo di
uomo opposto a quello definito “l’uomo di Nietzsche”, e cioè il tipo di uomo “goethianohegeliano”.
Questo si differenzierebbe da quello per la coincidenza di vocazione e
professione, ciò che lo renderebbe capace di trasformare il “sapere” in un “saper fare” e di
evitare il dilettantismo umanistico della cultura generale. Il “saper fare” consegue dal
presupposto goethiano-hegeliano del dover trasformare, mentre il “sapere” contemplativo
deriverebbe, secondo l’autore, dal presupposto eracliteo-nietzscheano del non dover
trasformare. Il libro è scritto in maniera estremamente fruibile, chiara e godibile, contiene
innumerevoli spunti di riflessione e dice qualcosa di nuovo in un ambito in cui sembrava si
fosse detto tutto. Problematizzante. Voto: 7 1/2.
17
G. PACINI, Nietzsche lettore dei grandi russi.
In questo libricino l’Autore analizza l’influsso del pensiero di Dostoevskij e Toltsoj su quello
di Nietzsche, mettendone in evidenza le analogie e le differenze. A tal fine, l’Autore si
avvale del contributo dei pochi saggi che avevano affrontato questo tema in maniera
indiretta, e li riassume e coordina, apportandovi peraltro anche un notevolissimo
contributo originale. Per operare il confronto menzionato, vengono riportati per intero
lunghi brani dei tre autori in riferimento ad uno stesso tema.
Il libro è suddiviso in due parti: nella prima viene analizzato il rapporto tra Nietzsche e
Dostoevskij, nella seconda quello tra Nietzsche e Tolstoj.
La prima parte, per quanto molto interessante e problematizzante, non mi convince nei
suoi assunti fondamentali. Curiosamente, i brani addotti dall’autore come esempi di
differenti vedute di Nietzsche e Dostoevskij su certi temi specifici a me paiono
testimoniare viceversa una visione molto simile mentre, all’opposto, i brani addotti per
supportare una pretesa analogia di vedute a me paiono testimoniare piuttosto una
inconciliabile distanza.
All’Autore, per esempio, pare strano che a Nietzsche paiano più interessanti i malriusciti
dei benriusciti (pag. 66). Ciò appare viceversa un postulato della filosofia di Nietzsche,
secondo la quale raramente si verifica nella realtà il brocardo mens sana in corpore sano.
Si confronti per esempio anche il magnifico § 224 di Umano, troppo umano
significativamente rubricato <<Nobilitazione attraverso la degenerazione>>; si pensi
soprattutto, a chi è stato Nietzsche. Malriuscito in un senso (fisico), benriuscito in un altro
(cfr. Ecce homo, perché sono così saggio, § 2).
Poco convincente mi pare pure l’affermazione contenuta a pag. 40, perlomeno nella sua
attuale formulazione, relativa a Cristo come massimo rappresentante della morale degli
schiavi secondo Nietzsche. Secondo me, Nietzsche considerava Paolo di Tarso il
massimo rappresentante di tale morale, non Gesù, al quale erano estranei i concetti tipici
di essa (colpa, punizione, peccato); cfr. vari frammenti postumi dell’88.
Ovvia mi sembra poi la lettura da dare al frammento postumo sulla c.d. “falsità fisiologica”
nei quadri di Raffaello, che all’Autore pare viceversa oscura (pag. 28). Mi pare che esso
vada letto nel senso che, secondo Nietzsche, Raffaello nei propri quadri avrebbe dovuto
rappresentare nature di povera gente, di umiliati ed offesi, anziché di esseri procaci,
essendo credibile che siano nature della prima specie anziché della seconda a farsi
sedurre dal c.d. <<ideale anemico>> cristiano.
18
Ma al di là del dissenso specifico su questi e altri punti, è la tesi di fondo sul rapporto
Nietzsche – Dostoevskij che non mi convince (relativa alla comparazione delle differenti
risposte date al tema del “dopo” la morte di Dio). Ciò peraltro ha aggiunto interesse alla
lettura di questa prima parte.
Della seconda, invece, ho condiviso ogni considerazione circa i rapporti tra Nietzsche e
Tolstoj, da quelle sul cristianesimo <<illuminista>> ed anticlericale di Tolstoj a quelle sul
carattere fittizio della verità ed al ruolo indispensabile svolto dalla menzogna nella
complessiva economia della vita, da quelle sul significato degli ideali ascetici a quelle sulla
individuazione in Tolstoj, da parte di Nietzsche, del campione tipico del prete asceta.
