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> Il male: colpa di Dio o dell'uomo?, Un articolo di Roberto Garaventa
andreademilio
messagio Feb 19 2008, 06:52 PM
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Roberto Garaventa

Bruno Forte contro Vito Mancuso, ovvero l’ennesimo tentativo di riabilitare il dogma del peccato originale.

Il vescovo di Chieti/Vasto, Bruno Forte, è intervenuto sull’Osservatore Romano per criticare il libro di Vito Mancuso «L'anima e il suo destino» (Raffaello Cortina), rimproverandogli «la mancanza di senso tragico, l'ottimismo ingenuo per cui il peccato originale viene considerato inconsistente». Infatti, «dal punto di vista cristiano, svalutare la potenza del male significa affidare la salvezza non alla grazia, a un dono di Dio, ma alla capacità dell'uomo di autodisciplinarsi». In questo modo Mancuso finirebbe per avvicinarsi agli gnostici, secondo i quali l'uomo è in grado di redimersi da solo. Ma ciò significherebbe rendere superflue l'incarnazione e la resurrezione di Gesù.
Soffermiamoci sul primo punto (la dottrina del peccato originale), lasciando il tema della centralità della morte e resurrezione di Gesù per la salvezza dell’uomo a un’altra volta.
Il peccato originale nella sua formulazione tradizionale, agostiniana, viene dunque riproposto come dogma imprescindibile per la concezione cristiana del mondo. Ma stanno veramente così le cose? Il peccato è veramente un’eredità che ci portiamo dietro fin dalla nascita e che ci deriva dalla caduta dei nostri progenitori? Ha senso credere ancora che Adamo ed Eva siano veramente esistiti? Non è il racconto del Genesi un mito, che ci dice verità fondamentali sull’uomo, ma non contiene alcuna notizia storica in senso stretto? Quando sarebbe avvenuta la caduta? Seimila anni fa, come pensavano ancora molti teologi medievali e moderni e come sostengono ancora adesso molti fondamentalisti protestanti americani? L’uomo non risale forse a qualche milione di anni fa? Come si concilia l’esistenza di due esseri come Adamo ed Eva con quello che le scienze ci dicono circa l’origine dell’uomo? L’uomo primitivo, preoccupato, nella sua bestiale rozzezza, di procacciarsi cibo e tenere acceso il fuoco, è forse il prodotto della cacciata dal paradiso dopo la caduta? Si può parlare ancora di Adamo ed Eva come di essere umani “uguali” a noi? Non appaiono, nel loro paradiso terrestre, nel loro status perfectionis, esseri di tutt’altra razza e specie?
Tuttavia la teologia cattolica è costretta a conservare questo dogma (per cui la colpa dei progenitori verrebbe trasmessa per eredità a tutta l’umanità), nonostante la sua evidente assurdità, per due motivi principali:
In primo luogo perché, senza il dogma del peccato originale, chi potrebbe essere imputato per la presenza del male nel mondo (lo status corruptionis) se non Dio stesso? E in realtà il dogma del peccato originale serve soprattutto per spiegare il male di fondo presente nel mondo (il male cioè di cui l’uomo non è responsabile). Se infatti non fosse possibile addossare ai primi uomini la colpa di tutte le tragedie che hanno segnato la storia dell’umanità, bisognerebbe (almeno in parte) accusare Dio per la presenza del male nel mondo. Non a caso il compito principale di ogni teodicea è da sempre quello di scagionare il Dio creatore dall’accusa di essere il responsabile ultimo dell’imperfezione e limitatezza del mondo (il «male metafisico di Leibniz) e del male fisico (malattie, catastrofi naturali, vecchiaia e morte) presente nel mondo. E la dottrina del peccato originale è una delle forme classiche di teodicea (di giustificazione di Dio) in quanto antropologizza il male, cioè lo riconduce a una colpa dell’uomo (il male come poena peccati).
