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> Nietzsche e Heidegger
Sgubonius
messagio May 4 2009, 08:49 PM
Messaggio #1


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Tento (con fatica) di riaprire qualche questione importante.
Probabilmente questi due sono i due filosofi più importanti, o comunque influenti, degli ultimi 150 anni, e nelle similitudini e differenze fra questi due si sono articolati molti dei pensieri originali del novecento (lasciando stare i neokantismi e gli analitici...). Dato che oltretutto Heidegger è l'unico pensatore che abbia seriamente inquadrato nietzsche, pensandolo profondamente e capendolo anche con spirito critico (anche con troppo spirito critico) è indubbiamente cruciale analizzare il confronto fra questi due.

Continuo con un parere personale, elaborato solo dalla lettura dei due e di altri filosofi che bazzicano questo genere di pensieri (Vattimo, Deleuze, ecc...) e che è per cui del tutto aperto e suscettibile di errori.
Mi pare che Heidegger parta subito con un forte distacco da Nietzsche, con una vera e propria ossessione di neutralizzarlo, di renderlo aproblematico accorpandolo alla "storia della metafisica". Sicuramente in questo gli viene in aiuto tutta la componente "positivista" che porta nietzsche dalla lettura di schopenhauer allo zarathustra, e soprattutto l'elaborazione del pensiero "tutto è volontà di potenza e niente altro" o più in genere l'enfasi per la "vita" come metro ultimo del porre valori.
Ma nell'ultimo nietzsche (parte dello zarathustra, ecce homo e i ditirambi dioniso) la questione della morale, del rovesciamento del platonismo ecc... passa decisamente in secondo piano a poco a poco, tanto che il superuomo che emerge non può essere più ricondotto soltanto alla "metafisica dei valori" (come heidegger chiama la filosofia di nietzsche). Una parte fondamentale è giocata dalla questione del soggetto che si tramuta in maschera. Tutta l'analisi della metafisica di Heidegger si basa fortemente sull'idea che un soggetto (teso da un'equivalente della volontà di potenza che varia tanti nomi) si appropri dell'ente, e Nietzsche porta così all'estremo quest'idea da distruggere del tutto il rimasuglio sistemico di soggetto/oggetto e con questo è del tutto inassimilabile alla domanda guida "che cosa è l'ente". Certo non ci sarà mai in Nietzsche la differenza ontologica, ma di fatto c'è l'intuizione di quel percorso incerto in un fondamento più radicale di tutte le parole della tradizione di fissazione dell'ente.

A riguardo si può prendere proprio un pezzo dai Contributi alla filosofia (dall'evento), di Heidegger:
<<Un possibile, anzi il possibile in generale, si apre solo al tentativo. Il tentativo deve essere permetato da una volontà anticipatrice. La volontà, inquanto porsi oltre se stessi sta in un essere oltre-di-sé. Questo stato è l'originaria concessione del gioco dello spazio-tempo in cui viene a ergersi l'Essere: l'esser-ci. Esso è essenzialmente come azzardo (Wagnis). E solo nell'azzardo l'uomo raggiunge l'ambito della de-cisione. E solo nell'azzardo egli è in grado di ponderare. Il fatto che l'essere sia e non diventi perciò un ente si esprime nella maniera più netta in quanto segue: l'Essere è possibilità, ciò che non è mai lì presente, eppure, nel rifiuto mediante l'evento-appropriazione, sempre concede e nega.>>

Ora senza entrare in questioni di ontologia fondamentale o di parole heideggeriane mi pare che questo passo trasudi del miglior nietzsche, cioè del nietzsche che realmente non si cura più delle genealogie morali e degli anticristi. Che poi al posto della volontà di volontà, del volere oltre se stessi, si usi la parola "Da-sein" o che si legga l'azzardo come essenziale velarsi dell'essere anzichè come falsità insita nella maschera... non vedo differenze così importanti. Addirittura azzardo da Ruhm und Ewigkeit:


<<Höchstes Gestirn des Seins!
Ewiger Bildwerke Tafel!
Du kommst zu mir? -
Was Keiner erschaut hat,
deine stumme Schönheit, -
wie? sie flieht vor meinen Blicken nicht?
[...]
Höchstes Gestirn des Seins!
- das kein Wunsch erreicht,
das kein Nein befleckt,
ewiges Ja des Sein's,
ewig bin ich dein Ja:
denn ich liebe dich, oh Ewigkeit! - ->>

<<Supremo astro dell’essere!
Tavola di eterne immagini!
Tu vieni a me? –
Ciò che nessuno ha scorto,
la tua muta bellezza, -
come? non fugge essa dinanzi ai miei sguardi?
[...]
Supremo astro dell’essere!
- che nessun desiderio raggiunge,
che nessuno imbratta,
eterno si dell’essere,
eternamente sono io il tuo si:
perché io ti amo, oh eternità! –>>


PS: aggiungo per completare il discorsetto che non c'è divergenza fra i due per quanto riguarda necessità/possibilità, infatti entrambe convergono nella locuzione che si trova in heidegger di "necessità dell'assenza di necessità" che traduce la possibilità in una necessità (negativa). Anche la necessità che appartiene al superuomo è di questo stampo, cioè una possibilità (potenza) necessitata nell'eterno ritorno e nell'Amor Fati. Deleuze riprende la cosa con la bella immagine del lancio dei dadi, ed eventualmente si può tirare dentro nel discorso anche il celebre detto di Eraclito sull'Aion regno di un fanciullo che gioca come elemento di transizione e contatto.


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Sgubonius
messagio May 16 2009, 12:49 AM
Messaggio #2


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Continuo il monologo!

Una voce importante per sottrare Nietzsche all'interpretazione acuta e critica di Heidegger è senza dubbio quella di Deleuze (che certamente porta a compimento discorsi già avviati da altri francesi come Klossowski, Bataille, Blanchot, Foucault ecc...). Nella prima appendice della Logica del Senso c'è una trattazione molto esplicita in questi termini, tanto che si intitola proprio "rovesciare il platonismo", frase con cui Nietzsche stesso definì la propria filosofia e che Heidegger usò proprio nel suo Nietzsche, per concludere che in fondo nel ribaltamento non si era cambiata l'essenza della metafisica ma si erano solo invertite le priorità (apparenza-verità).
Lascio la parola a Deleuze stesso:

<<Consideriamo le due formule: "soltanto ciò che somiglia differisce", "soltanto le differenze si somigliano". Si tratta di due letture del mondo nella misura in cui una ci invita a pensare la differenza a partire da una similitudine o da una identità preliminari, mentre l'altra, al contrario, ci invita a pensare la similitudine e anche l'identità come prodotto di una disparità di fondo. La prima definisce esattamente il mondo delle copie o delle rappresentazioni: essa pone il mondo come icona. La seconda, contro la prima, definisce il mondo dei simulacri. Pone il mondo stesso come fantasma.[...]
Rovesciare il platonismo significa allora: far risalire i simulacri, affermare i loro diritti tra le icone o le copie. Il problema non riguarda più la distinzione Essenza-apparenza o Modello-copia. Tale distinzione nel suo insieme opera nel mondo della rappresentazione; si tratta di mettere il sovvertimento in tale mondo, "crepuscolo degli idoli". Il simulacro non è una copia degradata, esso racchiude una potenza positiva che nega sia l'originale sia la copia, sia il modello sia la riproduzione.[...]
Nel rovesciamento del platonismo somiglianza appunto si dice della differenza interiorizzata e l'identità si dice del Differente come potenza prima. Il medesimo e il simile hanno la loro stessa essenza ormai solo nell'essere simulati, cioè nell'esprimere il funzionamento del simulacro.[...]
Che il medesimo e il simile siano simulati non significa che siano apparenze o illusioni. La simulazione designa la potenza di produrre un effetto. Ma non è soltanto nel senso causale, poichè la causalità rimarrebbe del tutto ipotetica e indeterminata senza l'intervento di altre significazioni. E' nel senso di "segno", sorto da un processo di segnalizzazione; ed è nel senso di "costume", o meglio di maschera, esprimente un processo di travestimento in cui, dietro ad ciascuna maschera, un altra maschera... La simulazione così intesa non è separabile dall'eterno ritorno; nell'eterno ritorno infatti si decidono il rovesciamento delle icone o il sovvertimento del mondo rappresentativo. Qui tutto avviene come se un contenuto latente si opponesse ad un contenuto manifesto. Il contenuto manifesto dell'eterno ritorno può essere determinato conformemente al platonismo in generale: rappresenta allora la maniera in cui il caos è organizzato sotto l'azione del demiurgo, sul modello dell'Idea che impone ad esso il medesimo e il simile. In questo senso l'eterno ritorno è il divenire-folle padroneggiato, monocentrato, determinato a copiare l'eterno. Tale appare nel mito fondatore; esso instaura la copia nell'immagine, subordina l'immagine alla somiglianza. Ma, lungi dal rappresentare la verità dell'eterno ritorno, questo contenuto manifesto ne segna piuttosto l'utilizzazione e la sopravvivenza mitiche in una ideologia che non lo sopporta più e che ne ha perduto il segreto. [...] Inoltre, l'esposizione manifesta esiste soltanto per essere confutata seccamente da Zarathustra: una volta al nano, un'altra volta ai suoi animali Zarathustra rimprovera di trasformare in piattezza ciò che è tanto profondo, in "ritornello" ciò che è musica affatto diversa, in semplicità circolare ciò che è tanto tortuoso.[...]
Appunto perchè fra l'eterno ritorno e il simulacro, vi è un legame tanto profondo che l'uno non può essere compreso senza l'altro. Sono le serie divergenti, in quanto divergenti, che ritornano, cioè ciascuna in quanto sposta la propria differenza con tutte le altre, e tutte in quanto complicano la loro differenza nel caos senza inizio né fine. Il cerchio dell'eterno ritorno è un cerchio sempre eccentrico per un centro sempre decentrato. [...] E' potenza di affermare la divergenza e il dicentramento, ne fa l'oggetto di un'affermazione superiore. Nella potenza del falso pretendente fa appunto percorrere e ripercorrere ciò che è. Così non fa ritornare tutto; è selettivo ancora, fa la differenza, ma per nulla alla maniera di Platone. Ciò che esso seleziona sono tutti i procedimenti che si oppongono alla selezione. Ciò che esso esclude e non fa tornare è ciò che presuppone il Medesimo e il Simile, ciò che pretende di correggere la divergenza, di ricentrare i cerchi o ordinare il caos, di dare un modello e fare una copia.>>