Quest’ultima intuizione è particolarmente degna di nota ed interesse, e va ascritta
unicamente a merito dell’Autore.
È consigliata la lettura di questo libro a chi già conosce i tre autori di cui in esso si parla,
onde poter sostenere un confronto con le tesi espresse nel medesimo. Viceversa, si
rischia una supina ricezione delle stesse, che non può essere evitata per il solo fatto che
dei tre autori vengano riportati numerosi e ampi brani.
In sintesi, questo libro è un riassunto chiaro e veloce su diversi temi contigui che finora
erano stati trattati in maniera disorganica.
Utile ed interessante. Voto: 7 1/2.
19
K. SCHLECHTA, Nietzsche e il grande meriggio.
Un libricino prezioso e infinitamente suggestivo, nel quale Schlechta impartisce una
lezione di metodo. L’Autore focalizza la sua attenzione su un tema ben specifico, riporta
tutti i brani e/o frammenti ad esso relativi, e li commenta parola per parola con perizia da
filologo. In particolare, l’attenzione viene posta tra il § 308 de Il viandante e la sua ombra e
il § Meriggio dello Zarathustra. Tra i due testi (rispettivamente del 1879 e del 1885) si situa
la folgorazione del pensiero abissale dell’eterno ritorno delle stesse cose (luglio 1881) e
l’Autore indaga l’incidenza di questa folgorazione sulla formulazione del tema del
Meriggio. Il pensiero dell’eterno ritorno, che precedentemente era stato spiegato anche
grazie al riferimento ai temi contigui della polemica antistoricista, dell’amor fati e del
concetto di <<attimo>>, viene ora riletto alla luce di una nuova chiave interpretativa,
ovvero il tema del <<grande meriggio>>. Questa nuova impostazione risulterà foriera,
lungo tutto il corso del saggio, di numerosi spunti e suggerimenti.
Il quadro del libro è ulteriormente arricchito sia da una utile ricognizione storica
dell’apparire del tema del meriggio nella speculazione di Nietzsche, le cui poesie liceali
erano piuttosto influenzate da suggestioni crepuscolari, sia da una documentatissima
sintesi ad oggetto mitico-religioso sul significato del meriggio presso i Greci della classicità
e presso la tradizione giudaico-cristiana.
Quest’ultimo spunto è particolarmente degno di apprezzamento, in quanto Schlechta
dimostra come (a dispetto di quello che si sarebbe potuto supporre) il tema nietzscheano
del meriggio, proprio a causa del suo profondo significato anticristiano, abbia natura
intrinsecamente cristiana, in quanto momento della decisione, della volontà, della scelta,
della conoscenza. Viceversa, il meriggio greco era un momento di sospensione dei vincoli
del principium individuationis, di ritorno alla unità primigenia con la natura, di magia e
apparizioni di demoni e folletti, un sonno della ragione e un risveglio del mito.
Nella parte conclusiva, l’Autore offre quindi una personale rilettura e spiegazione del tema
dell’eterno ritorno, riforrmulato alla luce delle considerazioni precedentemente svolte ed
alle quali si è fatto sopra un rapido cenno.
Segnalo infine che il libro è scritto in maniera scorrevole e con un linguaggio accessibile a
tutti, pregio non di poco conto.
Entusiasmante. Voto: 8 1/2.
20
G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera – Nietzsche e il problema della liberazione.
Questo libro è un classico della bibliografia nietzscheana, in quanto vengono affrontati
temi (p. es. quello della maschera) tralasciati dai saggi critici più celebrati e vengono
proposte interpretazioni inusitate dei testi del filosofo tedesco (p. es. una lettura che
coniuga, per taluni aspetti, il marxismo più radicale con Genalogia della morale, ovvero il
“manifesto del partito anticomunista”).
L’idea di fondo del libro è il collegamento asseritamente esistente tra la liberazione
dell’elemento simbolico-dionisiaco e la conseguente liberazione dell’uomo dalle strutture
di dominio (p. 343), liberazioni che sarebbero state entrambe operate da Nietzsche.
Il prezzo pagato per l’istituzione di tale nesso tra dette liberazioni, che paiono contraddirsi
a vicenda (la liberazione del simbolico avviene infatti rinnovando, non già abolendo, le
strutture di dominio: la vita è gerarchia e voler abolire la gerarchia significa per Nietzsche
attentare al sacro spirito della Vita), è un uso dei testi di Nietzsche contro Nietzsche
stesso. Ciò in quanto quest’ultimo si <<autofraintenderebbe>> (!), sia nello Zarathustra, in
cui il problema della liberazione del simbolico sarebbe sì affrontato, ma solo in maniera
allegorico – profetica (p. 343), sia nei testi successivi, in cui tale problema sarebbe stato
tralasciato tout court (p. 368).
