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> Wilhelm Weischedel: un'etica nell'età del nichilismo?, Intervento di Roberto Garaventa all'università di Napoli
andreademilio
messagio Feb 19 2008, 02:06 AM
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Roberto Garaventa, Università di Chieti-Pescara

E’ possibile fondare un’etica nell’età del nichilismo e dello scetticismo?
La proposta di Wilhelm Weischedel


1) La situazione storica

La tesi da cui muove la proposta etica di Weischedel è che noi viviamo in un’epoca storica segnata dal nichilismo e dallo scetticismo. Ma che cosa intende propriamente Weischedel per “nichilismo” e per “scetticismo”? E in che rapporto stanno questi due concetti?
Per Weischedel il nichilismo è quella temperie spirituale che segue al crollo degli ultimi grandi sistemi metafisici (quelli dell’idealismo speculativo tedesco) e in particolare di quello hegeliano, che segue cioè alla crisi definitiva di un tipo di pensiero (quello “metafisico”) che, fondandosi su esperienze non universalmente umane (il che significa: non accessibili a tutti gli uomini e quindi non legittimabili razionalmente e argomentativamente) , trascende la realtà sensibile in direzione di un fondamento del tutto - sia esso un ente sommo trascendente il mondo o un principio costituente l’essenza ultima del reale , senza poterne però “certificare”, “giustificare”, “rendere evidente” (i termini tedeschi più usati sono ausweisen, bewahrheiten, einsichtig machen) l’esistenza e la consistenza. L’età del nichilismo è quindi storicamente l’età postnietzscheana, in cui il pensiero filosofico, liberatosi da ogni caparra metafisica, fa finalmente i conti con ciò che da sempre segretamente lo muove: die radikale Fraglichkeit, la problematicità radicale della realtà. Non a caso per Weischedel “morte di Dio” significa anzitutto: oscurarsi del significato ultimo della realtà, venir meno di ogni orizzonte e donazione di senso capace di fungere da saldo punto di riferimento, tanto che il reale finisce per apparire radicalmente enigmatico e problematico; secondariamente: impossibilità di conoscere il mondo nella sua struttura ultima, di capire da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo; e in terzo luogo: svalorizzazione dei valori morali riconosciuti, carenza di direttive etiche capaci di indirizzare e sostanziare l’agire umano . Nell’epoca del nichilismo (evento storico da accettare nella sua ineluttabilità) il nulla il nulla di senso, di verità, di valori finisce così per prendere il posto di Dio.
E in effetti questa diagnosi della condizione spirituale e ideale dell’occidente, tratteggiata da Weischedel tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, sembra conservare ancora oggi una sua validità: non solo le certezze religiose e metafisiche di un tempo (che donavano senso e sicurezza al singolo, costituendo l’elemento culturale capace di dare unità, fondamento e coesione alla vita sociale) sono definitivamente crollate; non solo la crisi dei valori etici tradizionali ha raggiunto una dimensione e una radicalità sconcertanti in una società secolarizzata, caratterizzata dal predominio del sapere tecnico-scientifico e della ragione funzionale/strumentale, dalla rinuncia ad ogni riflessione sul senso dell’esistere, sui fini ultimi dell’agire, dalla rassegnazione disillusa e cinica al dato, dalla sfrenata rincorsa ai beni materiali; ma l’uomo contemporaneo vive in una situazione di incertezza e di dubbio, di pluralismo di visioni del mondo e di relativismo etico-culturale, di assenza di reali e fondati punti fermi, senza precedenti o almeno sconosciuta ad altre cesure epocali avutesi nel corso della storia dell’umanità fino ad oggi.
Ora, secondo Weischedel, in un contesto storico-culturale segnato dal nichilismo il filosofare non può che farsi “scepsi”, “interrogare radicale” (radikales Fragen), ovvero non può che finire per trasformarsi in un “problematizzare” (fraglich machen, infragestellen) che tende a mettere “tutto” in questione, e cioè non solo tradizioni o fedi fino ad ora accettate in maniera acritica, ma anche ogni già avvenuto acquisto critico – “interrogare radicale” in cui giunge per altro a manifestazione l’essenza più propria e autentica del filosofare, consistente appunto non nella delucidazione critica di esperienze metafisiche, ma nel problematizzare come tale . Lo scetticismo è quindi il modo di essere del pensiero nell’età del “nichilismo”.