Anche in Differenza e Ripetizione tutto il discorso è portato avanti sostanzialmente in questi termini: la differenza come elemento ontologicamente primo, la ripetizione come ripetizione della differenza (ruota decentrata, distribuzione nomade, anarchia incoronata e via dicendo). Penso che il testo che ho messo parli da sè, in ogni caso posso tirare le fila rapidamente.
Quanto Heidegger sosteneva, accorpando Nietzsche alla storia della metafisica nel considerare il suo l'estremo tentativo di soggiogare l'ente (anche nel suo divenire-folle e nella sua falsità) e di creare la massima certezza (cartesiana) nell'incertezza nichilistica, è qui di fatto confutato. Non sono stati solo ribaltati Modello e Copia, facendo valere le copie (ad esempio le apparenze e l'arte) più del modello (la verità, l'idea), ma soprattutto si è demolito il sistema platonico e metafisico stesso dei valori in generale, che è quello della morale e della teologia. La filosofia di Nietzsche non è metafisica dei valori, perchè il superuomo non valuta più ma trans-valuta. La differenza gioca qui il ruolo fondamentale, ontologicamente fondativo, anche se ovviamente in un senso parzialmente diverso dalla "differenza ontologica" di Heidegger. Ecco perchè la volontà di potenza è anche la fine del soggetto metafisico: del punto di vista sulla città sempre medesima, compossibile, cerchio concentrico e convergenza delle serie, umano troppo umano (prospettivismo falso, scientifico, leibniziano). Qui si apre veramente la forza dionisiaca di novità filosofica che è Nietzsche, nello spazio delle serie divergenti che risuonano, delle incompossibilità del prospettivismo/relativismo/nichilsimo più genuino, quello "attivo", quello che accetta e afferma la differenza che è la risonanza stessa di queste delle divergenze, qui nella superficie, dove non c'è più modo, nè qualità, nè quantità, dove non v'è insomma più rappresentazione.


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lae
messagio May 19 2009, 09:08 PM
Messaggio #3


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Ho letto questi tuoi monologhi interessantissimi sgubonius. (mi ci vuole tempo per poter formulare riflessioni a riguardo^^)
però ho apprezzato tantissimo il finale dove dici:
"Qui si apre veramente la forza dionisiaca di novità filosofica che è Nietzsche, nello spazio delle serie divergenti che risuonano"
mi ha catturato il verbo che hai utilizzato: risuonare che richiama l'esigenza tracciata Nietzsche di (ri)tornare ad un ascolto visivo in ambito filosofico - conoscitivo.
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Sgubonius
messagio May 19 2009, 10:36 PM
Messaggio #4


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CITAZIONE(lae @ May 19 2009, 10:08 PM) *
Ho letto questi tuoi monologhi interessantissimi sgubonius. (mi ci vuole tempo per poter formulare riflessioni a riguardo^^)
però ho apprezzato tantissimo il finale dove dici:
"Qui si apre veramente la forza dionisiaca di novità filosofica che è Nietzsche, nello spazio delle serie divergenti che risuonano"
mi ha catturato il verbo che hai utilizzato: risuonare che richiama l'esigenza tracciata Nietzsche di (ri)tornare ad un ascolto visivo in ambito filosofico - conoscitivo.


Ho rubato da Deleuze, che quando parla della Differenza lo fa proprio in termini di serie divergenti (quindi insanabili, irriducibili ad una convergenza-uguaglianza-somiglianza, come le differenze qualitative se vuoi) e la forza della differenza è proprio nella risonanza che si produce nello spazio (potenziale, per questo la differenza è la VdP) della divergenza/differenza, come chessò in un diapason che deve biforcarsi per produrre un suono. Nel mondo platonico della somiglianza non c'è potenza (che è appunto il potenziale del differire, del tenere in sospeso non consumando, come l'acqua in una diga o i poli di una batteria, la trasfigurazione dell'istinto di morte in un mancante/mancato da-per-sempre) così come nel linguaggio non poetico, quando si riduce "Sempre caro mi fu quest ermo colle" in "mi è sempre piaciuta questa collina" perchè tanto è uguale, il messaggio è lo stesso!


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lae
messagio May 19 2009, 11:17 PM
Messaggio #5


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CITAZIONE
del tenere in sospeso non consumando

una tensione?!?! smile.gif
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Sgubonius
messagio May 20 2009, 05:03 PM
Messaggio #6


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CITAZIONE(lae @ May 20 2009, 12:17 AM) *
una tensione?!?! smile.gif


Si, una tensione in senso quasi elettrico/magnetico, o come un elastico teso, energia potenziale.
Quell'eros frustrato in continuazione che schopenhauer aveva descritto (la vita come oscillazione fra noia per desiderio appagato e delusione per desiderio mancato) e che svela una pulsione di morte sottostante viene in qualche modo superata in un ottica "della potenza", dove la forza non si scarica mai, il desiderio non si appaga mai (il desiderio stesso è la forza potenziale di soddisfazione dello stesso insomma, la tensione per ottenere qualcosa è più importante dell'ottenere in sè che la neutralizza).
Ecco penso che il discorso sulla differenza vada di pari passo, e l'eterno ritorno diventa selettivo proprio perchè è sopportabile solo nell'ambito della differenza (altrimenti ritorna un istinto di morte tremendo), qui peraltro Deleuze inserisce anche il concetto di tempo Aiòn che è molto interessante (un tempo senza presente praticamente, dove scompare l'io non incrinato) per completare il quadro filosofico. Però si complica ulteriormente! laugh.gif


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Nachtlied
messagio May 21 2009, 01:08 PM
Messaggio #7


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Pur apprezzando molto le letture di Deleuze, sulla differenza ho sempre trovato alcuni dubbi.
La "canzone da organetto", non è infatti riferita al ritorno della copia, ma semplicemente al non prendere troppo alla leggera l'eterno ritorno come un banale "tutto torna"; però questo è nel senso specifico di valutare bene il peso che tale pensiero comporta. La conclusione di Deleuze è una delle possibili conseguenze speculative del discorso nietzscheano, ma non l'unica.
Infatti, in N, l'eterno ritorno, sembra prendere forza proprio dall'idea della piattezza che la ripetizione porterebbe, ed è in questa che risiede la chiave per superarla.
Certo, non dovendo più esistere un 'soggetto', anche la redenzione del passato, non si inserirebbe più nell'ottica di un passato 'personale', e in questo senso la selettività non si riferirebbe alla singola vita, ma al continuo differire della vdp e del superuomo che in essa si è identificato; così scomparirebbe anche l'ultimo residuo di metafisica: la copia [questo è quanto ho capito io dai testi che ho letto; il problema è che Deleuze stesso è interpretabile...].
Però N non è stato così esplicito su questo punto, almeno quanto lo è stato sul problema del peso da attribuire all'e.r.
Voglio dire, leggendo N, la cosa più immediata da pensare, è proprio il non senso di un ritorno dell'identico, la problematica nichilistica spinta più a fondo. E' proprio il peso più grande del ritorno, che toglie ogni residuo metafisico in N, in quanto il ritorno è soffocante, non sopportabile per l'uomo, ed è la cosa più priva di senso che si possa pensare. Inoltre esso, mostrando il 'mondo' inglobato sempre nel medesimo nodo di cause, porta chiaramente in luce quanto sia un concetto che basti a se stesso, non ha bisogno di introdurre altre problematiche o cause.
Non so se l'eliminazione della "copia" risolva davvero il problema della metafisica, perché priva l'e.r. del terribile peso che lo caratterizza.

