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> Il male: colpa di Dio o dell'uomo?, Un articolo di Roberto Garaventa
nemo
messagio Feb 20 2008, 06:07 PM
Messaggio #21





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tutto potrebbe essere...

tutto e il contrario di tutto

se dio esistesse...

ma...

dio NON ESISTE!!!
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nemo
messagio Feb 20 2008, 09:22 PM
Messaggio #22





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CITAZIONE(lou @ Feb 20 2008, 04:58 PM) *
l'uomo, sempre l'uomo
quello che nn cura la madre che partorisce
quello che ha ridotto la madre e il figlio nell'indigenza...


ma perchè cazzo!!!

perchè tutto questo

a che pro?

per pavoneggiarsi con se stesso?
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nemo
messagio Feb 20 2008, 09:24 PM
Messaggio #23





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CITAZIONE(lou @ Feb 20 2008, 05:04 PM) *
era meglio che ci creasse schiavi e felici?
già forse si...
-era il discorso che si faceva con rasema sulla zuppa virtuale di Matrix-

proprio tu nemo...che hai guardato negli occhi un'aquila
come puoi dire che era meglio essere burattini coi fili??


ma non poteva farne a meno?

ritorna sempre la domanda circolare:

perchè?

perchè?

perchè?????????????????????????????????????????????????????
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nemo
messagio Feb 20 2008, 09:29 PM
Messaggio #24





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CITAZIONE(lou @ Feb 20 2008, 05:15 PM) *
esatto!!! roberto, ma pensa a noi, a che orizzonte finito senza di Lui!
pensa a restare invischiati nelle nostre piccole cose, facezie, banalità!
pensa che respiro ampio e profondo invece mentre si aspira all'Infinità!

la legge dell'umano è do ut des! Persino Dio nn sfugge a questa regola


pensa invece che meraviglia finire...

e lasciare spazio a nuove cellule di vivere

anche se, come l'acqua della terra, che è sempre la stessa:

liquido, vapore, pioggia e ancora liquido, mare, fiumi, laghi...

così è tutto il resto:

carne, morte, terra, e ancora carne...

vita che si rigenera, si autoalimenta

in realtà, non finiremo mai

siamo antichi quanto l'universo

vivremo, quanto l'universo...

meravigliosa la vita senza dio!!!
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andreademilio
messagio Feb 21 2008, 12:06 AM
Messaggio #25


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L'intervento di Bruno Forte sul libro di Vito Mancuso

Chi salva l’anima?
Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio
(L'Osservatore Romano - 2 febbraio 2008)