Certo: il filosofare, in quanto interrogare radicale, è al contempo ricerca indefessa di una risposta all’apparente enigmaticità dell’esistenza, di una donazione ultima di senso che sia capace di trasfigurare l’apparente insensatezza e negatività del reale. Ne consegue che esso, se pur trascina nel vortice del problematizzare ogni certezza tradizionale o acquisita, non può terminare nella constatazione dell’assenza di un’evidenza di senso, nell’affermazione di un nulla assiologico, ma deve tenersi fermo nell’oscillazione (schweben) tra senso e non-senso, tra luce e tenebra, tra positività e negatività (Hume, Kant) . Il filosofare è quindi sì scetticismo, ma lo è nel senso ampio e originario del termine per cui “scepsi” (da skeptesthai = “guardare intorno scrutando”) è sinonimo di riflessione che vaglia attentamente e criticamente, e non in quel senso più ristretto, impostosi sul declinare dell’antichità classica ma diffuso largamente anche nel nostro tempo, per cui scettico è chi dispera (o non crede) di poter raggiungere verità e certezza .
Tuttavia il filosofare in quanto interrogare radicale, se ha sempre di mira una possibile risposta ovvero il possibile tralucere di un senso, non può che rimettere sempre in discussione ogni risposta, ogni donazione di senso. E’ questa la singolare e costitutiva antinomicità (o circolarità) del concetto weischedeliano di filosofare – un’antinomicità che ha la sua ragione ultima non solo nel carattere problematico della realtà in generale (pencolante tra senso e non-senso), ma soprattutto nella natura profondamente contraddittoria e dicotomica dell’uomo in particolare. Questi infatti è un essere che non solo non riesce ad avere un punto di vista unitario sulla realtà del mondo (che presenta una molteplicità di aspetti e di livelli difficilmente riconducibili ad unità ed è quindi passibile di una pluralità diversificata di interpretazioni), ma non è in grado nemmeno di comprendere unitariamente se stesso . L’uomo è infatti un essere dilacerato, scisso, pencolante fra grandezza e miseria (Pascal), tra ratio calcolante e ragione intuitiva, tra desiderio di potenza e senso d’impotenza, tra soggezione al passato e apertura la futuro, tra verità ed apparenza, tra realtà e immagine, tra aspirazione all’infinito e coscienza della propria finitezza, tra silenzio e chiacchiera, tra impulso all’autodeterminazione e sottomissione a norme/leggi, tra rivendicazione di diritti individuali e rispetto delle esigenze della società, tra la capacità di promuovere lo sviluppo scientifico e tecnico e l’incapacità di progredire sul piano morale e spirituale, tra senso e non-senso, tra essere e non-essere. Non è un caso che la riflessione etica abbia sempre avuto grosse difficoltà ad assumere a proprio fondamento due realtà così fragili e contraddittorie come la libertà umana (Freiheit) e la coscienza morale (Gewissen). Da un lato, infatti, i due punti di vista da cui è possibile osservare la realtà (e cioè quello del “determinismo” che dice: tutto, anche il volere dell’uomo, è predeterminato; e quello dell’“indeterminismo” che dice: all’interno di un mondo segnato dalla necessità esiste pur sempre una qualche forma di libertà come scelta e autodeterminazione), pur essendo tra loro inconciliabili, sono parimenti legittimabili da un punto di vista razionale, per cui l’esistenza della libertà appare qualcosa di altamente problematico. D’altro lato anche la coscienza morale risulta segnata da una radicale antinomicità. Infatti, se la si guarda dall’interno, essa parla un linguaggio assoluto e sollecita incondizionatamente, mentre, se la si guarda dall’esterno, essa appare relativa e soggettiva e quindi priva di validità incondizionata.