Per inciso: sembra che i testi più chiari al riguardo (liberazione del simbolico) siano invece
proprio quelli successivi allo Zarathustra, ovvero: la prefazione della Gaia Scienza (1886)
e l’intero Ecce Homo, a loro volta intrinsecamente connessi mediante una fitta rete di
autocitazioni e rimandi.
L’Autore quindi, a fronte di frammenti postumi di chiaro segno contrario a quello della tesi
centrale del libro, p. es. il celeberrimo § 866 WZM in cui si fa riferimento ad una “superiore
forma di aristocraticismo” ed allo “sfruttamento dell’uomo”, introduce capziose sottigliezze
intese a convalidare la tesi citata, evidentemente sposata per partito preso.
Nel caso dell’aforisma appena menzionato, p.es., il “dominio” al quale ivi si fa riferimento
non sarebbe quello dell’uomo sull’uomo ma, <<solo>>, quello della tecnica (!) ed il termine
“schiavi” sarebbe da intendere non in senso economico-capitalista ma, <<solo>>, di
prospettiva del superuomo verso l’uomo-pecora-bestia-da-gregge (p. 369).
Ciò premesso, in generale, sulla discutibilità della tesi di un Nietzsche “socialista” e sulla
inadeguatezza del descritto metodo, resta da dare succintamente conto, più in
particolare, dei singoli argomenti trattati.
Il problema introduttivo che l’A. si pone è quello del rapporto tra essere ed apparenza.
L’idea classica della coincidenza della cosa in sé e del fenomeno sarebbe stata rifiutata
21
da Schopenhauer e recuperata da Nietzsche, che si sarebbe servito all’uopo del concetto
di <<maschera>>. In quest’ottica, decadenza sarebbe la liberazione socratica <<dal>>
dionisiaco, cui Nietzsche contrapporrebbe la liberazione <<del>> dionisiaco mercé la
rottura dell’unità dell’Essere.
L’operazione di liberazione <<dal>> dionisiaco viene definita come caratterizzante il
mondo della maschera cattiva (scienza, morale, arte, religione, metafisica, linguaggio)
laddove l’opposta operazione di liberazione <<del>> dionisiaco è definita come
caratterizzante il mondo della maschera buona (i cui riferimenti mitici sarebbero Edipo e
Prometeo).
L’A. focalizza quindi la sua attenzione sulla azione operata da Nietzsche di
smascheramento delle varie forme di maschera cattiva (per l’appunto: scienza, morale,
arte, religione, metafisica, linguaggio). Da un lato, la morale “altruistica” avrebbe in realtà
come movente l’egosimo, nozione peraltro problematica e di contenuto storicamente
mutevole. La storia della morale sarebbe, più precisamente, la storia degli impulsi di volta
in volta favoriti dalla società e interiorizzati dai singoli. Dall’altro lato, metafisica e religione
sarebbero prodotti del bisogno di <<fondazione>>, il quale a sua volta scaturirebbe dal
bisogno di sicurezza che urgeva nel mondo insicuro (si ritiene: dell’<<epoca dell’eticità dei
costumi>>) e che sarebbe stato soddisfatto dapprima, appunto, con la religione (mercé la
esorcizzazione della natura) e, quindi, con la metafisica (mercé la antropomorfizzazione
del mondo). Questi atti (esorcizzazione e antropomorfizzazione) sarebbero violenti e
riprodurrebbero ad un diverso livello (il mondo dietro il mondo) la stessa violenza da cui
volevano proteggere l’uomo e alimenterebbero, altresì, le sue stesse paure ad un livello
sublimato (p. 124). Il mondo dei simboli, il mondo dietro il mondo, acquisterebbe tuttavia,
in una determinata fase storica, una relativa autonomia, in coincidenza della quale
apparirebbero i concetti di colpa, responsabilità, libero arbitrio e le sensazioni di cattiva
coscienza, rimorso, etc… (p. 122). L’arte, da ultimo, la valletta della religione,
rappresenterebbe l’unica forma di maschera cattiva capace di sopravvivere alla crisi di
tale mondo, in quanto conterrebbe in sé anche l’essenza del dionisiaco, ovvero
l’autonomia del mondo dei simboli rispetto alle esigenze immediate da cui deriverebbero.