Per favore, se non ho capito niente di Deleuze in tutti questi anni rispiegatemi tutto!!!


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Sgubonius
messagio May 21 2009, 08:23 PM
Messaggio #8


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CITAZIONE(Nachtlied @ May 21 2009, 02:08 PM) *
Pur apprezzando molto le letture di Deleuze, sulla differenza ho sempre trovato alcuni dubbi.
La "canzone da organetto", non è infatti riferita al ritorno della copia, ma semplicemente al non prendere troppo alla leggera l'eterno ritorno come un banale "tutto torna"; però questo è nel senso specifico di valutare bene il peso che tale pensiero comporta. La conclusione di Deleuze è una delle possibili conseguenze speculative del discorso nietzscheano, ma non l'unica.
Infatti, in N, l'eterno ritorno, sembra prendere forza proprio dall'idea della piattezza che la ripetizione porterebbe, ed è in questa che risiede la chiave per superarla.
Certo, non dovendo più esistere un 'soggetto', anche la redenzione del passato, non si inserirebbe più nell'ottica di un passato 'personale', e in questo senso la selettività non si riferirebbe alla singola vita, ma al continuo differire della vdp e del superuomo che in essa si è identificato; così scomparirebbe anche l'ultimo residuo di metafisica: la copia [questo è quanto ho capito io dai testi che ho letto; il problema è che Deleuze stesso è interpretabile...].
Però N non è stato così esplicito su questo punto, almeno quanto lo è stato sul problema del peso da attribuire all'e.r.
Voglio dire, leggendo N, la cosa più immediata da pensare, è proprio il non senso di un ritorno dell'identico, la problematica nichilistica spinta più a fondo. E' proprio il peso più grande del ritorno, che toglie ogni residuo metafisico in N, in quanto il ritorno è soffocante, non sopportabile per l'uomo, ed è la cosa più priva di senso che si possa pensare. Inoltre esso, mostrando il 'mondo' inglobato sempre nel medesimo nodo di cause, porta chiaramente in luce quanto sia un concetto che basti a se stesso, non ha bisogno di introdurre altre problematiche o cause.
Non so se l'eliminazione della "copia" risolva davvero il problema della metafisica, perché priva l'e.r. del terribile peso che lo caratterizza.

Per favore, se non ho capito niente di Deleuze in tutti questi anni rispiegatemi tutto!!!


Credo che per mettere dei paletti (non fosse altro che per capirci meglio fra noi) si debba tirare dentro anche Heidegger come ho messo nel titolo del topic, non fosse altro perchè mi pare che questa lettura che riprendevi tu (dell'eterno ritorno come peso, quindi non come canzone da organetto) è sostanzialmente quanto dice proprio Heidegger. Se stai studiando come mi pare avessi detto il suo Nietzche c'è proprio un intero capitolo (il 2o mi pare) sull'eterno ritono a cui si dà grande importanza.

Però è proprio qui che casca l'asino, nel senso che Heidegger mostra abbastanza bene l'ambiguità insita in questo "imprimere al divenire il carattere dell'essere". E' assolutamente legittimo quindi leggere come lui la cosa in termini totalmente metafisici, cioè come l'atto finale del soggetto della certezza cartesiano (cogito come autoevidenza ecc...) che si riappropria anche del panta rei in centrandolo in un movimento rotatorio di cui lui è di fatto il centro (qui Heidegger analizza la porta carraia dell'attimo come momento decisionale e quindi perno del ritorno no?). Insomma Heidegger è convinto che nell'eterno ritorno ci sia un esaurire in qualche modo le possibilità del caso, la follia del divenire, e sia quindi solo il nuovo peso (reinventato dopo che ogni peso ha perso valore nel nichilismo) che si usa per valutare (come nelle vecchie bilance), ma non è colta l'essenza del trans-valutare che è il vero uscir-fuori dell'ossessione metafisica del possesso.
Per questo tiravo in ballo Schopenhauer anche, che Heidegger secondo me non ha mai troppo considerato (non lo considerava neanche un filosofo) ma che è fondamentale almeno per capire nietzsche. Valutare mi pare sia sinonimo sostanziale di volontà (attribuire un peso/valore ad ogni cosa è preliminare alla decisione sul volerla o no, giusto?) e il nichilismo della perdita dei valori/pesi arriva prorpio da quella considerazione schopenhaueriana della vanità di ogni volontà e di ogni raggiungimento. Ecco perchè ponevo l'accento sulla volontà di potenza e sul transvalutare come concetti profondamente nuovi, che credo Deleuze abbia visto come punti per l'appunto di "differenza".

Tirando le fila, è chiaro che se leggiamo Nietzsche nell'ambito della metafisica ne vedremo solo il massimo profeta della crisi di ogni possesso e di ogni volontà (a partire dalla certezza del soggetto conoscente, vivente), e l'estremo tentativo di rendere più vivibile il mondo attraverso un eternizzazione anche dell'infinitamente sfuggevole (attimo), una tecnica potentissima insomma. Ma se invece riconosciamo la piena assunzione del cosiddetto "impulso di morte" freudiano, cioè se vediamo come al raggiungere una conoscenza, una certezza, all'appagare insomma una volontà e un desiderio (e quindi raggiungere un idea, un modello attraverso delle copie e delle icone: il mondo della rappresentazione - e della volontà), si sia sostituito un mancare essenziale, da e per sempre, inappagabile, irriducibile ad ogni somiglianza, dove il volere vuole se stesso, un oggetto eternamente mancante = x, il fallo lacaniano, come sorgente pura di ogni pulsione e tensione, oramai de-sessualizzata (de-rappresentata insomma, de-idealizzata, de-erotizzata), allora si vede cosa sia la Differenza e cosa intende Deleuze. Il peso non è più l'ultima trovata per poter avere un unità di misura, di massa, per fare delle misurazioni/valutazioni del mondo a nostra immagine e somiglianza, ma sarà invece il peso (esistenziale) del mancato da-per-sempre, del venir-meno degli obbiettivi (oggetti cadono insieme ai soggetti), del regno del non-senso, di un mondo senza trascendenza, una superficie, un peso che diventa selettivo nella misura in cui fa tornare solo chi/cosa abbia avuto esperienza piena e accettata della differenza, cioè di questo non-senso dei mondi divergenti, irriducibili ad uno. Addirittura il rapporto fra ripetizione (eterno ritorno) e differenza (volontà di potenza) è fondamentale, una sussiste solo con l'altra. Certo si forzano un po' delle cose che nietzsche non ha detto, però è solo in questa lettura che si capiscono invece tutte le allusioni dell'ultimo Nietzsche alla maschera ad esempio, insomma Nietzsche è irrisolto già di suo, per forza va interpretato (e forzato) in una direzione o nell'altra, l'interpretazione di Deleuze finora è l'unica che davvero lo strappi alla metafisica così come la intende Heidegger (cioè come un horror vacui praticamente). Il problema insomma è quello di strappare Nietzsche totalmente dal platonismo, e per questo va distrutto il concetto di "copia" e si deve parlare di differenza.

Attraverso questa lettura (complessa lo riconosco, ma molto interessante) si possono leggere senza contraddizioni i Ditirambi di Dioniso ad esempio, dove come ho fatto vedere in alto ci sono anche intuizioni simili a quelle del "silenzio dell'essere" heideggeriano.


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messagio May 21 2009, 08:46 PM
Messaggio #9


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CITAZIONE(Nachtlied @ May 21 2009, 02:08 PM) *
Per favore, se non ho capito niente di Deleuze in tutti questi anni rispiegatemi tutto!!!