2) Il problema

Se però la nostra epoca è ineluttabilmente segnata dal nichilismo e dallo scetticismo, il proposito weischedeliano di delineare e di fondare in modo razionale un’etica che sia “all’altezza dei tempi” , un’etica cioè che faccia seriamente i conti con la crisi spirituale e ideale del nostro tempo senza cullarsi nell’illusione di un recupero di prospettive filosofico-religiose o filosofico-metafisiche proprie di un passato ormai definitivamente tramontato, non può che apparire, almeno di primo acchito, qualcosa di difficile realizzazione. Infatti, mentre in genere un’etica filosofica non solo va alla ricerca di criteri validi e vincolanti, ma pretende di possedere un carattere incondizionato e assoluto, lo scetticismo, che “tutto problematizza”, è estremamente sospettoso e diffidente nei confronti di tutto ciò che, pur presumendo di valere incondizionatamente, ha in realtà, ad un attento e puntuale riscontro empirico, un valore relativo perché storicamente e culturalmente situato. Mentre l’etica filosofica non solo si pone (a differenza della metaetica analitica, che non va oltre questioni meramente formali) il problema di che cosa sia buono e che cosa sia riprovevole , ma è altresì alla ricerca, proprio perché è filosofica, di un principio che sia in grado di dare indicazioni vincolanti e impegnative circa intenzione, volontà, comportamenti e atteggiamenti dell’uomo (Kant) , lo scetticismo, che con l’avvicinarsi all’epoca presente (invece di costituire solo un momento del filosofare, come in Cartesio, Kant, Hegel) tende al dominio assoluto (Nietzsche, Camus) , si contraddistingue per una fondamentale sfiducia circa la capacità del conoscere umano di giungere alla verità e alla certezza . Etica e scepsi sembrano quindi ineluttabilmente confliggere.
Quello di delineare un sistema di norme e regole atte a indirizzare e guidare il comportamento dell’individuo tanto nella vita privata quanto in quella sociale, cercando di darne una giustificazione filosoficamente (cioè razionalmente e argomentativamente) fondata è, tuttavia, non solo un compito esistentivamente decisivo, nella misura in cui ogni singolo individuo è posto ogni giorno di fronte all’esigenza di prendere decisioni concrete e ha quindi bisogno di punti di riferimento in grado di orientare la sua volontà e il suo comportamento, ma è anche un’incombenza centrale della riflessione filosofica che, se non vuole rinunciare a se stessa, non può non porsi il problema anche dell’agire e delle norme del comportamento. Il filosofo autentico – e tale è ogni uomo che interroghi radicalmente non può non porsi il problema della bontà e della giustezza delle proprie azioni e quindi non può non occuparsi di etica – e questo sebbene al giorno d’oggi (come Weischedel nota con evidente disappunto) la filosofia sembri più impegnata a risolvere problemi di metodologia e di epistemologia o a perdersi nella ricerca storiografica su dettagli, che non a riflettere sui cosiddetti problemi ultimi dell’esistere . E’ quindi una necessità al contempo filosofica ed esistenziale quella che muove e sottende la Skeptische Ethik, l’Etica scettica di Weischedel.
D’altra parte ogni riflessione filosofica ha una sua costitutiva storicità e situazionalità e non può non formulare le proprie domande che a partire dagli interrogativi propri del suo tempo. Essa quindi non può rifarsi a una determinata tradizione culturale o a una determinata fede positiva. Infatti, se richiamarsi a una tradizione culturale “è impossibile per l’uomo pensante del presente che si sa costretto a interrogare criticamente la propria tradizione”, l’atteggiamento di fede “si fonda su una particolare decisione della volontà la quale ritiene di non doversi più legittimare di fronte al pensiero”. Quella di rifarsi a etiche fondate su una tradizione culturale o su una fede religiosa (ovvero a presupposti non accessibili a tutti e quindi razionalmente illegittimabili) è quindi una proposta inaccettabile per l’uomo dell’età dello scetticismo. Una prospettiva, questa di Weischedel, che può anche essere letta come una sorta di critica ante litteram non solo ad ogni etica delle virtù di tipo comunitarista che pretenda di restare impermeabile (in una sorta di felice autosufficienza) a prospettive etiche diverse, ma anche a ogni forma di assolutismo religioso che prometta (in nome di una rivelazione divina esclusivisticamente concepita) di liberare l’uomo da quel nuovo fantasma che si aggira attualmente per l’Europa e che ha il nome di relativismo.
Per essere filosoficamente legittima, la fondazione di un’etica per l’età dello scetticismo dovrà scaturire da un principio accessibile a tutti, ovvero da un’esperienza universalmente umana, e muoversi sul terreno della ragione argomentativa.