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

"Salvarsi l'anima". Questa espressione antica ha nel linguaggio della fede un senso che appare messo radicalmente in questione dal libro di Vito Mancuso, L'anima e il suo destino (Milano 2007). Il volume ha suscitato un dibattito vivace, aperto dalla stessa lettera del cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata in apertura, che - pur con grande tatto - parla con chiarezza di "parecchie discordanze (...) su diversi punti". L'autore si era fatto conoscere e apprezzare sin dalla sua opera prima, dal titolo suggestivo ed emblematico: Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del "Principe di questo mondo" (Casale Monferrato, Piemme, 1996). Libro significativo, questo, attraversato da una lucida critica al monismo hegeliano dello Spirito e da una drammaticità, che contra Hegel ribadisce l'inesorabile sfida del male che devasta la terra, precisamente nel suo volto diabolico e insondabile. Anche altri saggi di Mancuso mantengono viva questa tensione, che si condensa in pagine profonde lì dove egli tocca il mistero del dolore innocente o scandaglia le profondità sananti dell'amore. Anche a motivo di queste premesse, il libro sull'anima ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati.
La prima obiezione riguarda la potenza del male e del peccato: Mancuso non esita ad affermare che il peccato originale sarebbe "un'offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina" (167). È vero che l'intento dichiarato dall'autore non è di "distruggere la tradizione", ma di "rifondarla" (168), cercando di tenere insieme "la bontà della creazione e la necessità della redenzione": in quest'ottica, il peccato originale non sarebbe altro che "la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un'oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla" (170). La spiegazione non convince: dove va a finire in essa il dramma del male, la potenza del peccato? Kant ha affermato con ben altro rigore la serietà del male radicale: "La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, "di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia" (Romani, 6, 17-18). Nondimeno, l'uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta" (Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, Milano 2001, 111). Come ha osservato Karl Barth, "quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (...) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale" (La teologia protestante nel XIX secolo, Milano 1979, 338). Vanificare il peccato originale e la sua forza attiva nella creatura vuol dire banalizzare la stessa condizione umana e la lotta col Principe di questo mondo, che proprio Mancuso aveva rivendicato contro l'ottimismo idealistico di Hegel.
La conseguenza di queste premesse è la dissoluzione della soteriologia cristiana: se non si dà il male radicale, e dunque il peccato originale e la sua forza devastante, su cui appoggia la sua azione il grande Avversario, la salvezza si risolve in un tranquillo esercizio di vita morale, che non vive più di alcuna tensione agonica e non ha bisogno di alcun soccorso dall'alto: "salvarsi l'anima" non sarebbe né più né meno che una sorta di autoredenzione. "La salvezza dell'anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo" - "La salvezza dell'anima non dipende dall'adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo" (311). La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, "non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare" (312). Mi chiedo come siano conciliabili queste affermazioni con quanto dice Paolo: "Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede" (Prima Corinzi, 15, 14). La confessione della morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è l'articulum stantis aut cadentis fidei Christianae! Vanificata la soteriologia, ne consegue anche lo svuotamento del dramma della libertà e la negazione della possibilità stessa della condanna eterna: l'Inferno sarebbe un "concetto (...) teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile" (312). Convinzione della fede cattolica è al contrario che senza l'Inferno l'amore stesso di Dio risulterebbe inconsistente, perché non si darebbe alcuna possibilità di una libera risposta della creatura. "Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te": il giudizio di Agostino richiama la responsabilità di ciascuno di fronte al suo destino eterno.
L'insieme di queste tesi si rifà a un'opzione profonda, che emerge da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una "gnosi" di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti. "Io penso - afferma l'autore - che l'esercizio della ragione sia l'unica condizione perché il discorso su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità" (315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura capax Dei? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che il lumen rationis escluda il bisogno del lumen fidei? Cristo sarebbe venuto invano? E la fragilità del pensare e dell'agire umano sarebbe inganno, perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata? Ben altro dice la testimonianza di Paolo, alla quale non può non attenersi una teologia, che voglia dirsi cristiana, preferendola a ogni illusoria apoteosi della ragione prigioniera di sé: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano" (Galati, 2, 20-22). Dalla legge, da qualunque legge di autoredenzione, la salvezza non viene. Senza il dono dall'alto, nessuna salvezza è veramente possibile. Sta qui la verità della fede, il suo scandalo: proprio così, la sua potenza di liberazione, la sua offerta della via unica e vera per "salvarsi l'anima". Pensare diversamente, non è teologia cristiana: è "gnosi", pretesa di salvarsi da sé.''


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AndreaF.
messagio Feb 21 2008, 12:50 PM
Messaggio #26


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Mi sto interessando da tempo anch'io al "caso" Mancuso, se di caso si può trattare.
Volevo innanzitutto segnalarvi una puntata di OttoeMezzo, di qualche tempo fa, dedicata al libro di Mancuso

http://www.la7.it/approfondimento/dettagli...&video=4210

Copio un mio post in un altro forum, con cui, tramite l'articolo di Forte, introducevo all'argomento:


Il libro di Vito Mancuso, “L’anima e il suo destino”(2007), è stato recentemente messo in questione dalla Chiesa Cattolica per alcune particolari tesi di fondo, ritenute difficilmente compatibili con il cattolicesimo o, addirittura, di chiaro stampo gnostico. Mi riferisco alle annotazioni del Cardinale Martini nella lettera uscita con il testo, che evidenziano alcuni punti discutibili, “discordanze” che divengono, nella lettura di Bruno Forte, veri segnali di uno “gnosticismo di ritorno”. L’incipit e il movente della riflessione di Mancuso è la difficillima questio con cui tutti i teologi, filosofi e pensatori si confrontano: Unde malum? Non intendo portare avanti la ricostruzione completa del libro, è un lavoro complesso e non penso di esserne capace, mi limito così ad abbozzare, anche perché immagino che ne sappiate più del sottoscritto.
Ciò che mi ha colpito è l’importante differenza di piani tra filosofia e teologia, spesso minima, che questa volta emerge chiaramente: esercizio del logos entrambe, la filosofia deve, credo, anzitutto ricercare il fondamento, mentre la teologia lo ha già nel rivelato. Ecco perché il teologo Bruno Forte non può che considerare gnosi l’idea che <<La salvezza dell'anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo>>, in quanto implicherebbe il porre in secondo piano la rivelazione di Cristo.
Difatti scrive Forte: <<La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, "non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare" (312). Mi chiedo come siano conciliabili queste affermazioni con quanto dice Paolo etc. etc.>>

Lo scritto di Mancuso è dunque filosofico? E in che senso? Filosofia è “semplicemente” non accettare la rivelazione? Sarebbe un serio esercizio del logos? In che senso l’uomo può svincolarsi coerentemente da qualunque rivelazione? C’è di più, sottolinea Forte:

<<Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura capax Dei? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che il lumen rationis escluda il bisogno del lumen fidei?>>

Penso che forse il problema non sia tanto nella “gnosi”, nel dibattito sulla creazione etc. etc. Forse ciò su cui riflettere non è tanto il credere o non credere, ma sull’apertura, sullo sguardo. Mi viene in mente la metafora della zattera di Platone, evidenziata da Giovanni Reale: “A meno che non ci sia un intervento divino”. Possiamo noi filosofi escluderlo? Ma qui rischiamo di cadere in facili pre-concetti: Il teologo cattolico Mancuso è chiuso alla rivelazione? (paradosso!) Bruno Forte carica eccessivamente?