Al solito ho scritto un filo troppo! Cerco di rispondere anche in maniera più breve...
Mi pare che in generale è come hai scritto tu, solo la ripetizione (col suo carico inevitabile di "piattezza") permette alla differenza di esistere (si fa per dire!) come ripetizione senza concetto (come viceversa la ripetizione è la differenza senza concetto).
Conta insomma il recupero di una differenza originaria (ontologica?), irriducibile ad ogni "Uno" metafisico che emani sugli altri enti il giusto, il forte, il bello. L'essere heideggeriano è quella mancanza - di voce (silenzio)- che in Deleuze genera la scissione fra significanti e significato, con un eccesso/mancanza sempre nomadi e mobili, i conti insomma non tornano mai, è un divenire davvero folle, e anche il ritorno non può che essere un ritorno della differenza. Certamente bisogna entrare nell'ottica di singolarità preindividuali e impersonali, quelli che Deleuze chiama "eventi", non a caso parola fondamentale anche in Heidegger (Ereignis).


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Sgubonius
messagio Jun 22 2009, 06:01 PM
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Una citazione da "La scrittura e la differenza" di Jacques Derrida:

<<E' questo che permette allora a quei distruttori di distruggersi reciprocamente, per esempio a Heidegger di considerare Nietzsche, con lucidità e rigore pari alla malafede e all'incomprensione, come l'ultimo metafisico, l'ultimo "platonico".>>

Anche Derrida, grande lettore di Heidegger (e di Nietzsche) riconosce una certa malafede nella lettura che l'uno fa dell'altro. Soprattutto forzatamente allo scopo di ridurlo all'ennesimo ed ultimo metafisico. La lettura di Deleuze (sostanzialmente in linea con quella di Derrida, entrambi peraltro filtrati dall'idea heideggeriana del silenzio dell'essere e della differenza ontologica) è uno dei pochi metodi speculativi che sottraggano Nietzsche dal destino metafisico che Heidegger con "lucidità e rigore" ha evidenziato e che, inutile negarlo, fa parte di molte espressioni del suo pensiero (che è ambiguo).


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Innanzi tutto vorrei scusarmi per questo lungo periodo di assenza. Purtroppo ho avuto diversi impegni e soprattutto gravi problemi familiari che mi hanno visto oberata di lavoro - anche domestico - fino ad ora.
Vediamo di riprendere un pò le fila del discorso.
Premetto che del Nietzsche ho studiato solo alcune parti, perché poi l'ho acquistato su internet ad un ottimo prezzo, restituendo quello che avevo in prestito, ma ancora non mi è arrivato.
CITAZIONE(Sgubonius @ May 21 2009, 09:23 PM) *
Il peso non è più l'ultima trovata per poter avere un unità di misura, di massa, per fare delle misurazioni/valutazioni del mondo a nostra immagine e somiglianza, ma sarà invece il peso (esistenziale) del mancato da-per-sempre, del venir-meno degli obbiettivi (oggetti cadono insieme ai soggetti), del regno del non-senso, di un mondo senza trascendenza, una superficie, un peso che diventa selettivo nella misura in cui fa tornare solo chi/cosa abbia avuto esperienza piena e accettata della differenza, cioè di questo non-senso dei mondi divergenti, irriducibili ad uno. Addirittura il rapporto fra ripetizione (eterno ritorno) e differenza (volontà di potenza) è fondamentale, una sussiste solo con l'altra.


E' questo "chi/cosa" che mi ha sempre turbato nella lettura di Deleuze.
Anzi, se tu potessi chiarirmelo meglio te ne sarei davvero grata, così anche la discussione potrebbe prendere una piega migliore.

CITAZIONE(Sgubonius @ May 21 2009, 09:46 PM) *
Conta insomma il recupero di una differenza originaria (ontologica?), irriducibile ad ogni "Uno" metafisico che emani sugli altri enti il giusto, il forte, il bello. L'essere heideggeriano è quella mancanza - di voce (silenzio)- che in Deleuze genera la scissione fra significanti e significato, con un eccesso/mancanza sempre nomadi e mobili, i conti insomma non tornano mai, è un divenire davvero folle, e anche il ritorno non può che essere un ritorno della differenza. Certamente bisogna entrare nell'ottica di singolarità preindividuali e impersonali, quelli che Deleuze chiama "eventi", non a caso parola fondamentale anche in Heidegger (Ereignis).


Questo non fa una piega nell'ottica di Heidegger e Deleuze e, perché no, anche di Lacan (che avevi citato prima).
Ma quello che non riesco ad afferrare è il rapporto tra il "chi/cosa" di prima e le "singolarità preindividuali e impersonali" di cui stai parlando ora.

Purtroppo all'università non ho mai dovuto studiare bene Deleuze, che ho letto soltanto quando scrivevo la tesi e quindi l'idea che me ne sono fatta proviene da me soltanto.
Heidegger è stato l'argomento centrale del 50% dei seminari specialistici che ho seguito, però poche volte abbiamo parlato della sua lettura nietzscheana; perciò, anche in questo caso l'idea che me ne sono fatta proviene solo dalla mia esperienza personale.
Non avendo 'guide esperte' da seguire, sono poco sicura delle affermazioni che faccio; per questo la maggior parte di esse è costituita da domande.
Una volta chiariti i dubbi, possiamo discutere meglio...


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Sgubonius
messagio Jul 1 2009, 03:03 PM
Messaggio #12


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Purtroppo anche io sono solo suggestionato da letture ancora un po' sparse e proprio sul problema del soggetto in Deleuze non posso dire di avere le idee chiare, ho aperto almeno 4 topic che girano intorno a sto problema (immanenza-trascendenza, questo, quello del soggetto e la volontà di potenza e quello sull'apollineo) !!!

Evidentemente il chi/cosa dovrebbero essere proprio le singolarità preindividuali, apersonali di cui parla Deleuze. Ora qua siamo nella speculazione più totale. Se partiamo dall'idea che l'io pensante sia il risultato di forze/intensità di vario genere che si concatenano a creare un mondo (il mondo appunto a cui l'io si apre, c'è anche in Heidegger questa idea anche se lui parla di "esserci" anzichè di io). In questo frangente è molto utile il concetto di monade di Leibniz. Se immaginiano un sistema di monadi abbiamo forse un idea delle singolarità gettate da "eventi problematici" che sono alla base del "senso" (della logica del senso). Le singolarità sono pieghe/monadi, cioè punti notevoli (nel senso matematico proprio), differenziali (il punto di un angolo per esempio porta con sè all'infinitesimale un rapporto differenziale che è l'angolo stesso, oppure il punto di ebollizione dell'acqua), ovvero in termini brutali le cose che ci permettono di entrare in percezione con un mondo che compongono.

C'è allora in qualche modo un inconscio che si struttura come un linguaggio (per tornare a Lacan) alla ricerca di un senso che permetta di creare una differenza fra parlare e mangiare, fra cose e proposizioni, e questo senso è possibile solo alla superificie (cioè fra cose e proposizioni appunto) in relazione ad un problema/evento che conferisca "senso" alle possiibli soluzioni che sono le singolarità (per esempio il problema delle coniche che genera varie possibilità: parabola, iperbole, retta, cerchio, ellisse).

Ora nel gioco ideale deleuziano ci sarebbe un lancio di dadi ontologicamente unico che riaffermasse ogni volta tutto il caso, cioè tutte le singolarità del incompossibili di un certo problema (che resta così giustamente irrisolto), perchè nell'evento non effettuato (nel problema non risolto) possono coesistere tutte le potenzialità. Una sintesi disgiuntiva che quindi afferma la Differenza e il nomadismo del non-senso (che è l'altra faccia del senso e si oppone con esso all'assenza di senso) che rimette sempre in discussione, in divenire folle, ogni linguaggio e ogni struttura, perchè c'è sempre un significante di troppo, tutto è sempre irrisolto.

Tirando le somme Deleuze parla proprio in relazione all'univocità dell'essere (lancio unico) di un Evento unico in cui gli altri comunicano, cioè un problema dei problemi, un paradosso fondamentale. Questo paradosso è l'essere e il pensiero dell'essere, cioè quanto origina tutto il resto, quanto distribuisce in continuazione tutte le singolarità (e sempre in modo diverso diveniente).