3) La fondazione

I vari tentativi di fondare un’etica che si sono succeduti nel corso della storia dell’occidente sono ricorsi invece o ad un’istanza di tipo filosofico-religioso (qui Weischedel fa riferimento ad Agostino, Kant, Scheler, Jaspers) o ad un’istanza di tipo filosofico-metafisico (qui il riferimento è a Fichte, Hegel, Hartmann), sono ricorsi cioè a dei principi filosoficamente non legittimabili, in quanto non inferibili da esperienze universalmente umane. Non sono in verità mancati, nella storia più recente, tentativi non-metafisico-religiosi di fondare un’etica: a questo proposito Weischedel cita Nietzsche, il marxismo, Gehlen, Kamlah, Schulz, Frankena. Essi però, pur ponendo a loro fondamento dei principi non-metafisico-religiosi , si sono rifiutati di legittimarne razionalmente la pretesa di stare all’origine di un’etica e quindi appaiono a loro volta infondati. Tutti questi tentativi di fondare l’etica o in modo filosofico-religioso/metafisico o in modo non-metafisico/religioso non possono quindi che essere considerati fallimentari.
Un’etica, che voglia essere filosofica, ha però bisogno di un principio da cui dedurre le sue prescrizioni, in quanto senza di esso sarebbe soltanto una raccolta più o meno casuale di direttive e norme etiche. Ora, nell’età del nichilismo e dello scetticismo, un tale principio non può essere, secondo Weischedel, che lo stesso atteggiamento di fondo (Grundeinstellung) dello scettico: l’interrogare radicale. Lo scetticismo stesso è cioè l’unica istanza, l’unico principio, l’unico fondamento da cui un’etica che voglia essere all’altezza dei tempi può prendere le mosse.
Certo: un’etica filosofica, che muova dall’interrogare radicale, non può pretendere di dedurre logicamente criteri e norme morali da un principio che di per sé nega qualsiasi possibilità di vincolo normativo. Essa può tuttavia “mostrare” che tale principio non rende impossibile un’etica conducendo al dostoevskjiano “tutto è permesso”, ma consente a determinate condizioni, ovvero sulla base di determinati presupposti di fondare razionalmente alcuni atteggiamenti etici di fondo (Grundhaltungen). A tal fine è tuttavia necessario passare dallo scetticismo come concetto astratto all’atteggiamento concreto dello scettico che, vivendo in una situazione storicamente determinata, non può non prendere (al pari di ogni altro essere umano) determinate decisioni o fare determinate scelte. L’etica scettica è quindi in sostanza “un’interpretazione dell’esistenza scettica”, ovvero il fondamento dell’etica scettica, più che lo scetticismo in quanto tale, è la concreta impostazione di vita dello scettico. E le norme-base di tale etica saranno gli atteggiamenti di fondo che caratterizzano la sua esistenza, il suo pensare, il suo modo di comportarsi.
Tale etica è però, secondo Weischedel, un’etica autenticamente filosofica, in quanto, per fondarla, non si è fatto ricorso ad alcun elemento estraneo alla filosofia, ma si è partiti da un’esperienza universalmente umana: quella della problematicità della realtà – un’esperienza che ci è dato di fare in una molteplicità di situazioni concrete tra loro diverse ma parimenti decisive (che ricordano molto le situazioni-limite di Jaspers), come ad esempio uno scacco patito, un tradimento commesso o subito, una grave malattia, un caso di morte, una condizione di noia profonda, lo scoppio di una guerra, l’olocausto di un intero popolo, un profondo senso di estraniazione rispetto alle persone e alle cose. Queste esperienze, infatti, non solo ci fanno comprendere come qualcosa nella nostra esistenza non sia in ordine, non quadri, non combini, ma possiedono in se stesse la tendenza ad allargarsi (sich ausweiten) a esperienza della problematicità radicale, sempre che ci mettiamo a riflettere attentamente su di esse senza fermarci a quanto appare in superficie, ovvero sempre che le approfondiamo fenomenologicamente in direzione di quello che esse intenzionano e nascondono .
La condizione ineludibile per la delineazione e concretizzazione dell’etica scettica cercata è però che lo scettico prenda quattro decisioni fondamentali (Grundentschlüsse). Egli deve decidersi anzitutto per lo scetticismo, cioè per l’interrogare radicale come suo destino epocale e sua possibilità più propria certo non chiudendosi pregiudizialmente a posizioni etiche differenti, ma tenendo fermo ad esso nella prassi, per quanto gli è possibile. In questo senso la coscienza morale (da Weischedel intesa quale “principio critico” avente la funzione di indurre l’uomo alla verifica costante dei propri atteggiamenti e a suscitare in lui il senso della problematicità delle proprie scelte) resta, nonostante la sua antinomicità (o forse proprio per questo), un momento fondamentale dell’etica scettica.
