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> Zarathustra, Dell'albero sul monte, Discussione tratta dal forum del Seminario permanente nietzschiano
andreademilio
messagio Nov 11 2007, 12:45 AM
Messaggio #1


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PietroGori
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18 messaggi Inserito il - 08 Ottobre 2007 : 09:25:10
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Questo significativo discorso fornisce alcuni indizi per collegare le osservazioni sulla verità con quelle sull’Einverleibung, sulla Vernaturlichung, sulla funzione del simbolico e sulla questione della comunicazione filosofica. Il tema principale è l’elevazione dello spirito e dell’anima, il senso della ricerca di perfezionamento spirituale.
Il discorso inizia con un evitamento. Il giovinetto si sottrae a Zarathustra – ma si sottrae in realtà alla sua propria verità. Come ogni grande maestro, Zarathustra lo attenderà proprio là, dove la sua verità deve farsi attraverso Zarathustra stesso. Gargani scrive sulla grandezza di ogni maestro: «il maestro non è tale in quanto porta il discepolo in un’altra regione […], ma precisamente in quanto suscita il sapere nel quale il discepolo lo aspettava. È soltanto quando il discepolo è pronto che sorge la figura del maestro. […] Il maestro attende il discepolo dove il discepolo non vuole o non può farsi trovare […]. Il maestro arguisce in certe circostanze da ciò che il discepolo fa che costui in realtà non sta facendo quello che dice di volere e di fare, addirittura che propriamente non sta facendo quello che fa». Zarathustra individua l’uomo attraverso la figura dell’albero che, solitario, si erge sulla vetta di una montagna molto alta. «Per l’uomo – dice – è come per l’albero. Quanto più egli vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanta più forza le sue radici tendono verso la terra, in basso, verso le tenebre, l’abisso – verso io male». Il giovinetto, udite queste parole, si riconosce immediatamente nella descrizione di Zarathusra, al quale dice «hai detto la verità» e continua domandandogli come sia possibile che egli abbia saputo scrutare così profondamente la sua anima. La risposta di Zarathustra è interessante: «Certe anime non potranno mai essere scoperte, a meno che prima esse non vengano inventate». Credo che il riferimento sia qui alla maieutica della verità individuale che la comunicazione (filosofica) e la formazione sono specificamente volte a realizzare. La verità di un’anima si inventa, non si scopre – ossia non c’è un’autenticità preesistente che possa essere scoperta, se non a partire dal momento in cui tale autenticità è prodotta dall’interazione formativa (nel senso più ampio del termine). Non solo: nell’invenzione sta anche un movimento creativo, che non è predittivo, ma piuttosto entusiastico, e ha a che fare con la fiducia. La relazione formativa del sapiente con il formando catalizza reazioni che non sono solo la scoperta di un nucleo sempre identico a se stesso che attende di essere disvelato, ma che propriamente creano, inventano – formano, appunto – l’identità non predeterminabile del formando stesso, cioè la sua verità.


L’albero «è cresciuto molto al di sopra dell’uomo e della bestia – e se anche volesse parlare nessuno lo capirebbe». Ora esso «aspetta il primo fulmine», che arriverà dalla sede delle nubi vicino alla quale l’albero abita. La figura dell’albero evoca la condizione dell’uomo che ha saputo far crescere il proprio spirito elevandosi ad una condizione superiore, che ha oltrepassato il modo di essere della belva e dell’uomo stesso, realizzando una consapevolezza che comporta prima di tutto una difficoltà di comunicazione. Non è solo superiorità, la sua, ma un diverso modo di vedere e di interpretare il mondo, che richiede necessariamente un nuovo linguaggio per descriverlo, o quanto meno un nuovo utilizzo dei vecchi modi di espressione. L’albero si è avvicinato alle nubi (che sono grevi e cariche di pioggia, da quanto si legge nei FP); da esse scaturirà il fulmine, l’unica cosa in grado di spezzare la fissità raggiunta. La situazione descritta è infatti statica; l’albero, cresciuto così in alto, non ha più relazioni, è al di sopra del mondo.

