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c71 Inviato il: May 4 2008, 07:48 PM


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Stirner, io prima di rispondere a te e agli altri, vorrei sapere per te in nome di cosa si deve costuire una società? Qual è lo scopo di una società?
  Forum: Nietzsche Pensiero · Anteprima Messaggio: #5347 · Risposte: 140 · Visite: 399,467

c71 Inviato il: May 4 2008, 07:10 PM


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Stirner, io prima di rispondere a te e agli altri, vorrei sapere per te in nome di cosa si deve costuire una società? Qual è lo scopo di una società?
  Forum: Nietzsche Pensiero · Anteprima Messaggio: #5345 · Risposte: 140 · Visite: 399,467

c71 Inviato il: May 2 2008, 07:49 PM


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Quelli delle civiltà antiche e della “natura dell’uomo” sono terreni molto instabili, persino evanescenti, e proprio quando siamo convinti di aver trovato un saldo appoggio, vediamo la terra franare sotto i nostri piedi e aprirsi un vuoto abisso. Sono perciò doverosi alcuni approfondimenti e alcune rettifiche, allo scopo di non ridurre la discussione a un vaniloquio. La carne che è stata messa al fuoco è tantissima, e, come se non bastasse, è la più difficile da digerire. Vorrei scrivere molte cose, ma cercherò di sintetizzare il più possibile e il più chiaramente possibile.
Anzitutto, non è detto che la democrazia sia il risultato della ribellione degli schiavi nei confronti dei padroni. Per esempio, secondo Gobineau la degenerazione del sistema castale indiano sarebbe da ascriversi a delle contraddizioni interne al sistema, createsi dai rapporti di forza intercorrenti fra le due caste superiori, e non alla malvagia volontà della casta inferiore. Le “Leggi di Manu”, in cui vengono introdotti i ciandala, rappresenterebbero allora un disegno di organizzazione castale volto a difendere la conquista aria dell’India (questo Nietzsche non lo sapeva, perché lesse l’edizione di William Jones, la quale presentava le “Leggi” come molto più antiche di quello che erano in realtà). Quello dei ciandala era quindi un tentativo di rimediare alla decadenza del sistema e alla minaccia di corrompere la purezza razziale degli Arii. Ma fu un rimedio, nonché tardivo, ingenuo, giacché la mescolanza razziale è inevitabile. E giacché altrettanto inevitabile è l’impulso dell’uomo alla libertà e all’affermazione della propria dignità. E’ qui, infatti, il nodo del problema, è qui che cadono ingenuamente tutte le società che pretendono di instaurare gerarchie tra gli individui. Società fortemente irreggimentate, tradizionali e conformiste, per sopravvivere hanno bisogno di soffocare la libertà individuale. La quale, inesorabilmente, finisce per riprendersi il posto che le spetta, con le buone o con le cattive. La democrazia si dimostra qui una forma di governo superiore, proprio perché riconosce in ogni uomo, per il fatto stesso di essere uomo, quella dignità e quel diritto alla libertà per esso tanto preziosi. Non è più un governo centrato sulle capacità fisiche, intellettuali o spirituali, oppure sulle ricchezze o sulla razza o classe di appartenenza degli individui; ma sull’essere vero e proprio, considerato come il nucleo più profondo, più originario, più universale, cioè l’essere uomo.
L’errore fondamentale di Nietzsche è stato quello di non portare la “morte di Dio” fino alle estreme conseguenze. Perché la “morte di Dio” conduce paradossalmente alla più pura democrazia, sola forma di governo che non esige punti di riferimento trascendenti, o comunque esterni all’uomo, per sussistere. Per la democrazia è infatti l’uomo stesso il punto di riferimento essenziale, non le sue qualità fisiche o spirituali, non le sue ricchezze o le sue ascendenze, e tanto meno un essere trascendente, perché questi sono meri accidenti. La sostanza è sempre e solo l’uomo. Passando da un’epoca all’altra, da una cultura all’altra, da un costume all’altro, cambiano le qualità che si tengono in onore: in talune civiltà è fondamentale la ricchezza, in talaltre la razza, in altre ancora la forza fisica e il coraggio, in altre la sapienza, e così via, a dimostrazione che si tratta di accidenti che si aggiungono alla sostanza. Ma non vi è civiltà umana in cui non vi sia l’uomo. La democrazia è l’unica forma di governo che considera l’uomo per quello che è, un uomo, e non per qualsivoglia suo accidente.
Non dimentichiamoci, inoltre, che Nietzsche ha vissuto nel XIX secolo e che era impregnato di romanticismo. L’ideologia del sistema gerarchico trifunzionale, che organizza la società in base alle tre funzioni di sovranità religiosa, forza guerriera e forza produttiva, poggia sulla convinzione che sia esistita una protopopolazione nomade e ferocemente aggressiva, gli Indoeuropei, da cui proverrebbero la maggior parte dei popoli eurasiatici. La scoperta di questi fantomatici Indoeuropei – che altri non sono che i mitici Arii – deve tutto a una serie di studi di linguistica comparativa. E, sebbene non si siano mai trovati documenti archeologici che attestino la verità di questa ipotesi, tutti l’hanno fatta propria come fosse Verbo, e su di essa c’è chi ha tentato di erigere imperi. Quello del nazismo è il tentativo più noto, che sin dal 1933 si costituì all’interno di tre funzioni ricalcate su quelle attribuite all’ipotetico popolo Indoeuropeo (o Ario): la Partei, cioè la sovranità magico-giuridica; la Reichswehr, la funzione guerriera; e l’Arbeitsfront, l’organizzazione del lavoro. Tutto questo facendo appello, non solo, ribadisco, ad una ipotesi con pochissimi fondamenti, ma anche, guarda caso, all’Eterno Ritorno, non quello nietzschiano, ma proprio quello che, secondo taluni studiosi e secondo i nazisti, sarebbe stata un’ideologia propria degli Arii. Senonché, qualche tempo fa, un solitario filologo fiorentino, Giovanni Semerano, sconvolge l’establishment con una teoria rivoluzionaria: le lingue, le culture, le civiltà dell’Europa mediterranea avrebbero una matrice semitica! Ma ve l’immaginate, voi, la faccia di Hitler a una notizia del genere? La teoria di Semerano, benché sia molto difficile da digerire da parte degli ortodossi, specie in Italia, vanta, tra i suoi sostenitori, intellettuali del calibro di Cacciari, Severino, Galimberti, Pontiggia, Cardini, e in Inghilterra