Non sono stato molto chiaro, la cosa è evidentemente complessa. Ma penso che l'eterno ritorno sia allora un ritorno del problematico che è alla base della vita insomma, "dell'essere come evento" e quindi del "problema dell'essere". Esso diventa allora come indicava Nietzsche davvero il suggello dell'affermazione del fato come problema irrisolto, cioè della vita, cioè della differanza. Ritorno allora del differente, cioè di colui che ha incrinato il suo cogito unitario nella contraddizione degli io possibili, cioè delle differenti soluzioni (incompossibili fra loro se effettuate, ma compossibili nell'evento-problema). La potenza della VdP non può che essere questo, tutt'altro che il dominio metafisico segnalato da H. nella sua interpretazione in malafede, ma il differire e la differenza, il problematico irrisolto affermato, il campo delle possibilità, del "cosa può un corpo" spinoziano. L'io metafisico è troppo rigido per poter danzare nella "contro-effettuazione" (cioè vivere nella virtualità dell'evento) multipla e nomade, cercherà sempre di riaffermare la sua soluzione ed effettuazione, di stabilirsi e crescere nei cerchi concentrici hegeliani, e allora perfino il ritorno sarà un ritorno dello stesso che eternizza questo punto centrale e certificatore del cogito che sono io.


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Nachtlied
messagio Jul 1 2009, 06:12 PM
Messaggio #13


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CITAZIONE(Sgubonius @ Jul 1 2009, 04:03 PM) *
Ma penso che l'eterno ritorno sia allora un ritorno del problematico che è alla base della vita insomma, "dell'essere come evento" e quindi del "problema dell'essere". Esso diventa allora come indicava Nietzsche davvero il suggello dell'affermazione del fato come problema irrisolto, cioè della vita, cioè della differanza.
Ritorno allora del differente, cioè di colui che ha incrinato il suo cogito unitario nella contraddizione degli io possibili, cioè delle differenti soluzioni (incompossibili fra loro se effettuate, ma compossibili nell'evento-problema).

E' su questo punto che non sono mai riuscita a concordare con Deleuze: cosa significa "[ritorno] del differente"?
Perché torna solo chi è riuscito ad incrinare il suo cogito ecc...?
Anche il carattere selettivo che Deleuze vede nell'eterno ritorno ha senso se rivolto al superuomo che accetta la differenza e dunque, per dirla con Nietzsche, redime il proprio passato; ma come si fa a dire che torna solo "colui che ha incrinato il suo cogito unitario nella contraddizione degli io possibili"?
Voglio dire, leggendo Nietzsche - come avevo già precedentemente scritto in questo topic -, l'abissalità dell'eterno ritorno sembra emergere proprio dalla piattezza del ritorno; ritorno di qualsiasi dettaglio della vita. Infatti torna anche l'ultimo uomo e tornano, come unica obiezione al pensiero, anche Elisabeth Foerster Nietzsche e Franzisca Hoeler; ma tornano anche il ragno e la candela ecc...
Ora, accantoniamo per un istante il problema dell'identico - che presupporrebbe un concetto, quindi non va bene e ci costringe ad ammettere il ritorno della differenza come ripetizione senza concetto - e riflettiamo su questo: se l'e.r. sembra trarre la propria forza proprio dalla vuota ripetizione, come può essere possibile restringerlo solo al differente (potremmo dire al superuomo)? Bisogna invece che tutto torni, anche il metafisico.

Al solito, ti ho esposto i miei dubbi e chiedo chiarimenti a riguardo. wink.gif


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Joseph de Sil...
messagio Jul 1 2009, 06:54 PM
Messaggio #14


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CITAZIONE(Nachtlied @ Jul 1 2009, 05:12 PM) *
E' su questo punto che non sono mai riuscita a concordare con Deleuze: cosa significa "[ritorno] del differente"?
Perché torna solo chi è riuscito ad incrinare il suo cogito ecc...?
Anche il carattere selettivo che Deleuze vede nell'eterno ritorno ha senso se rivolto al superuomo che accetta la differenza e dunque, per dirla con Nietzsche, redime il proprio passato; ma come si fa a dire che torna solo "colui che ha incrinato il suo cogito unitario nella contraddizione degli io possibili"?
Voglio dire, leggendo Nietzsche - come avevo già precedentemente scritto in questo topic -, l'abissalità dell'eterno ritorno sembra emergere proprio dalla piattezza del ritorno; ritorno di qualsiasi dettaglio della vita. Infatti torna anche l'ultimo uomo e tornano, come unica obiezione al pensiero, anche Elisabeth Foerster Nietzsche e Franzisca Hoeler; ma tornano anche il ragno e la candela ecc...
Ora, accantoniamo per un istante il problema dell'identico - che presupporrebbe un concetto, quindi non va bene e ci costringe ad ammettere il ritorno della differenza come ripetizione senza concetto - e riflettiamo su questo: se l'e.r. sembra trarre la propria forza proprio dalla vuota ripetizione, come può essere possibile restringerlo solo al differente (potremmo dire al superuomo)? Bisogna invece che tutto torni, anche il metafisico.

Al solito, ti ho esposto i miei dubbi e chiedo chiarimenti a riguardo. wink.gif

Il problema che pone Nachtlied è legittimo, ma nasce dal presupposto che si possa interpretare l'eterno ritorno nietzscheano con le categorie di Deleuze. In realtà, come ho già avuto diverse volte modo di osservare in questo forum, quella di Deleuze è un'ipotesi che può anche essere riconosciuta come suggestiva, ma in rapporto al già problematico impianto dell'eterno ritorno nietzscheano è fuorviante. I motivi sono diversi e, prima ancora che teoretici, sono di carattere filologico. Il fraintendimento deleuziano, infatti, rimonta anzitutto al fatto che egli non aveva a disposizione i "Frammenti postumi" del 1881, ma un'edizione della WzM che, neanche a dirlo, presenta dei presunti "aforismi" di Nietzsche che in realtà sono assemblaggi da frammenti vari. Il punto è che, a partire da alcuni di essi, Deleuze trae conclusioni che vanno in una direzione che non è attestabile come nietzscheana (a meno che non vogliamo "ermeneutizzare" in libertà...). Non mi dilungo oltre e, a proposito di assemblaggi, riporto gli stralci di alcuni interventi sulla questione che ho inserito nel forum due anni fa:

CITAZIONE
Deleuze fondava la sua tesi sull’“aforisma” 334 del libro II di un’edizione della VdP degli anni Trenta, aforisma che, lungi dall’essere unico, era l’assemblaggio di due frammenti diversi e perdipiù imprecisamente tradotti.
Entrare nel dettaglio interpretativo qui non è possibile, ma se hai il suo “Nietzsche e la filosofia” (Feltrinelli) e i FP 1881-1882 di Nietzsche (vol. V tomo II dell’edizione OFN Adelphi) il riscontro filologico puoi farlo anche tu:
1) a p. 73 Deleuze scrive che secondo Nietzsche “l’universo presuppone una ‘nascita assoluta di qualità arbitrarie’; ma la nascita delle qualità presuppone di per sé una nascita (relativa) delle quantità”. La nota 25 relativa a questo passaggio, a p. 235, dice: “Ivi, p. 302 (VP, II, 334)”. Quell’ "Ivi" e il relativo n. di pagina sono del traduttore Fabio Polidori, mentre la nota effettiva di Deleuze è quella tra parentesi: in pratica, come spiegato nell’avvertenza a p. 225, per i postumi Polidori rinvia alla pagina dell’edizione italiana dei FP Colli-Montinari mentre Deleuze, che non ce li aveva, leggeva da un’edizione de “La Volonté de Puissance”, e qui cita – come vedi – dal presunto aforisma 334.
2) Adesso prendi i FP 1881-1882 di Nietzsche e trova il frammento 11 (311): “(…) nascita assoluta di qualità arbitrarie?” (prima parte della frase di Deleuze, che ha citato Nietzsche virgolettando). Ora vai al frammento 11 (313): “(…). La nascita delle qualità presuppone la nascita delle quantità” (seconda parte della frase di Deleuze, che ha ripreso Nietzsche quasi alla lettera, tranne quel “di per sé” e quel “relativa” tra parentesi). Risultato: Deleuze in nota ci indica di aver ripreso un aforisma di Nietzsche che però non esiste in quanto tale, perché in verità si tratta di due frammenti diversi. Certo, lui non lo sapeva perché i FP 1881-1882 nell’edizione critica sono usciti in Francia proprio nel 1962, stesso anno di pubblicazione del suo libro, ma il fatto resta.
Per tutto il resto: un errore di traduzione della versione francese che stravolge un termine importante e che porta Deleuze ad attribuire a Nietzsche di una visione dell’eterno ritorno non sua (il che non mi sembra poco!), la lettura nietzscheana di Vogt su questo tema etc., se riesci a procurartelo leggi il seguente saggio di Paolo D’Iorio: “Nietzsche et l’éternel retour. Genèse et interprétation” (in “Nietzsche. Cahiers de l’Herne”, Paris, l’Herne, 2000, pp. 361-389), in cui appunto l’autore (uno dei migliori eredi della scuola di Montinari) compie un’accurata disamina della questione.
Polidori ci dice che Deleuze leggeva da un’edizione della VdP pubblicata in Francia nel 1947-48 (in realtà mi risulta che l’anno sia il 1935, forse si tratta di una seconda edizione), aggiungendo che la VdP citata da Deleuze “ripropone quindi un ordine completamente diverso, oltre che una maggior quantità di testi, rispetto alla seconda e più completa edizione del famoso Der Wille zur Macht apparso nel 1906”. Da queste parole però non si capisce tutto il retroscena… Comunque per trovare gli aforismi secondo la numerazione di Deleuze si dovrebbe avere proprio l’edizione della VdP che aveva lui (eh già, Nietzsche ha scritto molte “Volontà di potenza”!); io naturalmente non ce l’ho (anche se come vedi basta avere il suo “Nietzsche e la filosofia” e i FP 1881-1882 per accorgersi della fusione dei frammenti), ma chi ce l’ha (o l’ha vista) è Paolo D’Iorio, il quale appunto nel saggio che ti ho citato mette in luce anche l’errore di traduzione tra la VdP di Deleuze e l’originale nietzscheano. Senonché Polidori sempre a p. 225 ci dice: “I rimandi ai testi di Nietzsche e le citazioni fanno riferimento alla traduzione italiana dell’edizione critica delle opere complete in corso di pubblicazione etc. etc.”. E’ evidente a questo punto che se lui non riporta le citazioni nietzscheane di Deleuze traducendole dal testo di Deleuze, ma riferendosi a Colli e Montinari, l’errore sparisce! E con l’errore (che poi non è neanche l’unico) sparisce anche il dubbio, per chi legge Deleuze in italiano, che lui (pur senza saperlo) abbia fondato una “sua” teoria dell’eterno ritorno anziché fornire un’interpretazione di quella di Nietzsche.