Lo scettico deve decidersi in secondo luogo per la libertà, cioè per l’unico fondamento possibile, anche se estremamente fragile, di un’etica, rifiutando una concezione deterministica del reale. Infatti, se l’uomo non avesse la libertà di decidersi e di determinarsi autonomamente e quindi di rapportarsi criticamente con tutte le istanze esterne ed interne che cercano di imporglisi, non solo non avrebbe senso parlare di norme e direttive etiche, ma lo stesso interrogare radicale diventerebbe impossibile. La libertà (per quanto limitata dal corredo istintuale e pulsionale del singolo individuo, nonché dalla situazione storico-sociale in cui egli si ritrova a vivere) non può quindi non fungere da presupposto ultimo (per quanto labile e problematico) dell’etica scettica.
Lo scettico deve poi decidersi in terzo luogo per la vita, senza cadere nella tentazione del suicidio (che equivale, secondo Weischedel, camusianamente ad un ammettere dogmaticamente la definitività del nulla di senso ), bensì mantenendosi nell’oscillazione tra essere e nulla, tra senso e non-senso, ovvero nell’aperta problematicità. Egli deve decidersi infine (contro ogni forma di passività e ignavia) per la trasformazione della realtà, per l’impegno serio e operoso, evitando di lasciarsi trascinare dalla vita o di affrontarla esteticamente e ironicamente, cioè senza autentica serietà (Kierkegaard) .
E’ da queste quattro decisioni fondamentali che scaturisce il carattere vincolante dell’etica scettica.
Certo: quale etica che muove dall’esperienza della problematicità radicale e dall’idea del filosofare come interrogare radicale, essa non può pretendere di valere in modo assoluto e incondizionato: chi cerca qualcosa del genere, deve fondarsi o su una fede religiosa o su una metafisica indimostrabile. Inoltre, quale etica dell’età dello scetticismo compiuto, essa non può nemmeno pretendere di valere in modo universale e astorico, cioè di offrire indicazioni valide per sempre. Essa è vincolante solo per lo scettico che abbia preso quelle quattro decisioni fondamentali. Anzi, essa, anche come tale, è sempre revocabile, in quanto lo scettico può sempre decidere di imboccare strade opposte a quelle qui delineate, abbracciando una qualche fede e rinunciando a proseguire nell’interrogare, professando il determinismo più assoluto e abdicando ad ogni idea di libertà etica, alzando la mano su di sé e proclamando la definitività dell’insensatezza, rifiutandosi di impegnarsi nella vita e rapportandosi ironicamente ad essa.
Se però egli prende quelle decisioni di fondo, un’etica scettica diventa senz’altro possibile. E dato che nessun presupposto metafisico o teologico è stato posto a fondamento di essa, tale etica è per Weischedel razionalmente legittimata e genuinamente filosofica.


4) Il contenuto

A fungere da norme vincolanti per l’uomo del presente che prenda sul serio tanto il compito della riflessione etica quanto lo scetticismo che segna il nostro tempo sono, quindi, gli atteggiamenti di fondo dello scettico che, specificandosi poi ulteriormente in una serie di atteggiamenti concreti e determinati, danno origine a una sorta di “sistema”.
Tali atteggiamenti di fondo dello scettico sono tre: l’apertura (Offenheit), il distacco (Abschiedlichkeit) e la responsabilità (Verantwortung).
L’apertura (Jaspers) è l’atteggiamento di fondo dello scettico che gli consente di mettere tutto in discussione, di non identificarsi mai completamente con il passato tramandato e con il presente consolidato, ma di tenersi pronto a rivedere le proprie posizioni (anche in ambito ideologico e politico), accogliendo nuove e future possibilità (senza per questo trasformarsi in un sognatore o in un utopista). Questo non significa che lo scettico non possa, in una situazione concreta, aderire a una determinata visione del mondo, ma egli, ben cosciente della sua problematicità, rifiuterà di accettarla in modo acritico e dogmatico. L’apertura poi, nella misura in cui induce a essere sempre disponibili a dare ascolto agli altri, a dialogare e a collaborare con loro , cercando di aiutarli a uscire dal loro guscio, è un atteggiamento che confligge con la tendenza connaturata nell’uomo non solo a chiudersi (involontariamente o volontariamente) in se stesso, a isolarsi dai suoi simili, ma anche a far centro su se stesso, ad alterare la propria immagine (per non prendere coscienza di quel che egli è veramente), a tenere rigidamente fermo alle proprie opinioni e convinzioni, nella pretesa di essere sempre e aproblematicamente nel giusto.