ha ricevuto amplissimi consensi. Dice Semerano: “Storicamente fu il giudice inglese William Jones a fornire nel XVII secolo un apporto decisivo [alla teoria del ceppo linguistico e culturale indoeuropeo], immaginando di aver scoperto una lingua affine alle lingue europee. [Ma l’indoeuropeo è] una lingua interamente ricostruita, […] una lingua ipotetica, non fondata su alcun documento reale. […] Nella formazione dell' indoeuropeo ha giocato un ruolo dominante l'ideologia eurocentrica. Se proviamo a gettare uno sguardo nell'antichità dei millenni, non ci imbattiamo in lingue indoeuropee. Quello che ci è dato incontrare semmai sono le lingue sumera, accadica, babilonese, assira. Lingue da cui è dipesa la nascita della nostra cultura occidentale. […] L'Occidente deve tutto alle grandi civiltà del Vicino Oriente. E soprattutto, lo ripeto, alle civiltà sumera, accadica e babilonese. Di esempi se ne possono fare tanti. Matematica, geometria, astronomia, medicina, diritto e musica – i cui influssi sono giunti inequivocabilmente fino a noi – fiorirono nella fertile Mezzaluna. E qui nacquero anche le prime biblioteche, alcune istituzioni che meglio qualificano la civiltà di un popolo. C' è un vincolo che risale a cinquemila anni fa tra l'Europa e l'antica Mesopotamia.” (Intervista di A. Gnoli a Semerano, “Repubblica”, 28.04.2005).
Insomma, pare proprio che questa idea di una realtà gerarchicamente tripartita sia da considerarsi tutt’altro che naturale. A dimostrarlo, oggi, ci si mettono anche gli studi antropologici ed etnologici. Tanto per cominciare, l’impulso all’aggressività e alla lotta, in cui eccellevano più d’ogni altro proprio le bionde bestie arie, è messo seriamente in discussione. Ci sono alcuni antropologi, come Colin Turnbull, i quali ritengono che l’uomo primitivo provasse sensi di colpa e compassione nell’uccidere gli animali (figuriamoci l’uomo); e fa anche notare come, tra i dipinti rupestri che illustrano le imprese dei cacciatori, non vi siano mai raffigurate lotte tra uomini, a testimoniare l’assenza, o comunque la carenza, di aggressività intraspecifica. La lotta, per alcuni studiosi, potrebbe non essere originaria, nell’uomo. Fromm, in “Anatomia della distruttività umana”, pensa che il primo strumento di autoconservazione sia l’istinto di fuga; e scrive: “Un’analisi storica potrebbe dimostrare che la repressione dell’impulso di fuga e l’apparente trionfo dell’impulso di lotta dipendano in larga misura da fattori culturali piuttosto che biologici”. In secondo luogo, l’uomo preistorico non conosceva gli schiavi né le gerarchie. C’erano, sì, i leader, i capi-tribù, ma la loro autorità era basata, non già sulla forza, l’intelligenza, l’abilità, ecc., bensì su qualità, per così dire, affettive: equanimità, abnegazione, generosità, ecc. L’antropologo Service scrive a proposito che “[…] nelle società primitive umane la forza deve essere posta al servizio della comunità e, per guadagnare il prestigio, l’individuo deve letteralmente sacrificarsi, lavorando più duramente e ricevendo in cambio meno nutrimento”. Era una necessità, perché le società primitive, a causa delle primitive tecnologie di cui disponevano, dipendevano maggiormente dalla collaborazione di tutti i membri, e il leader era tenuto ad incarnare il modello di questo spirito di collaborazione e sacrificio. Le qualità fisiche e intellettuali del leader erano comunque necessarie, giacché esse dovevano fungere da mezzo per ottenere quello scopo prioritario, e ovviamente il leader era tenuto a dimostrare anche queste. La consuetudine, solidificatasi, con il passare dei secoli e dei millenni, sotto le forme del sistema sociale, ha fatto sì che non si distinguesse più tra l’essere e l’avere, tra le reali qualità e i simboli che le richiamano: “[…] nella storia umana, quando la dominanza viene istituzionalizzata e scissa dal principio della competenza personale – che sopravvive invece in molte società primitive – il leader non ha più bisogno di esibire costantemente le sue qualità eccezionali, anzi non ha nemmeno più bisogno di possederle. Il sistema sociale condiziona la gente a vedere nel titolo, nell’uniforme, o in qualsiasi altra cosa, la prova che il leader è competente, e finché esistono questi simboli, confermati dall’intero sistema, l’uomo medio non osa nemmeno domandarsi se l’imperatore è tale soltanto per la corona che porta in testa” (Fromm). E’ difficile, per altro, capire se gli schiavi dovevano essere tali perché si riconosceva in loro un’inferiorità di razza o di spirito (come in India), oppure per altre ragioni. Ad esempio, la Arendt riteneva che la schiavitù fosse nata per il disprezzo nei confronti del lavoro, cioè non tanto “come espediente per avere lavoro a buon mercato o uno strumento di sfruttamento a scopo di profitto, ma piuttosto il tentativo di escludere il lavoro dalla condizione della vita umana”. Questo sentimento di disprezzo del lavoro si formò nel momento in cui l’uomo conobbe il lusso; e l’uomo conobbe il lusso nel periodo di transizione dall’economia del dono a quella di mercato, quel periodo in cui l’economia è centralizzata e basata sul comando, ossia il periodo degli imperi della Mesopotamia e dell’Egitto. Come contro esempio si possono considerare ancora una volta le società primitive. Certe tribù che abitavano le coste nordoccidentali dell’America del Nord, studiate da Marcel Mauss, praticavano il “potlach”, una forma di scambio commerciale verticale detta “economia del dono”. In questa pratica, le autorità tribali distribuivano le eccedenze delle risorse ai sudditi. Ma nel praticare questa distribuzione, le autorità si affannavano a prodigarsi col massimo dell’amore possibile nei confronti dei loro sudditi, persino scusandosi della modestia dei doni, suscitando così, da parte dei sudditi stessi, la più grande fedeltà e solidarietà. Lo scopo, è ovvio, era quello di generare una solida coesione sociale. E il lusso era del tutto estraneo a quegli uomini. Secondo Mauss, l’economia del dono si fondava sulla “reciprocità”, che consisteva in tre fasi, tutte necessarie: donare, ricevere, rendere. Oltre ad assicurare così una circolazione continua dei beni all’interno della comunità, l’effetto ottenuto era quello di generare una solida coesione sociale. Insomma, niente a che vedere con le società gerarchiche e schiavistiche.