Capirne qualcosa in più – con il vostro aiuto – sarebbe interessante.
Grazie


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lou
messagio Feb 21 2008, 01:21 PM
Messaggio #27


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andrea, puoi spiegarmi in maniera semplice e sintetica quali tesi, di quelle che citi, sono considerate gnostiche dalla chiesa cattolica?
spiega a me come se spiegassi ad un bambino..grazie


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AndreaF.
messagio Feb 21 2008, 01:45 PM
Messaggio #28


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CITAZIONE(andreademilio @ Feb 19 2008, 06:52 PM) *
Roberto Garaventa
...



Professore e del tentativo di Vito Mancuso cosa ne pensa?

Condivido la pars destruens del suo intervento -diretta a B.Forte- , vorrei invece soffermarmi su kierkegaard e sugli sviluppi successivi. L'angoscia, che influenza tutta la dinamica delle scelte etc., è un fondamento del male tipicamente antropologico, che mi sembra tuttavia ancora molto legato all'impianto della teodicea, talmente legato da sembrare un'effettiva antropodicea, benchè lei stesso sottolinei come l'uomo rimanga responsabile. Ciò che essenzialmente ci preoccupa da secoli è il dar risposta all'ingiustizia del male e tutto ciò ha prodotto i vari tentativi, più o meno teologico/filosofici di dar risposta.

Ma che non sia proprio questo approccio a sviarci?

Forse non si tratta più di "dicea", ciò difesa, perchè è la dinamica stessa accusa-difesa che non regge e non porta a nulla, e forse è proprio questo che Kant voleva dirci: noi uomini soffermiamoci innanzitutto sul nostro scandalo ovvero sul nostro fare attivamente il male. (Aushwitz??)

Solo uscendo dalla dinamica accusa-difesa possiamo tentare di ri-pensare non solo la fede (come ha tentato Mancuso) ma tutta una Teologia Naturale, che risale ancora a S.tommaso! Proprio in vista di questo ripensamento del Tutto ha senso tornare sulla metafisica, sulla ricerca ontologica, a prescindere dalle fedi o dalle contestazioni alle istituzioni.

Troppo spesso la teodicea è stata solo un fatto di bandiere, di apologia e quasi mai si è pensato realmente il male nel Tutto, con spirito di ricerca. La risposta a questo problema potrebbe giungere da una nuova ontologia, da uno spazio di libero pensiero dove pensare il fondamento del reale, con le nuove scoperte fisiche e matematiche, attraverso una nuova sensibilità umana, sviluppata dalle esperienze di questo secolo etc...

Non vado neanch'io sulle mie idee personali, vorrei sapere cosa ne pensate della mia obiezione.
A presto


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Roberto Garav...
messagio Feb 21 2008, 06:28 PM
Messaggio #29


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CITAZIONE(AndreaF. @ Feb 21 2008, 01:45 PM) *
Professore e del tentativo di Vito Mancuso cosa ne pensa?

Condivido la pars destruens del suo intervento -diretta a B.Forte- , vorrei invece soffermarmi su kierkegaard e sugli sviluppi successivi. L'angoscia, che influenza tutta la dinamica delle scelte etc., è un fondamento del male tipicamente antropologico, che mi sembra tuttavia ancora molto legato all'impianto della teodicea, talmente legato da sembrare un'effettiva antropodicea, benchè lei stesso sottolinei come l'uomo rimanga responsabile. Ciò che essenzialmente ci preoccupa da secoli è il dar risposta all'ingiustizia del male e tutto ciò ha prodotto i vari tentativi, più o meno teologico/filosofici di dar risposta.

Ma che non sia proprio questo approccio a sviarci?

Forse non si tratta più di "dicea", ciò difesa, perchè è la dinamica stessa accusa-difesa che non regge e non porta a nulla, e forse è proprio questo che Kant voleva dirci: noi uomini soffermiamoci innanzitutto sul nostro scandalo ovvero sul nostro fare attivamente il male. (Aushwitz??)

Solo uscendo dalla dinamica accusa-difesa possiamo tentare di ri-pensare non solo la fede (come ha tentato Mancuso) ma tutta una Teologia Naturale, che risale ancora a S.tommaso! Proprio in vista di questo ripensamento del Tutto ha senso tornare sulla metafisica, sulla ricerca ontologica, a prescindere dalle fedi o dalle contestazioni alle istituzioni.