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Sgubonius
messagio Jul 1 2009, 09:42 PM
Messaggio #15


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Cerco di rispondere in ordine inverso ad entrambi (bentornati!).

Ricordo questa interessante distinzione Joseph già dall'altro topic, in effetti come allora non si può far altro che ammettere la sostanziale trasformazione che i concetti nietzschiani subiscono in Deleuze (come succede per tutti gli altri filosofi analizzati da lui poi alla fin fine), che non solo li interpreta ma li piega ad una sua ontologia molto particolare. D'altro canto mi pare che (qui potrai darmi tu una tua impressione) Nietzsche sia di per sè imprescindibile da un certo grado di interpretazione speculativa, dato che gli aforismi in sè sono contraddittori. Per questo c'è un Nietzsche di Heidegger e c'è un Nietzsche di Deleuze, ma non c'è un Nietzsche dell'epochè insomma.
Io credo che Deleuze (o Foucault o Derrida) ancorchè traviando una certa componente del pensiero di Nietzsche lo abbia(no) capito come nessun altro, e sia l'unico vero continuatore delle sue problematiche.

Tornando alla questione del ritorno (premesso che per l'appunto si parla di una interpretazione):
Il differente è colui che "fa la differenza", cioè colui che di fronte al ritorno dell'uguale fa prevalere ancora la differenza. Io non credo ci sia contraddizione se non "formale" fra i due concetti. Fare la differenza è anche redimere il proprio passato perchè è la contro-effettuazione dell'amor fati (e del così volli che fosse), cioè il piegare la propria coerenza, il proprio io fisso, facendo proliferare le possibilità e la potenza. Ho qui tralasciato un importante concetto, quello del tempo Aiòn, che nella logica del senso è fondamentale e che forse ora può aiutarci a capire meglio.
Nel tempo aiòn, il tempo lineare infinito degli eventi, non c'è presente che non sia un attimo puntiforme (porta carraia) sempre suddiviso in passati e futuri. L'essenza dell'eterno ritorno non è la chiusura delle combinazioni temporali in un certo numero di casi che si ripetono (dilatando un presente all'infinito, eternizzando un divenire come dice H.) ma è la riduzione di ogni presente e presenza al puro attimo puntiforme, e di ogni effettuazione ad evento, di ogni dominio metafisico a potenza virtuale. Il ritorno evidentemente non è allora una questione cronologica/fisica/effettiva, è un modus vivendi, è "un'esistenza" così come lo indica lo stesso Heidegger nel suo Nietzsche. Solo nell'affermazione della differenza, cioè dell'evento problematico e irrisolto (silenzio dell'essere e tutto quello che vogliamo buttarci dentro), si potrà essere nel tempo Aiòn dell'eterno ritorno, cioè in quel tempo che ha fatto fuori ogni "presenza/ousia".

In altri termini più banali: se io riesco a sopportare l'eterno ritorno significa che sono riuscito a scardinare il tempo (come dice Shakespeare nell'Amleto), cioè a far fiorire differenze anche nel piattume più totale. Questo può essere fatto solo nella libertà più assoluta da ogni "cardine", cioè da ogni centro attorno qui qualcosa possa ruotare. Il primo cardine è l'io che si vuole eternizzare.
Non so se ho risposto, io non vedo la contraddizione (mentre la vedo nella lettura di Heidegger che ignora del tutto svariati passi dello Zarathustra e non tocca nemmeno con le pinze i Ditirambi di Dioniso) e addirittura vedo molte connessioni con la filosfia dell'ultimo Heidegger, col pensiero poetante e via dicendo.


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Nachtlied
messagio Jul 1 2009, 10:56 PM
Messaggio #16


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CITAZIONE(Joseph de Silentio @ Jul 1 2009, 07:54 PM) *
Il problema che pone Nachtlied è legittimo, ma nasce dal presupposto che si possa interpretare l'eterno ritorno nietzscheano con le categorie di Deleuze.

E' proprio questo che non riesco a fare; cioè ad interpretare l'e.r. nietzscheano con le categorie di Deleuze.
Riconosco che Deleuze sia forse l'unico pensatore che ha capito a fondo cosa N. volesse dire, e non nego che il suo pensiero sia tra i pochi che hanno veramente centrato il problema e sono andati in fondo alla questione, ma non riesco a trovare coerenza con N. nell'interpretazione che fornisce.


CITAZIONE(Sgubonius @ Jul 1 2009, 10:42 PM) *
Tornando alla questione del ritorno (premesso che per l'appunto si parla di una interpretazione):
Il differente è colui che "fa la differenza", cioè colui che di fronte al ritorno dell'uguale fa prevalere ancora la differenza. Io non credo ci sia contraddizione se non "formale" fra i due concetti. Fare la differenza è anche redimere il proprio passato perchè è la contro-effettuazione dell'amor fati (e del così volli che fosse), cioè il piegare la propria coerenza, il proprio io fisso, facendo proliferare le possibilità e la potenza. Ho qui tralasciato un importante concetto, quello del tempo Aiòn, che nella logica del senso è fondamentale e che forse ora può aiutarci a capire meglio.
Nel tempo aiòn, il tempo lineare infinito degli eventi, non c'è presente che non sia un attimo puntiforme (porta carraia) sempre suddiviso in passati e futuri. L'essenza dell'eterno ritorno non è la chiusura delle combinazioni temporali in un certo numero di casi che si ripetono (dilatando un presente all'infinito, eternizzando un divenire come dice H.) ma è la riduzione di ogni presente e presenza al puro attimo puntiforme, e di ogni effettuazione ad evento, di ogni dominio metafisico a potenza virtuale. Il ritorno evidentemente non è allora una questione cronologica/fisica/effettiva, è un modus vivendi, è "un'esistenza" così come lo indica lo stesso Heidegger nel suo Nietzsche. Solo nell'affermazione della differenza, cioè dell'evento problematico e irrisolto (silenzio dell'essere e tutto quello che vogliamo buttarci dentro), si potrà essere nel tempo Aiòn dell'eterno ritorno, cioè in quel tempo che ha fatto fuori ogni "presenza/ousia".

In altri termini più banali: se io riesco a sopportare l'eterno ritorno significa che sono riuscito a scardinare il tempo (come dice Shakespeare nell'Amleto), cioè a far fiorire differenze anche nel piattume più totale. Questo può essere fatto solo nella libertà più assoluta da ogni "cardine", cioè da ogni centro attorno qui qualcosa possa ruotare. Il primo cardine è l'io che si vuole eternizzare.
Non so se ho risposto, io non vedo la contraddizione (mentre la vedo nella lettura di Heidegger che ignora del tutto svariati passi dello Zarathustra e non tocca nemmeno con le pinze i Ditirambi di Dioniso) e addirittura vedo molte connessioni con la filosfia dell'ultimo Heidegger, col pensiero poetante e via dicendo.