La figura del fulmine è particolarmente ricca, per come era stato già osservato nelle discussioni precedenti, in quanto nel pensiero di Nietzsche si lega strettamente alla nozione di verità. Da quanto riportato nei FP e in EH, il fulmine è l’eterno ritorno, è ciò che annuncia l’eterno ritorno, ma può anche essere il superuomo e Zarathustra stesso (proprio in queste pagine il fanciullo, raccogliendo la sua metafora, si rivolge al profeta dicendogli: «tu sei il fulmine che io attendevo»). Il suo modo di agire è particolare, dal momento che esso squarcia «la nube nera uomo» e arriva a colpire con moto rapido, balenando all’improvviso, trasformando attraverso la sua azione la stessa nube da cui aveva avuto origine, che una volta squarciata non sarà più la stessa. Questo elemento caratteristico della sua simbologia credo abbia grande importanza e che in qualche modo permette di accostare il pensiero di Nietzsche relativamente al tema della verità ad una prospettiva orientale, indirizzandolo verso il raggiungimento di uno stato che è frutto di una esperienza personale che trasforma chi la vive. Senza volersi soffermare su alcuna verità determinata o su una qualche falsità, spingendosi oltre lo stesso rapporto vero-falso, Zarathustra stimola chi lo ascolta a percorrere una propria strada, a crearsela in maniera autonoma, fino a che non sarà in grado di abbandonare gli stessi insegnamenti che gli sono stati dati, i quali non hanno valore se considerati come verità assolute (questa tendenza, esplicitata in Dello spirito di gravità, lo fa essere molto vicino al modello maieutico socratico).
Il fulmine viene dall’alto, viene da altrove, è altro, è una condizione di eccezionalità imprevedibile. È capace di bruciare improvvisamente, ma contemporaneamente di illuminare, ciò che un lungo tempo è richiesto per costruire, per fortificare e per elevare. Il fulmine modifica improvvisamente la direzione dell’elevarsi – risponde infine alla domanda: a che scopo questa elevazione? Il fulmine fulmina, così come ogni conversione. Il giovinetto riconosce che Zarathustra ha detto la sua verità, improvvisamente, e con questo dire ha dato il senso del tendere che fino a un attimo prima del pronunciamento di Zarathustra non aveva che un senso confuso, ambiguo. Così Zarathustra risponde all’esclamazione iniziale del giovinetto e insegna in primo luogo che la casualità apparente è destino, così come che il destino è caso: ecco che odo Zarathustra e proprio ora pensavo a lui. Il giovinetto si trova inoltre in una condizione particolare, perché dice di aver già provato la propria strada e di aver già percorso la via dell’elevazione, senza però trovare soddisfazione. Egli è quindi pronto, ma non sembra in grado di compiere l’ultimo passo autonomamente, senza uno stimolo esterno che gli permetta di passare ad un livello superiore. Senza voler scomodare la nozione di illuminazione, che era stato osservato essere un po’ troppo audace, va comunque sottolineato che il fulmine scaturisce da un terreno fertile e che è stato ben preparato, da nubi che per l’appunto sono cariche di pioggia. La stessa ‘maturità’ della magistralità di Zarathustra, la sua capacità di produrre il fulmine dell’illuminazione e insieme della distruzione, è frutto di una sapienza che a lungo si è accumulata e ha lavorato su se stessa in maniera quasi muta, quasi digestiva e sedimentativa. Il fulmine rappresenta quindi il momento culminante di un percorso, che in un certo senso non può essere raggiunto volontariamente. La condizione di empasse espressa dal giovinetto è esemplificativa di una situazione nella quale non è possibile compiere il passo decisivo che conduca ad una nuova visione del mondo. Piuttosto, come fa l’albero, occorre ritirarsi nell’attesa e lasciare spazio ai reagenti che sono stati assimilati.
In passato era stato suggerito che il possesso di una verità non si configurasse come un sapere teorico di ordine epistemico; allo stesso modo, la comunicazione della verità non è l’atto di fornire una teoria prescrittiva o imperativa che si trasmette in formule o che può essere appresa solo mentalmente. La figura del fulmine chiarisce il valore trasformativo che la comunicazione della saggezza può avere: la verità si produce come incontro fortunato di due maturità differenti, che possono entrare in relazione costruttiva, creativa, inventiva. Sembra che Nietzsche veda la possibilità della verità non come un’improvvisa escandescenza, ma come qualcosa che sembra improvviso, sembra casuale e imprevedibile, ma che ha richiesto preparazioni lunghe ed essenziali. Zarathustra è in grado di dire qualcosa che fulmina il giovinetto, o che potrà fulminare gli uomini, ma è necessario venire al tempo giusto per realizzare questa potenzialità. Allo stesso modo, non ci sarebbe alcuna verità senza questa disponibilità di appropriazione, che attende, come nelle parole di Gargani, la possibilità della rivelazione del vero.