In conclusione, voler organizzare la realtà sulla base di una pretesa “natura umana” è del tutto sbagliato. Già Hume avvertiva che “ogni ipotesi che pretende di rivelare le qualità originarie ultime della natura umana deve fin dal principio essere respinta come presuntuosa e chimerica”. E poi è piuttosto dubbio che la natura imponga un’organizzazione gerarchica delle società umane. La impone alle altre specie vivente, questo è palese, ma l’uomo, ribadisco, è più che un insieme di istinti, come lo sono, in fondo, l’aquila e l’agnello. Anzi, se si vuole proprio tirar fuori qualche qualità originaria dell’uomo, non ve n’è una più certa dell’anelito alla libertà. Forse è proprio la ribellione degli schiavi ad essere un fatto di natura, e l’ingenuità di ogni società che voglia istaurare una gerarchia è la convinzione di poter soggiogare eternamente gli individui che considera inferiori. Quegli individui, è sicuro, insorgeranno e ribalteranno l’ordine costituito, diventando loro i padroni e schiavizzando coloro che li schiavizzavano. Allora i padroni diventano schiavi e gli schiavi diventano padroni. Forse gli schiavi di un dato periodo non erano che i padroni di un periodo precedente. Questa sì che è una contraddizione. La democrazia, invece, va oltre. Forma di governo più matura, la democrazia elimina schiavi e padroni, eliminando perciò la contraddizione, il circulus vitiosus, e parificandoli in nome del fine a cui tutti gli uomini (forse) tendono: la libertà.
  Forum: Nietzsche Pensiero · Anteprima Messaggio: #5323 · Risposte: 140 · Visite: 399,467