Troppo spesso la teodicea è stata solo un fatto di bandiere, di apologia e quasi mai si è pensato realmente il male nel Tutto, con spirito di ricerca. La risposta a questo problema potrebbe giungere da una nuova ontologia, da uno spazio di libero pensiero dove pensare il fondamento del reale, con le nuove scoperte fisiche e matematiche, attraverso una nuova sensibilità umana, sviluppata dalle esperienze di questo secolo etc...

Non vado neanch'io sulle mie idee personali, vorrei sapere cosa ne pensate della mia obiezione.
A presto



Il problema delle teodicea nasce fra i pensatori cristiani per scagionare Dio dall'accusa di essere responsabile del male. Ovviamente, se Dio non esiste, il problema è risolto, anche se resta quello dell'antropodicea. Da dove venga il male nell'uomo è un problema a prescindere dal fatto che uno creda che Dio esista o no.
Non a caso è stato a lungo dibattuto nel Novecento non solo da filosofi (ad Arendt: banalità del male), ma nache da etologi (Lorenz: l'aggressività è innata?) e da sociologi (fromm: l'aggressività è risultato di frustrazioni psico-sociali?).
Teologi come Tillich (protestante) e Drewermann (teologo e terapeuta cattolico, cui è stata tolta l'autorità di insegnare e che adesso è uscito dalla chiesa) hanno invece puntato sul tema dell'angoscia e della paura (anche se i due termini non si equivalgono) come scaturigine della violenza umana (sparagli, Piero....).
L'uomo non è mai né totalmente libero né totalmente determinato, ma conoscere i fattori che lo condizionano è importante (per il rapporto con sé: carattere empirico di Schopenhauer; e per il rapporto con gli altri). E anche per i politici: guai a sottovalutare le paure della gente...

Se poi Dio esiste, il problema si complica. La teologia cristiana ha fatto di tutto per incolpare l'uomo (peccato originale), ma io credo che una buona dose di responsabilità ce l'abbia anche il Creatore.
Il problema è tuttavia pensare il Dio creatore... Questa cifra del divino è veramente problematica, non solo per il problema del male (unde malum?), ma anche per il problema dell'evoluzionismo (sapeva Dio dove tutto sarebbe andato a parare?)

Perché la natura ha indubbiamente una sua razionalità, ma il problema è il ruolo dell'individuo.
In fondo il problema della sofferenza è un problema degli individui, non della natura, che nella sua logica (sanguinaria, diceva Camus) non tiene conto degli individui (come diceva Leopardi).
Non è un caso che le religioni annuncino soprattutto la salvezza per i singoli (resurrezione, nuovi ciele e nuove terre, ecc.). Anche nella Bibbia prima c'è il Dio che libera il popolo di Israele dlla schiavitù d'egitto; solo successivemente si comincia a identificare questo Dio liberatore e salvatore col Dio creatore. Ma già Marcione aveva problemi col dio creatore, perché il mondo non è molto buono (dal punto di vista degli individui)...
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AndreaF.
messagio Feb 21 2008, 08:30 PM
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CITAZIONE(lou @ Feb 21 2008, 01:21 PM) *
andrea, puoi spiegarmi in maniera semplice e sintetica quali tesi, di quelle che citi, sono considerate gnostiche dalla chiesa cattolica?
spiega a me come se spiegassi ad un bambino..grazie


Eheh l'autorità per spiegare non ce l'ho, ma ti posso dire che è Bruno Forte a richiamare il termine per accusare Mancuso.
Secondo Forte, Mancuso tratteggia un'anima capace di salvarsi semplicemente tramite la buona condotta di vita, ovvero tramite l'uso della ragione, senza far riferimento alla grazia.
Per il Cristiano la grazia è fondamentale.
Gnosi è invece la pretesa di salvarsi da soli, senza l'aiuto divino.

Se così fosse il richiamo allo gnosticismo sarebbe pertinente perchè si parla di salvezza, un qualcosa in più della semplice vita "retta" (vedi filosofi antichi e tardo-antichi)...