In secondo luogo, tuttavia, il peccato originale è fondamentale anche perchè senza di esso perderebbe fondamento il dogma mariano dell’immacolata concezione (un dogma senza alcun fondamento biblico, ma a cui la tradizione cattolica tiene particolarmente).
Negare la “storicità” del primo peccato di Adamo ed Eva non significa tuttavia, come cerca surrettiziamente di suggerire Bruno Forte, negare il malum mundi (la presenza del male nel mondo) e i mala in mundo (i concreti mali presenti nel mondo). Il problema è che il male nel mondo esiste, ma non è il frutto del peccato dei primi uomini (che non c’è stato). Il Dio creatore è il responsabile primo e ultimo dell’esistenza dei mali nel mondo, tanto è vero che, pur avendo fatto all’atto della creazione tutte le cose “molto buone”, è stato costretto a promettere “nuovi cieli e nuove terre” (attribuendo l’imperfezione del suo operare a un intervento malvagio dell’uomo).
Certo: nell’uomo è insita una tendenza al male: lo diceva anche Kant. Ma questa tendenza al male da dove deriva? E non era forse già presente nei primi uomini? A questa domanda Agostino e la tradizione cristiana hanno cercato di rispondere ricorrendo o alla concupiscientia o alla superbia dell’uomo. Ma chi ha creato un essere dotato di concupiscientia e di superbia, se non Dio stesso? D’altra parte: molti dei mali che attanagliano l’uomo non derivano necessariamente dall’uomo, ma dalla natura in e fuori di lui? E chi è dunque responsabile di questi mali se non il creatore stesso? Non è un caso che Kant, nel cercare di spiegare la presenza nell’uomo di una “tendenza al male”, non abbia saputo far altro (dato che rifiutava la concezione agostiniana del male radicale come eredità) a imputarla all’uomo stesso. Ora, che questa “tendenza al male” debba essere imputata all’uomo stesso (come sostiene Kant), è una soluzione che non aiuta molto. Forse aiuta di più quella di Kierkegaard.
Per cercare di chiarire in che cosa consista questa tendenza o propensione al male presente costitutivamente nell’uomo, Kierkegaard è infatti ricorso all’angoscia, che è quello stato d’animo che accompagna ineludibilmente la libertà umana. L’uomo è libero (a differenza degli animali che sono istintualmente determinati), ma proprio per questo è assalito dall’angoscia. Ed è l’angoscia che lo fa sbagliare, peccare, che lo induce a scegliere il finito piuttosto che l’infinito, perché è più facile cercare sicurezze nelle cose nell’aldiquà che in quelle dell’aldilà. La colpa (il peccato) è il risultato quindi di una libera scelta dell’uomo, ma questa scelta è, proprio perché libera, imbrigliata dall’angoscia. Il peccato originale (o ereditario) è, invece, solo l’insieme delle colpe che ci provengono dalla nostra storia e che gravano quantitativamente sulle nostre spalle; ma questa eredità di peccato che ci portiamo dietro fin dalla nostra fanciullezza non toglie la nostra libertà: non a caso colui che nasce in un quartiere mafioso o camorristico, non deve per questo diventare necessariamente un mafioso o un camorrista, ma resta libero di scegliere una vita diversa rispetto a quella cui lo spingerebbe l’atmosfera che regna nel suo quartiere o rione.
Per spiegare il male presente nel mondo, non serve dunque riproporre un dogma come quello del peccato originale, che è il frutto di un’interpretazione errata di Agostino di un celebre passo della Lettera ai Romani di Paolo, o magari richiamare la figura mitica di satana, il tentatore. E’ sufficiente richiamare la responsabilità di Dio (al momento della creazione) e l’angoscia dell’uomo (nel momento in cui è chiamato a fare delle scelte). L’angoscia che attanaglia l’uomo al momento di fare delle scelte non elimina ovviamente la sua responsabilità; ma anche Dio resta responsabile, per parte sua, del modo in cui ha creato il mondo e ha fatto l’uomo.