c71 Inviato il: Apr 28 2008, 03:03 PM


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La democrazia non propone l'uguaglianza degli uomini sotto ogni aspetto e in senso originario, come un fatto di natura, ma esclusivamente sul piano dei diritti e dei doveri. Ovvero, tutti gli uomini, a prescindere dalla razza, dal censo, dalla superiorità fisica o intellettuale, ecc., devono avere uguali diritti e doveri. Talvolta diritti e doveri, in nome di una pacifica convivenza, si escludono a vicenda, ma dev'essere così per tutti. Per cui: la natura fa nascere un uomo storpio e uno sano? Uno brutto e uno bello? Uno stupido e uno intelligente? L'ideale della democrazia (ideale puramente umano) si pone lo scopo di parificarli sulla base della loro dignità di esseri umani, qualità che è uguale per tutti dalla nascita. Il comportamento del singolo individuo, poi, costringerà il corpo sociale a ridefinire volta per volta i diritti e doveri di quell'individuo.
Ardisco criticare Nietzsche di aver mal compreso il senso genuino della democrazia. E di avere, fra l'altro, creato una contraddizione fondamentale all'interno del suo pensiero, quando, nella GdM, presenta l'ordine gerarchico degli individui come legge naturale e universale a cui l'uomo dovrebbe piegarsi. Porta quindi l'esempio dell'aquila e dell'agnello, dimenticando che l'uomo è più che un animale, più che un insieme di istinti naturali. Ma dimenticando, soprattutto, quel legittimo rimprovero che egli stesso fa, nel secondo aforisma di UTU1, ai filosofi che considerano l'uomo come una "aeterna veritas, come un'entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose". Tuttavia, "l'uomo è divenuto" e "anche la facoltà di conoscere è divenuta".
Il superuomo come razza biologicamente potenziata, è un'interpretazione che ha fatto il suo tempo, e su questo si è tutti d'accordo. La traduzione è effettivamente ingannevole, specie nella nostra cultura, e credo sia meglio appoggiare la traduzione di Vattimo: oltreuomo. Cosa significa, allora, che l'oltreuomo rappresenta il superamento, l'oltrepassamento dell'uomo? Se si intende l'uomo in senso sovrastorico, ci si può immaginare una nuova razza, più forte, più intelligente, più capace. Ma se l'uomo in questione è storicamente divenuto, allora si sta parlando semplicemente di superare l'uomo della tradizione cristiana, il quale ha trasvalutato i precedenti valori fondandoli su presupposti trascendenti; valori che oggi, nell'èra che segue alla "morte di Dio" (cioè della tradizione cristiana e dei suoi valori), evento padre e figlio insieme del nichilismo (che è svilimento dei valori in riferimento alla tradizione, non dei valori in sé e per sé - e questo è detto chiaramente nel frammento di Lenzerheide), non portano più linfa alla pianta uomo. L'oltreuomo sarà l'uomo frutto della trasvalutazione dei valori tradizionali cristiani, cioè del nuovo rivoluzionario evento generato dal nichilismo. Il nichilismo è un movimento di transizione[1], durante il quale l'uomo "si ripiega su se stesso nel modo più profondo" (Fr. Posth. 11 [119]) e matura dentro di sé l'oltrepassamento di sé medesimo nel presente, che altri non è se non l'uomo della tradizione cristiana. L'oltreuomo, l'uomo nuovo, edificherà una nuova civiltà, nuova politica, nuove istituzioni sul terreno di novelli valori, di una nuova mentalità, di una visione del mondo nuova, e chiuderà i conti, una volta per tutte, con la tradizione.
Il limite di Nietzsche credo sia stato quello di non essere riuscito a svincolarsi del tutto dal passato. La concezione dell'eterno ritorno non è che un ardito tentativo di richiamare il passato precristiano a sé, almeno nelle sue forme essenziali, un ultimo disperato sforzo - dopo la NdT - per ritornare all'origine dell'uomo storico. La manovra di Nietzsche è agevolata dalla stessa visione del mondo delle civiltà precristiane, che ha come uno dei suoi elementi fondanti proprio la ciclicità del movimento cosmico. Tuttavia, se fosse riuscito ad abbandonare l'impresa di restaurare la tradizione precristiana, gli si sarebbe forse affacciata più lucidamente la visione di una democrazia globale come forma superiore di governo, unica forma veramente degna dell'oltreuomo, perché la sola a recidere ogni contatto con la tradizione, persino con quella precristiana (con l'eccezione della parentesi greca, comunque molto breve e comunque molto diversa). Una forma di governo ben lontana dall'attuale. Infatti, come diceva Maritain, "il problema delle democrazie moderne è che non sono riuscite a realizzare la democrazia".