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messagio Feb 21 2008, 09:05 PM
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CITAZIONE(Roberto Garaventa @ Feb 21 2008, 06:28 PM) *
Il problema delle teodicea nasce fra i pensatori cristiani per scagionare Dio dall'accusa di essere responsabile del male. Ovviamente, se Dio non esiste, il problema è risolto, anche se resta quello dell'antropodicea. Da dove venga il male nell'uomo è un problema a prescindere dal fatto che uno creda che Dio esista o no.
Non a caso è stato a lungo dibattuto nel Novecento non solo da filosofi (ad Arendt: banalità del male), ma nache da etologi (Lorenz: l'aggressività è innata?) e da sociologi (fromm: l'aggressività è risultato di frustrazioni psico-sociali?).
Teologi come Tillich (protestante) e Drewermann (teologo e terapeuta cattolico, cui è stata tolta l'autorità di insegnare e che adesso è uscito dalla chiesa) hanno invece puntato sul tema dell'angoscia e della paura (anche se i due termini non si equivalgono) come scaturigine della violenza umana (sparagli, Piero....).
L'uomo non è mai né totalmente libero né totalmente determinato, ma conoscere i fattori che lo condizionano è importante (per il rapporto con sé: carattere empirico di Schopenhauer; e per il rapporto con gli altri). E anche per i politici: guai a sottovalutare le paure della gente...

Se poi Dio esiste, il problema si complica. La teologia cristiana ha fatto di tutto per incolpare l'uomo (peccato originale), ma io credo che una buona dose di responsabilità ce l'abbia anche il Creatore.
Il problema è tuttavia pensare il Dio creatore... Questa cifra del divino è veramente problematica, non solo per il problema del male (unde malum?), ma anche per il problema dell'evoluzionismo (sapeva Dio dove tutto sarebbe andato a parare?)

Perché la natura ha indubbiamente una sua razionalità, ma il problema è il ruolo dell'individuo.
In fondo il problema della sofferenza è un problema degli individui, non della natura, che nella sua logica (sanguinaria, diceva Camus) non tiene conto degli individui (come diceva Leopardi).
Non è un caso che le religioni annuncino soprattutto la salvezza per i singoli (resurrezione, nuovi ciele e nuove terre, ecc.). Anche nella Bibbia prima c'è il Dio che libera il popolo di Israele dlla schiavitù d'egitto; solo successivemente si comincia a identificare questo Dio liberatore e salvatore col Dio creatore. Ma già Marcione aveva problemi col dio creatore, perché il mondo non è molto buono (dal punto di vista degli individui)...




Lei sottolinea giustamente come il problema della teodicea sia nato in ambiente cristiano e come sia, in effetti, ineludibile anche per l'ateo poichè si porrebbe il problema di un'antropodicea.

Però il tentativo di Mancuso (condivido l'intenzione e il metodo) è quello di ri-pensare una teologia che sappia effettivamente fare i conti con il nostro tempo. Per quanto riguarda il problema del male questo significa che nonostante sia innanzitutto un problema dell'individuo, deve fare necessariamente i conti con un'ontologia del tutto e nel tutto dare risposta all'individuo.

E questa risposta è importante che avvenga con l'uso della sola ragione, a prescindere dalla teodicea o antiteodica (perchè abbiamo visto anche teodicee che han fatto proprie le ragioni dell'avversario.) ---> di qui le accuse di Gnosticismo...

Come dire, il fatto che il problema sia nato in ambito cristiano sarebbe da metter da parte perchè si tratta di ragione, non di fazioni. E allora magari cominciare a ri-pensare una Teologia della natura (dice Mancuso), un'ontologia (meglio..), partendo semplicemente dalla ragione, come avveniva per Platone, Aristotele, Plotino etc. per amore del Vero e senza troppe preoccupazioni teologiche, aprendosi a tutto.

Non so se la convince questo approccio, ma a me sembra importante..






PS: Magari avrò un pregiudizio positivo su Platone, Aristotele, Plotino, ma ad esempio, un'intelligenza come quella di Tommaso, cosa avrebbe potuto produrre senza le preoccupazioni teologiche? le vedo troppo limitanti e vorrei evitare che la tradizione sia così pesante, lei non trova?

PPS: Forse la posizione più coerente è proprio quella di Leopardi: vedo l'ordine ma non lo lodo.


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messagio Feb 24 2008, 01:25 PM
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CITAZIONE(AndreaF. @ Feb 21 2008, 08:30 PM) *
Gnosi è invece la pretesa di salvarsi da soli, senza l'aiuto divino.


grazie fiamma della risposta

ma è davvero stolto pensare di potersi salvare da sè stessi
con una sorta di titanismo dell'anima che nn corrisponde all'umano!

è come se volessi entrare in casa d'altri
salendo centinaia di scale e pretendessi poi,
per il solo fatto che fiato e gambe mi hanno sorretto in tutta l'ascesa,
come se pretendessi di trovare la porta aperta!

Qualcuno DEVE VOLER aprire la porta!
Bisogna essere in due a desiderare la stessa cosa!
Come dice il detto: "Chi fa i conti senza l’oste, gli convien farli due volte”!

Perchè qualcuno vuol togliere il lavoro all'Oste?
No dai!