Il distacco è invece quell’atteggiamento dello scettico che gli consente di prendere intimamente distanza non solo dalla realtà che lo circonda, ma anche dai suoi desideri e dai suoi progetti, dalle sue passioni e dalle sue opinioni, nonché dai vincoli (per altro ineludibili) che lo legano a qualcosa o a qualcuno. Egli si impegnerà sì nella realtà, ma lo farà sempre con la coscienza che non solo ciò per cui si impegna, ma egli stesso che si impegna e il suo stesso impegno sono cose estremamente problematiche: per questo non accorderà al mondo alcun potere su di lui e conserverà anche nell’impegno un intimo distacco da esso. Vivere in maniera distaccata significa, infatti, non farsi sovrastare dalle cose, dalle persone e dalle circostanze, bensì conservare un’intima indipendenza dalla realtà, così da essere, nel mondo, liberi dal mondo, nella lucida (ma al contempo malinconica) consapevolezza del destino di caducità e di morte che impronta tutto il reale (Heidegger, Kamlah, Schulz: Schopenhauer) .
L’atteggiamento di fondo della responsabilità (Weischedel, Schulz) infine è quello che chiama lo scettico a rispondere delle sue azioni di fronte al suo Io più profondo e autentico (“responsabilità” è, infatti, “rispondere” a qualcuno di qualcosa) . Certo: anche questa intima istanza di fronte a cui egli è chiamato a rispondere del proprio operato (dato che le istanze tradizionali di fronte a cui era solito rispondere del proprio comportamento, gli sono diventate problematiche), non è un principio sicuro, per cui egli dovrà interrogarsi costantemente circa il suo Io più autentico, in uno sforzo di autochiarificazione destinato a non giungere mai a compimento. Tuttavia, nell’istante concreto della decisione, lo scettico non può che farsi guidare da questa intima istanza in una sempre rinnovata assunzione di responsabilità. Egli cercherà poi di porre la responsabilità verso di sé al centro della convivenza umana, lottando perché anche gli altri imparino ad assumersi la propria responsabilità nei confronti di se stessi, ovvero perché i rapporti interpersonali siano improntati a un reciproco senso di responsabilità. Non a caso per lo scettico la democrazia, quale sistema politico fondato sulla cooperazione di tutte le persone responsabili, è (al di là di tutti i suoi limiti realizzativi) l’unica organizzazione sociale ammissibile. Egli quindi non negherà mai in linea di principio la legittimità delle istituzioni (matrimonio, famiglia, società, chiesa, stato), che esonerano (Gehlen) il singolo dal prendere molte decisioni e conferiscono una salda impronta all’esistenza , in quanto ciò condurrebbe all’anarchia, ma manterrà nei loro confronti un rapporto critico, riconoscendole fintantoché rendono possibile la responsabilità personale, ma cercando di cambiarle o riformarle laddove tendano a ostacolarla o a soffocarla. Il potere non va rifiutato a priori, ma solo rispetto al cattivo uso che i potenti possono farne.
Ora, ognuno dei tre atteggiamenti di fondo dello scettico qui ricordati si concretizza in una serie di singoli atteggiamenti etici, che rappresentano i modi concreti in cui si manifesta l’esistenza scettica nella realtà quotidiana.
L’atteggiamento di fondo dell’apertura si concretizza nella veracità (Wahrhaftigkeit ), nell’obiettività (Sachlichkeit), nell’accettazione (Geltenlassen), nella tolleranza (Toleranz) e nella compassione (Mitleid).
L’atteggiamento di fondo del distacco si concretizza nella rinuncia (Entsagung), nella modestia (Selbstbescheidung), nell’umiltà (Demut), nell’abnegazione (Selbstaufgabe), nell’autodominio (Selbstbeherrschung), nella riflessività (Besonnenheit), nel coraggio (Tapferkeit), nella franchezza (Freimut), nella magnanimità (Grossmut), nella bontà (Güte), nella calma interiore (Gelassenheit) e nella pazienza (Geduld).
L’atteggiamento di fondo della responsabilità infine si concretizza nella solidarietà (Solidarität), nella giustizia (Gerechtigkeit) e nella fedeltà (Treue).