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andreademilio
messagio Feb 21 2008, 12:06 AM
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L'intervento di Bruno Forte sul libro di Vito Mancuso

Chi salva l’anima?
Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio
(L'Osservatore Romano - 2 febbraio 2008)

Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto

"Salvarsi l'anima". Questa espressione antica ha nel linguaggio della fede un senso che appare messo radicalmente in questione dal libro di Vito Mancuso, L'anima e il suo destino (Milano 2007). Il volume ha suscitato un dibattito vivace, aperto dalla stessa lettera del cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata in apertura, che - pur con grande tatto - parla con chiarezza di "parecchie discordanze (...) su diversi punti". L'autore si era fatto conoscere e apprezzare sin dalla sua opera prima, dal titolo suggestivo ed emblematico: Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del "Principe di questo mondo" (Casale Monferrato, Piemme, 1996). Libro significativo, questo, attraversato da una lucida critica al monismo hegeliano dello Spirito e da una drammaticità, che contra Hegel ribadisce l'inesorabile sfida del male che devasta la terra, precisamente nel suo volto diabolico e insondabile. Anche altri saggi di Mancuso mantengono viva questa tensione, che si condensa in pagine profonde lì dove egli tocca il mistero del dolore innocente o scandaglia le profondità sananti dell'amore. Anche a motivo di queste premesse, il libro sull'anima ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati.
La prima obiezione riguarda la potenza del male e del peccato: Mancuso non esita ad affermare che il peccato originale sarebbe "un'offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina" (167). È vero che l'intento dichiarato dall'autore non è di "distruggere la tradizione", ma di "rifondarla" (168), cercando di tenere insieme "la bontà della creazione e la necessità della redenzione": in quest'ottica, il peccato originale non sarebbe altro che "la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un'oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla" (170). La spiegazione non convince: dove va a finire in essa il dramma del male, la potenza del peccato? Kant ha affermato con ben altro rigore la serietà del male radicale: "La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, "di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia" (Romani, 6, 17-18). Nondimeno, l'uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta" (Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, Milano 2001, 111). Come ha osservato Karl Barth, "quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (...) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale" (La teologia protestante nel XIX secolo, Milano 1979, 338). Vanificare il peccato originale e la sua forza attiva nella creatura vuol dire banalizzare la stessa condizione umana e la lotta col Principe di questo mondo, che proprio Mancuso aveva rivendicato contro l'ottimismo idealistico di Hegel.
La conseguenza di queste premesse è la dissoluzione della soteriologia cristiana: se non si dà il male radicale, e dunque il peccato originale e la sua forza devastante, su cui appoggia la sua azione il grande Avversario, la salvezza si risolve in un tranquillo esercizio di vita morale, che non vive più di alcuna tensione agonica e non ha bisogno di alcun soccorso dall'alto: "salvarsi l'anima" non sarebbe né più né meno che una sorta di autoredenzione. "La salvezza dell'anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo" - "La salvezza dell'anima non dipende dall'adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo" (311). La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, "non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare" (312). Mi chiedo come siano conciliabili queste affermazioni con quanto dice Paolo: "Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede" (Prima Corinzi, 15, 14). La confessione della morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è l'articulum stantis aut cadentis fidei Christianae! Vanificata la soteriologia, ne consegue anche lo svuotamento del dramma della libertà e la negazione della possibilità stessa della condanna eterna: l'Inferno sarebbe un "concetto (...) teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile" (312). Convinzione della fede cattolica è al contrario che senza l'Inferno l'amore stesso di Dio risulterebbe inconsistente, perché non si darebbe alcuna possibilità di una libera risposta della creatura. "Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te": il giudizio di Agostino richiama la responsabilità di ciascuno di fronte al suo destino eterno.
L'insieme di queste tesi si rifà a un'opzione profonda, che emerge da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una "gnosi" di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti. "Io penso - afferma l'autore - che l'esercizio della ragione sia l'unica condizione perché il discorso su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità" (315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura capax Dei? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che il lumen rationis escluda il bisogno del lumen fidei? Cristo sarebbe venuto invano? E la fragilità del pensare e dell'agire umano sarebbe inganno, perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata? Ben altro dice la testimonianza di Paolo, alla quale non può non attenersi una teologia, che voglia dirsi cristiana, preferendola a ogni illusoria apoteosi della ragione prigioniera di sé: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano" (Galati, 2, 20-22). Dalla legge, da qualunque legge di autoredenzione, la salvezza non viene. Senza il dono dall'alto, nessuna salvezza è veramente possibile. Sta qui la verità della fede, il suo scandalo: proprio così, la sua potenza di liberazione, la sua offerta della via unica e vera per "salvarsi l'anima". Pensare diversamente, non è teologia cristiana: è "gnosi", pretesa di salvarsi da sé.''


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