Uno dei brocardi del diritto romano è :Suum cuique tribuere

A ciascuno il suo, dunque wink.gif


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messagio Feb 24 2008, 01:42 PM
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CITAZIONE(Roberto Garaventa @ Feb 21 2008, 06:28 PM) *
In fondo il problema della sofferenza è un problema degli individui


penso che l'angoscia sia lo stato psicologico/chimico/fisico dello Smarrimento di sè

come essere in un Labirinto e nn sapere la via d'uscita
e nn ricordare neppure la strada di entrata
ed essere consci che nessuno ti porgerà un filo (di arianna e di speranza)

essere, da bambina, nel tunnel buio e spaventoso del luna park
e sentire che la mano del papà scivola via
e nn sentire più la sua voce

l'angoscia è nn sapere chi sei e dove vuoi andare
e sentirsi murati vivi in una personalità che nn è ancora la tua
“La personalità è la felicità più alta"
diceva Schopenhauer, come dargli torto?

è il nn appagamento
e le tossine che, secrete dal nostro corpo,
in esso ristanno e lo ammorbano

(per metabolizzare queste tossine io ho imparato a cantare e a ridere
mentre cammino inciampando verso il certo compimento di me)


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AndreaF.
messagio Feb 24 2008, 08:25 PM
Messaggio #34


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PS: Lou ci conosciamo?

In ogni caso preferisco esser chiamato per nome, Andrea è un bel nome, o no?
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Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte

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nemo
messagio Feb 24 2008, 08:59 PM
Messaggio #35





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CITAZIONE(lou @ Feb 24 2008, 01:25 PM) *
ma è davvero stolto pensare di potersi salvare da sè stessi
con una sorta di titanismo dell'anima che nn corrisponde all'umano!


Salvarsi da cosa?

dal resto del mondo?
dal peccato?
dalla morte?
dalla fine sicura?
dal nulla, che sicuramente ci avvolgerà? (per fortuna)!!!

salvarsi da cosa?
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lou
messagio Feb 24 2008, 09:03 PM
Messaggio #36


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CITAZIONE(AndreaF. @ Feb 24 2008, 08:25 PM) *
PS: Lou ci conosciamo?

In ogni caso preferisco esser chiamato per nome, Andrea è un bel nome, o no?
wink.gif



è bellissimo vuol dire uomo valoroso
è la radice di uomo

no nn ci conosciamo
ma si è parlato molto di tuo nonno in qsto forum
e sei comparso nei video di reiniku


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nemo
messagio Feb 24 2008, 09:06 PM
Messaggio #37





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angoscia, per me, è immaginare una continuazione (fiabesca) della vita dopo la morte

questo si, mi angoscia...

no, io voglio finire!!!
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Federico
messagio Apr 5 2020, 10:32 PM
Messaggio #38


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CITAZIONE(andreademilio @ Feb 19 2008, 06:52 PM) *
Roberto Garaventa

Bruno Forte contro Vito Mancuso, ovvero l’ennesimo tentativo di riabilitare il dogma del peccato originale.