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[1] "I supremi valori, per servire i quali l’uomo dovrebbe vivere, in particolare quando dominassero su di lui in maniera molto gravosa e dispendiosa: questi valori sociali sono stati edificati, al fine di rafforzarne il tono, sopra l’uomo, quasi fossero comandamenti di Dio, come “realtà”, come “mondo vero”, come speranza e mondo futuro. Ora che si fa chiara la meschina derivazione di tali valori, l’universo ci appare perciò divenuto privo di valore, “privo di senso”. Ma questo è solo uno stato intermedio." (Fr. Posth. 11[100])
  Forum: Nietzsche Pensiero · Anteprima Messaggio: #5245 · Risposte: 140 · Visite: 399,467

c71 Inviato il: Apr 22 2008, 08:33 PM


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Nell'esortazione di Nietzsche alla fedeltà alla terra, è altrettanto fondamentale l'immanenza della terra, di contro alla trascendenza del Regno di Dio (o delle Idee platoniche). Restare fedeli al senso della terra significa allora anche tradire il senso del "mondo dietro il mondo", rompere il suggello dell'alleanza con Dio.
  Forum: Nietzsche Pensiero · Anteprima Messaggio: #5219 · Risposte: 5 · Visite: 13,321

c71 Inviato il: Apr 22 2008, 08:17 PM


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L'affermazione voleva essere metaforica. In concreto volevo riferirmi alla necessità, per l'uomo, di creare nuovi valori autonomamente (non ciascun uomo individualmente, anarchicamente), ossia senza presupporre realtà trascendenti, inesperibili per la maggior parte dell'umanità se non per tutti, o anche immanenti ma troppo remote. Sostanzialmente ciò che hanno detto Nietzsche e in parte Kant, ma che sia l'uno sia l'altro non hanno spinto fino in fondo: il primo fondando questa idea su un presunto eterno ritorno dell'uguale, che finisce per risultare più metafisico e inattingibile del Dio cristiano (soprattutto a questo punto della storia); e il secondo ammettendo i postulati dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio come "dei ex machina" per legittimare la moralità. Per cui, il mio richiamo al concetto di dio voleva fare riferimento all'esigenza, per l'uomo, di ricreare se stesso, mercé la creazione di nuovi valori su cui impiantare una nuova civiltà.
Specificato ciò, non è giocoforza che un dio debba anche dominare incontrastato su tutto il resto. Se gli dèi non esistono, allora le qualità che storicamente sono state loro attribuite sono frutto d'arbitrio. Dunque potremmo considerare un dio come dominatore incontrastato oppure semplicemente come reggitore dell'equilibrio del cosmo. Con la mia metafora dell'uomo che deve diventare il dio di se stesso, intendevo quindi anche che l'uomo deve anelare costantemente alla creazione e alla reggenza di un ordine e di un equilibrio delle parti fra loro e delle parti col tutto (in termini più chiari, degli uomini fra loro e degli uomini con il pianeta, o, meglio ancora, con l'universo in cui vive).
Inoltre, io parlavo di "uomo" e non di "uomini". Non intendevo dire, quindi, che ogni uomo deve diventare il dio di se stesso, bensì che l'uomo come ente deve diventarlo. In concreto, il significato del termine "uomo", in quell'affermazione, è quello di umanità nel suo insieme, quasi come individuo a sé stante. E già i greci sapevano perfettamente che un organismo è in salute allorché tutte le sue parti sono in equilibrio.
Ma, poi, per tutto il resto, che mi dite?
  Forum: Filosofi e Filosofie · Anteprima Messaggio: #5218 · Risposte: 16 · Visite: 95,344