Weischedel ha, ovviamente, ben chiaro che molti di questi atteggiamenti etici concreti e determinati (che qui non ho tempo di presentare in dettaglio) hanno spesso ricevuto nella tradizione etica una diversa fondazione. Importante è tuttavia che tali atteggiamenti si concilino con l’impostazione di fondo dello scettico che interroga radicalmente.


5) Annotazioni critiche

Indubbiamente la proposta etica weischedeliana che, ricordiamolo, ha i suoi punti di riferimento più importanti, oltre che in alcuni classici del pensiero come Aristotele, Agostino, Pascal, Kant, Fichte, Hegel, in taluni dei filosofi europei più interessanti del tempo (in primis Heidegger e Jaspers, ma anche Gehlen, Kamlah, Schulz, Camus e Frankena) , ma che liquida in modo forse troppo sbrigativo prospettive che in quel periodo avevano acquistato (come l’“ermeneutica” di Gadamer ) o andavano acquistando (come “l’etica del discorso” di Habermas ) notevole rilevanza ed evita di affrontare una serie di problemi etici scaturenti dagli sviluppi più problematici della scienza e della tecnica (come farà da lì a poco Jonas) può apparire estremamente labile, fragile, debole. Anche per essa vale però quanto Pietro Piovani scriveva, più o meno negli stessi anni, circa l’etica del Novecento in generale: “La circospezione terminologica che induce oggi l’etica a presentarsi in maniera […] teoreticamente tanto poco impegnativa, dà già il senso dell’atmosfera di problematicità in cui si muovono le esperienze e le riflessioni del Novecento, il quale per dire paradossalmente così ha più che mai incerte tutte le sue certezze […] Un tempo di perplessità, di angosce, di dubbi tali da investire i fondamenti della moralità non è però un tempo refrattario o avverso al pensiero etico. Tutt’altro: si potrebbe sostenere, anzi, che sono proprio le perplessità di un secolo alla ricerca di nuovi fondamenti dei valori a dare rinnovata dignità alle meditazioni della filosofia morale” .
Il principale nodo problematico della proposta etica weischedeliana (come pure della sua “teologia filosofica” contenuta ne Il Dio dei filosofi del 1971-72) è dato tuttavia dalla sua concezione del filosofare come interrogare radicale, come scetticismo. Weischedel oscilla infatti, senza mai distinguerle chiaramente, tra due diverse prospettive che, seguendo un’indicazione di Alberto Caracciolo, potremmo definire “nichilistico-esistenziale” e “nichilistico-scettica” . Egli oscilla cioè tra il pensare il filosofare come interrogare aperto a una risposta e il pensarlo come scetticismo che distrugge ogni risposta; tra il pensare la verità come qualcosa di cui si può fare esperienza, in quanto, pur nel suo celarsi, si discopre (come in Heidegger), e il pensarla come certezza fondata nel soggetto (come nella metafisica della soggettività, criticata da Heidegger); tra il pensare die Erfahrung der radikalen Fraglichkeit, l’esperienza della problematicità radicale come momento iniziale del filosofare e il pensarla come risultato dell’interrogare scettico.
Certo: anche in Etica scettica, in cui la linea “nichilistico-scettica” tende a prevalere, l’interrogare radicale non chiude mai le porte ad una possibile apertura di senso, non perde mai di vista la possibilità di una risposta all’enigma dell’esistenza: anzi, esso si comprende esplicitamente come scetticismo “aperto” e “non-dogmatico”, come domandare che non si ferma né a una risposta positiva, né ad una risposta negativa, ma si tiene nell’oscillare. Il problema tuttavia è che Weischedel, in questa sua ultima opera, tende a scindere troppo drasticamente il discorso etico da quello di “fede”, come se potesse esistere un’etica senza una prospettiva religiosa che la sottende e la illumina, come se potessero esistere le “opere” senza la “fede” – dove col termine “fede”, ovviamente, non intendo una fede storico-positiva determinata (che, come tale, muove da una rivelazione divina considerata come l’unica vera e tende spesso a farsi nucleo portante di un’identità etnico-culturale), bensì il momento dell’incontro del singolo con una parola di salvezza che gli viene donata, con un senso ultimo del mondo che gli si dischiude . Non esiste infatti imperativo etico che non rimandi a un “imperativo ontologico del bene”, a una condizione utopico-controfattuale di “esistenza internamente giustificata” , di cui l’azione moralmente buona, compiuta in ossequio e in ottemperanza a quell’imperativo, è l’anticipazione, il Vorschein.