Il vescovo di Chieti/Vasto, Bruno Forte, è intervenuto sull’Osservatore Romano per criticare il libro di Vito Mancuso «L'anima e il suo destino» (Raffaello Cortina), rimproverandogli «la mancanza di senso tragico, l'ottimismo ingenuo per cui il peccato originale viene considerato inconsistente». Infatti, «dal punto di vista cristiano, svalutare la potenza del male significa affidare la salvezza non alla grazia, a un dono di Dio, ma alla capacità dell'uomo di autodisciplinarsi». In questo modo Mancuso finirebbe per avvicinarsi agli gnostici, secondo i quali l'uomo è in grado di redimersi da solo. Ma ciò significherebbe rendere superflue l'incarnazione e la resurrezione di Gesù.
Soffermiamoci sul primo punto (la dottrina del peccato originale), lasciando il tema della centralità della morte e resurrezione di Gesù per la salvezza dell’uomo a un’altra volta.
Il peccato originale nella sua formulazione tradizionale, agostiniana, viene dunque riproposto come dogma imprescindibile per la concezione cristiana del mondo. Ma stanno veramente così le cose? Il peccato è veramente un’eredità che ci portiamo dietro fin dalla nascita e che ci deriva dalla caduta dei nostri progenitori? Ha senso credere ancora che Adamo ed Eva siano veramente esistiti? Non è il racconto del Genesi un mito, che ci dice verità fondamentali sull’uomo, ma non contiene alcuna notizia storica in senso stretto? Quando sarebbe avvenuta la caduta? Seimila anni fa, come pensavano ancora molti teologi medievali e moderni e come sostengono ancora adesso molti fondamentalisti protestanti americani? L’uomo non risale forse a qualche milione di anni fa? Come si concilia l’esistenza di due esseri come Adamo ed Eva con quello che le scienze ci dicono circa l’origine dell’uomo? L’uomo primitivo, preoccupato, nella sua bestiale rozzezza, di procacciarsi cibo e tenere acceso il fuoco, è forse il prodotto della cacciata dal paradiso dopo la caduta? Si può parlare ancora di Adamo ed Eva come di essere umani “uguali” a noi? Non appaiono, nel loro paradiso terrestre, nel loro status perfectionis, esseri di tutt’altra razza e specie?
Tuttavia la teologia cattolica è costretta a conservare questo dogma (per cui la colpa dei progenitori verrebbe trasmessa per eredità a tutta l’umanità), nonostante la sua evidente assurdità, per due motivi principali:
In primo luogo perché, senza il dogma del peccato originale, chi potrebbe essere imputato per la presenza del male nel mondo (lo status corruptionis) se non Dio stesso? E in realtà il dogma del peccato originale serve soprattutto per spiegare il male di fondo presente nel mondo (il male cioè di cui l’uomo non è responsabile). Se infatti non fosse possibile addossare ai primi uomini la colpa di tutte le tragedie che hanno segnato la storia dell’umanità, bisognerebbe (almeno in parte) accusare Dio per la presenza del male nel mondo. Non a caso il compito principale di ogni teodicea è da sempre quello di scagionare il Dio creatore dall’accusa di essere il responsabile ultimo dell’imperfezione e limitatezza del mondo (il «male metafisico di Leibniz) e del male fisico (malattie, catastrofi naturali, vecchiaia e morte) presente nel mondo. E la dottrina del peccato originale è una delle forme classiche di teodicea (di giustificazione di Dio) in quanto antropologizza il male, cioè lo riconduce a una colpa dell’uomo (il male come poena peccati).
In secondo luogo, tuttavia, il peccato originale è fondamentale anche perchè senza di esso perderebbe fondamento il dogma mariano dell’immacolata concezione (un dogma senza alcun fondamento biblico, ma a cui la tradizione cattolica tiene particolarmente).
Negare la “storicità” del primo peccato di Adamo ed Eva non significa tuttavia, come cerca surrettiziamente di suggerire Bruno Forte, negare il malum mundi (la presenza del male nel mondo) e i mala in mundo (i concreti mali presenti nel mondo). Il problema è che il male nel mondo esiste, ma non è il frutto del peccato dei primi uomini (che non c’è stato). Il Dio creatore è il responsabile primo e ultimo dell’esistenza dei mali nel mondo, tanto è vero che, pur avendo fatto all’atto della creazione tutte le cose “molto buone”, è stato costretto a promettere “nuovi cieli e nuove terre” (attribuendo l’imperfezione del suo operare a un intervento malvagio dell’uomo).
Certo: nell’uomo è insita una tendenza al male: lo diceva anche Kant. Ma questa tendenza al male da dove deriva? E non era forse già presente nei primi uomini? A questa domanda Agostino e la tradizione cristiana hanno cercato di rispondere ricorrendo o alla concupiscientia o alla superbia dell’uomo. Ma chi ha creato un essere dotato di concupiscientia e di superbia, se non Dio stesso? D’altra parte: molti dei mali che attanagliano l’uomo non derivano necessariamente dall’uomo, ma dalla natura in e fuori di lui? E chi è dunque responsabile di questi mali se non il creatore stesso? Non è un caso che Kant, nel cercare di spiegare la presenza nell’uomo di una “tendenza al male”, non abbia saputo far altro (dato che rifiutava la concezione agostiniana del male radicale come eredità) a imputarla all’uomo stesso. Ora, che questa “tendenza al male” debba essere imputata all’uomo stesso (come sostiene Kant), è una soluzione che non aiuta molto. Forse aiuta di più quella di Kierkegaard.
Per cercare di chiarire in che cosa consista questa tendenza o propensione al male presente costitutivamente nell’uomo, Kierkegaard è infatti ricorso all’angoscia, che è quello stato d’animo che accompagna ineludibilmente la libertà umana. L’uomo è libero (a differenza degli animali che sono istintualmente determinati), ma proprio per questo è assalito dall’angoscia. Ed è l’angoscia che lo fa sbagliare, peccare, che lo induce a scegliere il finito piuttosto che l’infinito, perché è più facile cercare sicurezze nelle cose nell’aldiquà che in quelle dell’aldilà. La colpa (il peccato) è il risultato quindi di una libera scelta dell’uomo, ma questa scelta è, proprio perché libera, imbrigliata dall’angoscia. Il peccato originale (o ereditario) è, invece, solo l’insieme delle colpe che ci provengono dalla nostra storia e che gravano quantitativamente sulle nostre spalle; ma questa eredità di peccato che ci portiamo dietro fin dalla nostra fanciullezza non toglie la nostra libertà: non a caso colui che nasce in un quartiere mafioso o camorristico, non deve per questo diventare necessariamente un mafioso o un camorrista, ma resta libero di scegliere una vita diversa rispetto a quella cui lo spingerebbe l’atmosfera che regna nel suo quartiere o rione.
Per spiegare il male presente nel mondo, non serve dunque riproporre un dogma come quello del peccato originale, che è il frutto di un’interpretazione errata di Agostino di un celebre passo della Lettera ai Romani di Paolo, o magari richiamare la figura mitica di satana, il tentatore. E’ sufficiente richiamare la responsabilità di Dio (al momento della creazione) e l’angoscia dell’uomo (nel momento in cui è chiamato a fare delle scelte). L’angoscia che attanaglia l’uomo al momento di fare delle scelte non elimina ovviamente la sua responsabilità; ma anche Dio resta responsabile, per parte sua, del modo in cui ha creato il mondo e ha fatto l’uomo.