c71 Inviato il: Apr 20 2008, 01:49 PM


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Raggiungiamo sempre nuovi traguardi, passiamo di conquista in conquista, nel campo delle scienze, della tecnologia, della salute, del benessere, dell'economia, eppure permane, e anzi aumenta, un profondo senso di infelicità, di paura e di disorientamento. Forse perché non abbiamo fatto alcuna conquista nell'ambito della coscienza (dello "spirito"). Questo territorio l'abbiamo abbandonato e dimenticato, giacché non produce profitto materiale, non incrementa il PIL, non aiuta la causa del capitalismo. La colpa non è ovviamente da attribuire alla scienza, alla tecnologia, al benessere o al mercato, ma, se una colpa c'è, è l'uomo ad averla. Il modo in cui facciamo uso di queste grandi risorse è deleterio.
Avete mai pensato (a grandi linee naturalmente) a una soluzione? Come potremmo uscire da questo baratro? Non aveva forse ragione Nietzsche? Trasvalutazione di tutti i valori e oltreuomo. Valori decrepiti su cui la civiltà oggi non può più reggersi. Al di là della questione se siano valori buoni o cattivi in se stessi, sono radici che non ci danno più linfa, siamo troppo distanti e troppo diversi, troppi rivolgimenti ci sono stati, troppi mutamenti si sono verificati. Il problema sta infatti nel mutamento dell'uomo: egli è cambiato a tal punto che oramai gli ideali dell'"uomo greco", dell'"uomo cristiano", o altri tipi d'uomo del passato, non attecchiscono più nell'uomo attuale. Perciò pensare al recupero delle radici greche o cristiane, rivolgersi al passato per emulare un mondo e un tipo umano diventati radicalmente diversi, è impresa fatua. Non abbiamo più bisogno di rifarci a modelli passati; ora dobbiamo noi stessi diventare modello. Non è questo che fecero i greci? Abbiamo appiccato fuoco a tutto, da più di un secolo: la storia, le tradizioni, i valori, le fedi, le istituzioni, tutto. Ma allora non è forse giunta l'ora di creare un nuovo tipo umano, che vada oltre l'uomo tradizionale che ha fondato la civiltà su basi che oggi non reggono più? Deve sorgere il bisogno di creare qualcosa di completamente nuovo, un uomo nuovo, una nuova civiltà, un nuovo mondo, ancora mai visti. In questo senso Nietzsche aveva ragione: "Duemila anni e ancora nessun nuovo Dio". L'uomo deve diventare il dio di se stesso. Non abbiamo forse bisogno di qualcuno che sia addirittura più grande di Cristo o di Kant, che operi una rivoluzione copernicana più radicale e più imponente, che abbia in sé la forza di spostare l'asse del mondo?

"Questo è il nostro mondo, adesso, il nostro mondo, e quella gente antica è morta." (Chuck Palhaniuk)

"'Occidente' è parola che esprime un destino a cui non ci si può sottrarre. (...) Il tramonto è inevitabile. (...) Ma qual è il senso custodito dalla parola? Tramontare è l'inevitabile declinare della luce o è l'inconsapevole sottrarsi della terra alla luce? Cogliere il senso di questa domanda è decidersi per un'attesa o per una scelta." (Umberto Galimberti)
  Forum: Filosofi e Filosofie · Anteprima Messaggio: #5205 · Risposte: 16 · Visite: 95,344


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