Ora, permette veramente l’interrogare radicale di fondare le decisioni dello scettico, come vorrebbe Weischedel? Non sono queste decisioni contro le sue esplicite affermazioni sostenute in realtà da una sotterranea prospettiva di fede, da un’esperienza metafisica non tematizzata? La sua etica scettica non è in ultima analisi sottesa da un intimo afflato religioso? Gli atteggiamenti etici fondamentali dell’apertura, del distacco e della responsabilità nei confronti non solo degli altri, ma anche della natura e della realtà tutta che il nostro pensatore pretende di dedurre semplicemente dal filosofare come interrogare radicale non rappresentano in realtà, più che il risultato di decisioni puramente umane, la risposta dell’uomo al tralucere misterioso di una dimensione trascendente (Caracciolo parlava di “spazio della Trascendenza”) che, evidenziando la contingentia mundi, anzi il malum mundi (il male insito nelle strutture ultime del reale), non solo ne esige la negazione, ma ne inizia la negazione filtrando la temporalità di una luce di eternità, di un barlume di senso che non solo indica una possibile via d’uscita all’aporeticità dell’interrogare dell’uomo, ma si fa appello per un agire inattuale e controfattuale?
E’ vero: Weischedel, nel suo tentativo di sviluppare un’etica a partire dall’idea di filosofare come interrogare radicale, ha inteso evitare in tutti i modi di far ricorso a esperienze metafisiche o religiose illegittimabili. Troppo forti erano in lui l’avversione – forse da ricondurre biograficamente e psicologicamente alla severa educazione pietistica ricevuta nella casa paterna – contro ogni tipo di fede storica istituzionalizzata e di teologia dogmatica, nonché la diffidenza, ereditata dal suo maestro Martin Heidegger, nei confronti della metafisica tradizionale, vista (in questo interpretando correttamente l’intenzione più profonda del maestro o fraintendendola?) come la metafisica tout court. A mio avviso, tuttavia, è solo a partire da un’esperienza che, contro le intenzioni esplicite di Weischedel, dovremmo pur chiamare “metafisica” o “religiosa” , che possono trovare una loro giustificazione tanto le decisioni ultime che sostengono l’etica scettica, quanto gli atteggiamenti fondamentali che ne costituiscono l’ossatura: perché altrimenti l’apertura, il distacco e la responsabilità e non piuttosto la nietzscheana volontà di potenza tanto per ricordare un filosofo che ha pure pensato l’etica all’ombra del nichilismo?
Al di là di queste osservazioni critiche, il progetto weischedeliano affascina comunque per la profonda “inattualità” del modello di comportamento etico da esso proposto. Lo scettico autentico, conseguente, è infatti l’uomo che, nel rapportarsi agli altri, si apre alle loro esigenze e ascolta le loro ragioni, accettando pazientemente limiti e difetti dei propri simili, in quanto si sa accomunato a loro, come alla natura tutta, da un identico destino di caducità e sofferenza; è l’uomo che, se anche non rifiuta utopisticamente l’esistente, si rapporta però sempre criticamente alle istituzioni in cui si organizza la vita della società, serbando un intimo distacco dalle cose pur necessarie della vita e impegnandosi con decisione perché chi detiene il potere (momento per altro ineludibile della realtà umana) non ne abusi ingiustamente; è l’uomo infine che non considera mai la propria visione delle cose come ultima e definitiva bensì come sempre passibile di correzione e revisione, che è alla ricerca della verità, per cui non giudica in base a pregiudizi ma si sforza di attenersi ai fatti, che non si lascia prendere dalle passioni ma sa perdonare e rifugge dall’inganno, che fa fronte coraggiosamente a qualsiasi situazione avversa o ingiusta, opponendo all’orgoglio, all’ambizione e al desiderio di potenza un comportamento dignitosamente umile e modesto. Ora, in un mondo in cui ognuno tende a chiudersi in se stesso e a difendere ostinatamente la propria verità e i propri privilegi, in cui unicamente l’attaccamento ai beni materiali sembra essere ragione di esistenza e di azione, in cui non si ha rispetto né per gli uomini né per la natura, l’esistenza scettica rappresenta senz’altro una di quelle che potremmo definire tracce o anticipazioni controfattuali di un modo di co-esistenza (e forse anche di una realtà) radicalmente differente da quello in cui siamo stati destinati a vivere.


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