Ciao a tutti, mi chiamo Federico. è la prima volta che commento in questo forum. Vorrei condividere due pensieri riguardo a questa interessantissima riflessione trattante la questione del peccato originale. in realtà è la seconda parte che ha destato maggiormente la mia attenzione, se non altro perché condivido totalmente la prima. Espongo il mio pensiero in due punti per maggior chiarezza (spero):

1. ipotizzo (per l'appunto è solo un'ipotesi) che non esista in realtà una differenza ontologica tra uomini e animali, o meglio, questa esiste ma solo come categoria mentale umana utile per razionalizzare il mondo che ci circonda. Non credo che vi sia una differenza ontologica perché secondo me non è corretto vedere l'uomo contrapposto all'animale, come se non sapessimo che siamo animali. certo siamo diversi dalle bestie, ma ciò non giustifica credere che vi sia una differenza incolmabile tra noi e loro. in un qualche modo, una bestia è un uomo in potenza. i motivi che ci spingono a differenziarci dagli altri animali sono tanti, ma due tra i più importanti sono sicuramente la coscienza e la libertà. riguardo a quest'ultima spiegherò meglio nel secondo punto ma già qui posso dire che, a mio modesto parere, essere liberi è la logica conseguenza dell'essere intelligenti, o meglio, è esattamente una delle forme in cui l'intelligenza si mostra. La coscienza pure. Certo non si può banalizzare un concetto tanto profondo, ma pare sensato ipotizzare che ciò su cui si fonda la coscienza sia in fondo in fondo, la memoria e questa è certamente una forma di intelligenza. Certo non basta la sola memoria, perché se no i pc sarebbero già molto più coscienti di noi. la morale è che andrei cauto nel definirci liberi solo perché non condizionati dagli istinti. utilizzando una metafora, vedo la libertà umana come una bandiera che sventola nel vento. certo, siamo coscienti mentre la bandiera non lo è, però come lei, siamo continuamente mossi dal vento e contemporaneamente ben radicati a terra grazie all'asta sulla quale siamo issati (fuor di metafora, la corporeità nella sua accezione più vasta).

2. riporto a memoria una frase che penso sia di Krishnamurti: noi siamo schiavi proprio perché siamo liberi. A mio modesto parere questo è un punto importante della questione, che ovviamente è difficile tra trattare in breve. Noi partiamo quasi sempre dal presupposto che essere liberi sia un bene, ma in fondo la libertà non è ciò che prova la complessità del mondo (comprendendo anche il nostro io, difatti Nietzsche parlava di diventare ciò che si è) nel quale viviamo e i limiti della nostra intelligenza? in breve, non siamo forse liberi perché profondamente ignoranti? per spiegarmi meglio provo ad usare un esempio: la libertà la si immagina comunemente come un uomo capace di scegliere quale strada prendere al bivio che gli si palesa innanzi. Ma se invece immaginassimo la libertà in un'altra maniera? Se un uomo venisse rapito, nascosto dentro un sacco e portato alle pendici dell'himalaya per essere li liberato, dandogli poche provviste e una mappa incompleta, questi non avrebbe diritto ad incazzarsi con il rapitore? davvero sarebbe tanto felice di essere libero, ossia sperduto in un mondo di cui ignora le fattezze? concludendo con un'altra metafora: a noi pare di essere liberi perché siamo ancora lontani dalla vetta della verità (sempreché questa verità esista e sia raggiungibile), come se per arrivare alle pendici dell'himalaya fossimo partiti a piedi dall'Italia. Da così lontano, per forza ci sono un'infinità di strade da poter prendere per arrivare la. Ma man mano che ci avviciniamo (magari incontrando altri viaggiatori lungo la strada, venuti da chissà dove) alla meta, le strade diminuiscono. Infine, arrivati vicini alla vetta, le strade si possono contare sulle dita di una mano o addirittura su un sol dito. Arrivati a questo punto, davvero possiamo parlare di libertà? forse l'unica vera libertà che ci resta è se proseguire o fermarci e fare dietro front.
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