Nella parte conclusiva del discorso Zarathustra imposta una distinzione tra il nobile e il buono. Mentre quest’ultimo è colui che tende alla conservazione delle cose vecchie, il primo cerca di «creare cose nuove e una nuova virtù». Il pericolo, tuttavia, è che il nobile divenga un distruttore, un dissoluto, in seguito alla perdita della sua «speranza elevata». Egli ha in sé il germe dell’eroe, che però non crescerà da solo, se abbandonato e non considerato. L’elevatezza cui aspira anche il giovinetto va infatti coltivata, anche se non è facile raggiungerla. Solo in questo modo, seguendo una pratica educativa sulla quale Zarathustra insiste con vigore (cfr. i toni dell’esortazione finale al giovinetto: «Ti scongiuro: non buttar via l’eroe che è nella tua anima! Mantieni sacra la tua speranza più elevata!»), lo stimolo innovatore dello spirito nobile non finirà per perdersi in una mera distruzione.




ChiaraPiazzesi
Nuovo Arrivato


Germany
13 messaggi Inserito il - 09 Novembre 2007 : 18:05:59
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Rispetto a quanto elaborato in questo resoconto, che riprende molte delle cose che ci siamo detti nella passata edizione (e grazie Pietro per essertene occupato), vorrei porre rapidamente due o tre osservazioni:
1. Mi piacerebbe capire, come ho scritto anche a commento dell'elaborato di Mattia su "Dei Poeti", capire che funzione, che importanza e che valore ha l'immagine della profondità ("die Tiefe") in questo discorso e altrove. Non è trascurabile la differenza che qui si tratta di una profondità nella terra, e altrove, come per i poeti, di una profondità acquatica. C'è una bella differenza. Nella profondità delle acque si può vedere, nella terra si può invece solo andare a tastoni. L'una è penetrata di luce, può intorbidarsi e tornare limpida, è mobile e fluida; l'altra invece è sempre oscura, sempre intrasparente, è dura e compatta, stabile. Nella terra non si pescano cose, ma si scava o si esplora per trovarle. E così via. Questa differenza è utile/importante/significativa? e che valore ha la profondità? (Altri luoghi significativi in cui si parla di profondità sono: Von den Fliegen des Marktes, KSA 66.17; Vom Freunde, 71.8; Das Kind mit dem Spiegel, 107.18; Von den Tugendhaften, 123.17; Von den Erhabenen, 150.4; Die Heimkehr, 233.12). Da notare che Za non parla mai, mi pare, della propria profondità come una profondità terrestre, ctonia, ma acquatica. C'è già chiarezza nella sua profondità. Oppure della profondità come elevazione, come chiarezza celeste (v. Vor Sonnen-Aufgang, 207.1 ss.). Questo significa qualcosa?
2. Sul rifiuto di Za di essere maestro in senso proprio, diretto, didattico, si può vedere ancora una connessione con "Dei poeti". Il compito di Za non è di dire una verità che possa essere universalmente creduta, ma quello di portare ognuno sulla strada della sua propria verità. Questo naturalmente ha a che fare, e qui ritorna nuovamente fuori il discorso sui poeti, con la maniera di intendere la verità. In altre parole, al variare dell'uso che ne faccio (direttamente educativo, singolare, appropriativo ecc.) varia anche la sua funzione, e quindi le sue caratteristiche (non più eterna, divinizzata, stabile e universale, immutabile e garantita ecc.). In altre parole, ho bisogno di un'illusione diversa, che non quella della verità metafisica o comunque universale. Allora il maestro, come detto, non è colui che trasmette una verità, ma che trasmette l'indipendenza dalla Verità, che ognuno deve e non può altro che realizzare a suo modo.


ChiaraPiazzesi
Nuovo Arrivato


Germany
13 messaggi Inserito il - 10 Novembre 2007 : 12:28:01
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Un´altra piccola aggiunta, relativa ancora al rifiuto di essere maestro in senso tradizionale da parte di Za. In "Vom Freunde" Za afferma che la fede che abbiamo negli altri tradisce un nostro bisogno di credere qualcosa di noi stessi. Che cerchiamo negli altri qualcosa che manca, una compensazione, un´affermazione, e lo facciamo credendo qualcosa di specifico - ossia, proiettando un´idealizzazione. Non solo questo é illusione per noi stessi, ma é anche una forma di ´violenza´ su colui che viene ammantato di questa proiezione - é pericoloso nei due sensi, insomma. Se nei "Poeti" Za, quindi, si sottrae alla fede di coloro che pensano che egli non menta, che sia latore di veritá, é anche per rendere coloro che lo ascoltano attenti a questa spontanea tendenza nella relazione. E per spingerli a riportare l´attenzione su loro stessi, sui loro propri bisogni e sul cammino che hanno ancora da percorrere per trovare la propria indipendenza e la propria veritá. In questo senso, oltre che al discorso di Mattia, questo ci conduce, come tutto il discorso "Vom Baum am Berge", anche in direzione delle osservazioni di Claudia.


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