Si potrebbe allora dire che anche in Deleuze tutto torna, ma, scardinando il tempo, solo per colui che accetta la differenza (il differente, chi redime il passato, chiamiamolo come vogliamo) c'è appunto differenza, poiché è lui che la fa?

Considerando il ritorno nell'ottica del tempo Aiòn - cioè come modus vivendi - sembra chiaro in che senso ciò che torna è la differenza. Inoltre, ripeto, probabilmente questo è l'unico (o quasi) modo valido per poter pensare Nietzsche attualmente [terminologia un pò infelice per lui -mi scuso- blink.gif ]. Tuttavia continuo a vederla come un'interpretazione in sé coerente, ma che va molto oltre Nietzsche, che in FW 341 e nello Za mi sembra molto chiaro riguardo alle modalità dell'e.r., che tutti conosciamo bene.
Penso che tutta la problematica sia nata nel tentativo di difendere N dalle accuse heideggeriane; tentativo di cui oggi non abbiamo più bisogno.
Sicuramente Deleuze l'ha pensato davvero fino in fondo, ma forse è andato anche oltre - un pò come ha fatto N con tutti i filosofi, se vogliamo - e, perché no, l'ha liberato completamente dall'ultima parvenza di metafisico che ancora poteva sembrare di avere, però le sue non possono essere categorie nietzscheane propriamente dette.
Credo che sia un pò come voler pretendere che Plotino sia un vero platonico: lui crede di esserlo, ma il suo modo di ragionare è in realtà posteriore, e poggia sul tentativo di difendere il platonismo dall'aristotelismo, dimostrando che questo, senza il primo, non può avere senso; Deleuze, analogamente, propone una teoria per salvare il pensiero nietzascheano che però va ben oltre questo.


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Joseph de Sil...
messagio Jul 2 2009, 11:12 AM
Messaggio #17


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CITAZIONE(Sgubonius @ Jul 1 2009, 08:42 PM) *
Per questo c'è un Nietzsche di Heidegger e c'è un Nietzsche di Deleuze, ma non c'è un Nietzsche dell'epochè insomma.

Certo. E infatti non si tratta di fare epoché; piuttosto, il mio intervento vuole suggerire un atteggiamento di prudenza metodologica, e mi scuserete se insisto su questo. Ciò che distingue il metodo storico-filologico dall'approccio ermeneutico è il fatto che il primo si accosta ai grandi (e Deleuze è senz'altro uno di questi) nella consapevolezza che, prima di essere storici della filosofia o interpreti, essi sono filosofi, e perciò cercano (o trovano) in coloro che li hanno preceduti degli spunti per proporre una propria Weltanschauung. Due esempi soltanto:
1) In "Microfisica del potere" Foucault sostiene che "il solo segno di riconoscenza che si possa testimoniare ad un pensiero come quello di Nietzsche è proprio di usarlo, di deformarlo, di farlo stridere, gridare. Che poi i commentatori dicano se si è fedeli o no, non ha nessun interesse" (op. cit., tr. it. Einaudi 1982, p. 135).
2) Nella bibliografia del suo "Nietzsche. Filosofo, psicologo, anticristo" Walter Kaufmann scrive, a proposito del "Nietzsche" di Heidegger: "Uno dei maggiori tentativi - certamente quello di maggior peso - del tardo Heidegger: importante per coloro che vogliono comprendere Heidegger" (op. cit., tr. it. Sansoni 1974, p. 508).
Che vogliono comprendere Heidegger, appunto. O Foucault, Deleuze, Derrida etc.: non, in primis, Nietzsche. Ripeto pertanto ciò che vado sostenendo da tempo: ben venga Heidegger, ben vengano i francesi, ma attenzione a non ridurre Nietzsche esclusivamente alla sua Wirkungsgeschichte. Per tentare di non sovrapporre del tutto l'interprete all'autore - sempre ovviamente nella consapevolezza che non esiste un sapere in-contaminato e in-condizionato - le interpretazioni dei grandi sono necessarie, ma non sufficienti: bisogna anche contestualizzare storicamente l'autore e appoggiarsi ai documenti, cioè ricostruire la lenta formazione delle sue idee attraverso il testo e l'extratesto. Allora, se per tentare di comprendere Heidegger bisogna seguire anche gli spunti fornitigli dalle sue letture, dunque anche da quella di Nietzsche, non vedo perché per Nietzsche non si debba fare altrettanto. Capisco che questa è un'attività da topo di biblioteca, forse meno affascinante delle alte speculazioni: ma è purtuttavia essenziale. Va bene attraversare e riattraversare Heidegger, Deleuze, Foucault etc. etc.; ma sarebbe altrettanto auspicabile studiare almeno qualcuno dei lavori filologici sul pensiero nietzscheano cui reiteratamente, e forse pedantemente, ho fatto riferimento nel corso dei miei interventi: quelli di Wolfgang Müller-Lauter, Giuliano Campioni, Paolo D'Iorio, Keith Ansell-Pearson, Yannick Souladié, Gregory Moore, Andrea Orsucci, Patrick Wotling, Maria Cristina Fornari, Thomas Brobjer e via dicendo. In tal modo per esempio, e con ciò torno al tema, si discuterebbe anche del dibattito fisico-cosmologico che tanto ha occupato gli interessi di Nietzsche e lo ha influenzato in rapporto alla sua elaborazione dell'eterno ritorno; discussione che invece continuo a non vedere. Perché? Forse perché questo è ritenuto un aspetto secondario. Ma da chi? Da Heidegger, Deleuze, Foucault: e così si gira, e si resta, sempre intorno agli stessi...
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Sgubonius
messagio Jul 2 2009, 01:50 PM
Messaggio #18


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Si si capisco molto bene cosa intendi, certamente per avere un ottica davvero completa è necessario in primis moltiplicare i punti di vista per tentare di trovare cosa possa trascendere l'interpretazione (o semplicemente formarne una più completa) e insieme sarebbe ideale anche approcciarsi sia filologicamente che speculativamente.
Purtroppo per questo bisogna essere professionisti e avere a disposizione molti testi! Ti posso assicurare che ho tentato di cercare il libro di D'Iorio che sembra molto interessante, anche in francese, e non è affatto facile da reperire! Certamente qui si parla più che altro di Deleuze ed Heidegger, e solo in riferimento a questi si può riferirsi all'ispirazione nietzschiana.
Quello che mi ha sempre incuriosito peraltro nell'ambito dell'ermeneutica di Nietzsche è quella sostanziale contraddizione (ad esempio lo Jaspers ne parla diffusamente con molti esempi in un suo saggio) che sembra convivere nei suoi scritti e che in qualche modo alimenta di continuo e mantiene vivo il suo pensiero (Deleuze parla di paradossi e contraddizioni come pathos della filosofia). Per esempio l'eterno ritorno -dell'uguale- si trova in una certa incompossibilità con il disprezzo per l'opera (in tutti i sensi, quello che Derrida chiama scrittura) come forma fissa. Io credo che sopravviva fino nel tardo Nietzsche per farla breve l'idea che qualcosa di apollineo debba coniugarsi col dionisiaco, eppure progressivamente questo apollineo scompare. Qui si creano dei dubbi che col riferimento dei soli testi nietzschiani non possono essere sciolti ed è perciò inafferrabile il "vero" Nietzsche (intendevo questo con epochè non tanto una velleità ermeneutica ideale) perchè lui stesso ha più facce. La speculazione entra in gioco qui, inevitabilmente staccandosi dal pensato storico per muoversi verso l'avvenire dei problemi sollevati.

Tornando alla questione Heidegger io non penso che sia oggi caduta la "necessità" di considerare le critiche di Heidegger. Il problema da speculativo ricade poi in tutti i campi (dell'etica e dell'estetica principalmente). Riprendo qui la contraddizione che ho segnalato nel paragrafo precedente: da una parte "la volontà di potenza come arte", cioè ancora uno sforzo eternizzante del soggetto che ha perso la verità e santifica il falso facendone una nuova certezza (di fatto H. legge così Nietzsche e non senza ragioni), dall'altra la dissoluzione del soggetto (autore dell'opera) quale si legge nello Zarathustra e in tutti gli ultimi scritti (per esempio il concetto dell'es denkt che ha una portata colossale e che Heidegger ignora del tutto).
Deleuze complica enormemente le cose perchè poi lui ha una sua idea della filosofia molto "pratica", da fabbro quasi, e crea un proliferare di concetti e di giurisprudenza filosofica interminabile, per cui si può anche lasciarlo da parte nelle sue peculiarità, mantenendo solo l'istanza problematica che ha presentato contro la riduzione heideggeriana di N. ad un metafisco.
Il problema ritorna alla fine alle solite questioni di questi topic: immanenza/trascendenza, soggetto?, apollineo ed opera d'arte?, il problema dell'essere ecc... queste mi pare siano questioni aperte in Nietzsche e che anche abbandonando la terminologia deleuziana si possono portare avanti "contro" Heidegger. Soprattutto considerando l'ultimo Nietzsche, quello che tende ai Ditirambi di Dioniso. Heidegger ha commesso un solo grande crimine: deproblematizzare Nietzsche.