Il mondo della maschera cattiva, conclusivamente, si autonegherebbe proprio a causa di
un processo di autonomizzazione dei suoi simboli (pagg. 95 e 96) che gli si rivolterebbero
contro (p. es.: scoperta, per veracità, del carattere fittizio della verità).
Detto dello smascheramento del mondo della maschera cattiva (la parte, tutto sommato,
contenutisticamente meno disprezzabile del libro), si passa quindi alla descrizione del
mondo della maschera buona.
22
L’uomo la cui coscienza è modellata sui rapporti di dominio non potrebbe essere felice in
quanto non potrebbe realizzare (l’affermazione è apodittica ed ingenua) l’unità di essenza
ed esistenza, evento e senso, essere e valore (p. 240) e quindi non potrebbe voler istituire
l’eterno ritorno (p. 250), che è una dottrina per uomini felici (p. 257), cioè liberati dalle
strutture di dominio (peraltro l’idea di felicità di Vattimo sarebbe stata bollata da Nietzsche
verosimilmente come “verde felicità delle greggi al pascolo” [JGB, § 44]). Il dominio viene
quindi definito come prodotto tipico della tradizione socratico-cristiana ed in ciò sembra
che Vattimo si ponga all’opposto della concezione nietzscheana, secondo la quale
l’ordinamento sociale è solo una proiezione (una conferma, un suggello) della gerarchia
naturale (L’Anticristo, § 57).
A detta dell’A., sarebbe quindi necessaria una trasformazione dell’uomo (nel senso
socialista di cui si è dato conto all’inizio: liberazione dal dominio) in coincidenza con la
quale si verificherebbe la fine della metafisica. Questa fine a sua volta testimonierebbe il
trionfo del mondo della tecnica (pagg. 308 e 332) la quale, rendendo la vita meno
angosciosa e più sicura (pag. 333), eliminerebbe la necessità di fughe nel mondo dietro il
mondo (l’A., peraltro ed incredibilmente, non accenna nemmeno alla possibilità che la
tecnica renda il mondo più angoscioso e che costituisca essa stessa una fuga dal mondo
“apparente”, partecipando degli stessi caratteri del mondo dietro il mondo – il mondo
“vero” – ed essendo originata dal medesimo “bisogno metafisico”).
Ritengo che ognuna delle affermazioni sopra riportate al condizionale sia contraddetta da
numerosi e specifici brani di segno contrario.
Improbabile, presuntuoso ed ingenuo. Voto: 5.
23
A. VERRECCHIA, La catastrofe di Nietzsche a Torino.
Una buona biografia avente ad oggetto gli ultimi giorni di lucidità di Nietzsche a Torino,
rovinata dalla presunzione dell’autore che crede di aver partorito il capolavoro definitivo
che tutta l’umanità aspettava genuflessa. In questo libro, Nietzsche quasi risuscita. Lo
vediamo passeggiare per i viali di Torino, grazie alle accuratissime descrizioni che l’autore
dà dell’altezza del filosofo, del suo peso, del colore degli occhi, della fattura dei suoi
vestiti, del clima di quei giorni, della limpidità dell’aria, dei colori dei viali, dei profumi dei
fiori, etc… Il tutto senza inventare alcunché, ma con un lavoro certosino sulle fonti
(bollettini meteo, rapporti della Questura, articoli di giornale, etc…) che ha dello
straordinario. Verrecchia controlla riga per riga ogni fatto riportato nelle precedenti
biografie, per ognuno di essi va alla ricerca del relativo documento, raccoglie le
testimonianze dei nipoti dei protagonisti e fa piazza pulita di una infinità di errori che si
sono accumulati nel corso dei decenni. Un lavoro archeologico dunque, nel quale si
innesta anche un lavoro di restauro. Non pago, Verrecchia veste anche i panni del
giustiziere, tesse le lodi di personaggi ingiustamente dimenticati (p. es. i membri della
famiglia Fino, presso la quale Nietzsche soggiornò piacevolmente a Torino) e critica
aspramente i baroni universitari che fondano la propria autorità sulle reciproche citazioni,
in un circolo di autoreferenzialità, nel quale un errore originario si cristallizza ed eternizza.
Purtroppo, il libro non finisce qui. L’autore è ben consapevole della bontà del libro, e
finisce con lo strafare. Si autoproclama sacerdote del culto (anti-nietzscheano?), custode
della verità storica, usa toni da demistificatore e dimentica una delle più simpatiche
chicche di Nietzsche: <<Contro la vanagloria. Non ti gonfiare, che una punturina
basterebbe per farti schiantare.>> (da Scherzo, malizia e vendetta, § 21).
Indisponente. Voto: 6.
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