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Nachtlied
messagio Jul 2 2009, 03:42 PM
Messaggio #19


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CITAZIONE(Joseph de Silentio @ Jul 2 2009, 12:12 PM) *
Va bene attraversare e riattraversare Heidegger, Deleuze, Foucault etc. etc.; ma sarebbe altrettanto auspicabile studiare almeno qualcuno dei lavori filologici sul pensiero nietzscheano cui reiteratamente, e forse pedantemente, ho fatto riferimento nel corso dei miei interventi: quelli di Wolfgang Müller-Lauter, Giuliano Campioni, Paolo D'Iorio, Keith Ansell-Pearson, Yannick Souladié, Gregory Moore, Andrea Orsucci, Patrick Wotling, Maria Cristina Fornari, Thomas Brobjer e via dicendo. In tal modo per esempio, e con ciò torno al tema, si discuterebbe anche del dibattito fisico-cosmologico che tanto ha occupato gli interessi di Nietzsche e lo ha influenzato in rapporto alla sua elaborazione dell'eterno ritorno; discussione che invece continuo a non vedere. Perché? Forse perché questo è ritenuto un aspetto secondario. Ma da chi? Da Heidegger, Deleuze, Foucault: e così si gira, e si resta, sempre intorno agli stessi...

Su questo concordo in pieno. E se posso colgo l'occasione per fare pubblicità all'ultimo libro di Campioni Nietzsche. La morale dell'eroe, che è stato presentato un mese fa (visto che era un pò che non mi connettevo, mi faccio perdonare per non aver avvertito prima... wink.gif ).
Per quanto riguarda gli interessi di fisica-cosmologia di N se ne era un pò parlato (o almeno c'avevamo provato, poi è morto lì) nel topic "Nietzsche NON pensiero" e non sarebbe male riprendere.
Comunque è vero che è un tema poco trattato e in parte considerato marginale. Compito allora del ramo 'filologico' di studiosi dovrebbe essere quello di rivalutare anche questo aspetto e pubblicizzarlo un pò.
CITAZIONE(Sgubonius @ Jul 2 2009, 02:50 PM) *
Tornando alla questione Heidegger io non penso che sia oggi caduta la "necessità" di considerare le critiche di Heidegger. Il problema da speculativo ricade poi in tutti i campi (dell'etica e dell'estetica principalmente). Riprendo qui la contraddizione che ho segnalato nel paragrafo precedente: da una parte "la volontà di potenza come arte", cioè ancora uno sforzo eternizzante del soggetto che ha perso la verità e santifica il falso facendone una nuova certezza (di fatto H. legge così Nietzsche e non senza ragioni), dall'altra la dissoluzione del soggetto (autore dell'opera) quale si legge nello Zarathustra e in tutti gli ultimi scritti (per esempio il concetto dell'es denkt che ha una portata colossale e che Heidegger ignora del tutto).
Deleuze complica enormemente le cose perchè poi lui ha una sua idea della filosofia molto "pratica", da fabbro quasi, e crea un proliferare di concetti e di giurisprudenza filosofica interminabile, per cui si può anche lasciarlo da parte nelle sue peculiarità, mantenendo solo l'istanza problematica che ha presentato contro la riduzione heideggeriana di N. ad un metafisco.
Il problema ritorna alla fine alle solite questioni di questi topic: immanenza/trascendenza, soggetto?, apollineo ed opera d'arte?, il problema dell'essere ecc... queste mi pare siano questioni aperte in Nietzsche e che anche abbandonando la terminologia deleuziana si possono portare avanti "contro" Heidegger. Soprattutto considerando l'ultimo Nietzsche, quello che tende ai Ditirambi di Dioniso. Heidegger ha commesso un solo grande crimine: deproblematizzare Nietzsche.

La necessità non c'è più nel senso che grazie a Colli e Montinari abbiamo un quadro più completo del pensiero di N, o per lo meno possiamo costruirlo; sappiamo bene che l'interpretazione di Heidegger è viziata in primis perché si appoggia quasi esclusivamente alla WzM.
Certo, Heidegger non era certo uno stupido ed è ovvio che le sue critiche non possono essere per questo ignorate, solo non ci vedo più un'emergenza come poteva esserci negli anni '60.
Per quanto riguarda la problematica della dissoluzione del soggetto, hai fatto benissimo ad indicare i Ditirambi, che sono senz'altro l'opera dove maggiormente si manifesta, soprattutto laddove Nietzsche, Zarathustra e Dioniso sono fusi insieme, così come il "tu", l'"io" e l'"egli".

Tornando ad Heidegger, a me sembra che, malgrado le critiche, la sua posizione resti sempre un pò nietzscheana (ad esempio nella contesa di terra e mondo ho sempre visto echi di apollineo e dionisiaco) e che il suo sia un tentativo disperato di uscire dalla "metafisica" di N.
E qui i nodi vengono al pettine: perché non ci riesce? - questo sempre secondo me - Perché quella di N non è una metafisica.
Heidegger resta intrappolato nella convinzione che la creazione dionisiaca, la "metafisica dell'artista", sia obbligatoriamente rivolta ad un soggetto, ma non è detto che sia così: essa è infatti propria del superuomo, cioè di colui che ha accettato la necessità del divenire e si è identificato in questo, ovvero colui che ha demolito il proprio soggetto, per identificarsi nell'Amor fati. Come fa allora l'arte del superuomo ad essere considerata dal punto di vista del soggetto? Non può; essa può semmai apparirci dal punto di vista della totalità, della VdP, che è ormai un tutt'uno con l'artista e l'opera (uso questi termini per riferirci meglio ad Heidegger).
Nietzsche con gli ultimi scritti aveva già superato la metafisica, solo che Heidegger (forse a causa della lettura disordinata dei frammenti fatti passare come WzM che è stato costretto a fare) ha voluto pretendere che così non fosse, ma in questo modo ha 'sporcato' il pensiero nietzscheano con la sua interpretazione.
Ripeto, così è come la vedo io...
Ma potrei forse trovare conferma nel fatto che H abbia cercato per forza un principio nel pensiero di N e, una volta trovato, abbia dovuto cercare di eliminare le contraddizioni che questo ha portato con il resto della filosofia di Nietzsche.
Voglio dire, è stato lui a vedere in N un sistema, e pertanto è stato sempre lui a portare in luce le contraddizioni che un tale sistema porta; ma le contraddizioni non sarebbero tali nell'ottica di un pensiero che non vuole essere un sistema.
Direi piuttosto che, prima di "deproblematizzare Nietzsche", Heidegger lo ha "sistematizzato" e "problematizzato", per poi banalizzarlo all'interno di un sistema e infine semplificarlo.

Non sono in grado di stendere un parallelo preciso tra Essere, Esserci e VdP - anzi, sarebbe molto interessante se qualcuno lo facesse obiettivamente - ma mi sembra che inquadrare la VdP nell'Esserci non sia poi così scontato come sostiene Heidegger, cioè, non vedo sostanziale differenza tra VdP ed Essere, se non nel fatto che è H, dal suo proprio punto di vista, a dirlo, perché così vuole che sia. Rinnovo l'invito a chi ne ha le competenze adatte ad approfondire questo punto...


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Sgubonius
messagio Jul 2 2009, 07:28 PM
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In effetti io stesso avevo aperto il topic con l'intento di trovare i punti comuni fra i due (aggiungendo deleuze come ponte soltanto).
Si potrebbe dire di più ma ci vorrebbe davvero più studio e approfondimento.

Il rischio comunque di una lettura "metafisica" di Nietzsche non è così fantomatico. L'esperienza del forum per esempio è molto indicativa. I problemi come ho già detto sono quelli: soggetto ed opera d'arte, etica ed estetica. Recentemente era capitato di discutere riguardo alla poesia e al "dei poeti" per esempio.


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