Tento (con fatica) di riaprire qualche questione importante.
Probabilmente questi due sono i due filosofi più importanti, o comunque influenti, degli ultimi 150 anni, e nelle similitudini e differenze fra questi due si sono articolati molti dei pensieri originali del novecento (lasciando stare i neokantismi e gli analitici...). Dato che oltretutto Heidegger è l'unico pensatore che abbia seriamente inquadrato nietzsche, pensandolo profondamente e capendolo anche con spirito critico (anche con troppo spirito critico) è indubbiamente cruciale analizzare il confronto fra questi due.
Continuo con un parere personale, elaborato solo dalla lettura dei due e di altri filosofi che bazzicano questo genere di pensieri (Vattimo, Deleuze, ecc...) e che è per cui del tutto aperto e suscettibile di errori.
Mi pare che Heidegger parta subito con un forte distacco da Nietzsche, con una vera e propria ossessione di neutralizzarlo, di renderlo aproblematico accorpandolo alla "storia della metafisica". Sicuramente in questo gli viene in aiuto tutta la componente "positivista" che porta nietzsche dalla lettura di schopenhauer allo zarathustra, e soprattutto l'elaborazione del pensiero "tutto è volontà di potenza e niente altro" o più in genere l'enfasi per la "vita" come metro ultimo del porre valori.
Ma nell'ultimo nietzsche (parte dello zarathustra, ecce homo e i ditirambi dioniso) la questione della morale, del rovesciamento del platonismo ecc... passa decisamente in secondo piano a poco a poco, tanto che il superuomo che emerge non può essere più ricondotto soltanto alla "metafisica dei valori" (come heidegger chiama la filosofia di nietzsche). Una parte fondamentale è giocata dalla questione del soggetto che si tramuta in maschera. Tutta l'analisi della metafisica di Heidegger si basa fortemente sull'idea che un soggetto (teso da un'equivalente della volontà di potenza che varia tanti nomi) si appropri dell'ente, e Nietzsche porta così all'estremo quest'idea da distruggere del tutto il rimasuglio sistemico di soggetto/oggetto e con questo è del tutto inassimilabile alla domanda guida "che cosa è l'ente". Certo non ci sarà mai in Nietzsche la differenza ontologica, ma di fatto c'è l'intuizione di quel percorso incerto in un fondamento più radicale di tutte le parole della tradizione di fissazione dell'ente.
A riguardo si può prendere proprio un pezzo dai Contributi alla filosofia (dall'evento), di Heidegger:
<<Un possibile, anzi il possibile in generale, si apre solo al tentativo. Il tentativo deve essere permetato da una volontà anticipatrice. La volontà, inquanto porsi oltre se stessi sta in un essere oltre-di-sé. Questo stato è l'originaria concessione del gioco dello spazio-tempo in cui viene a ergersi l'Essere: l'esser-ci. Esso è essenzialmente come azzardo (Wagnis). E solo nell'azzardo l'uomo raggiunge l'ambito della de-cisione. E solo nell'azzardo egli è in grado di ponderare. Il fatto che l'essere sia e non diventi perciò un ente si esprime nella maniera più netta in quanto segue: l'Essere è possibilità, ciò che non è mai lì presente, eppure, nel rifiuto mediante l'evento-appropriazione, sempre concede e nega.>>
Ora senza entrare in questioni di ontologia fondamentale o di parole heideggeriane mi pare che questo passo trasudi del miglior nietzsche, cioè del nietzsche che realmente non si cura più delle genealogie morali e degli anticristi. Che poi al posto della volontà di volontà, del volere oltre se stessi, si usi la parola "Da-sein" o che si legga l'azzardo come essenziale velarsi dell'essere anzichè come falsità insita nella maschera... non vedo differenze così importanti. Addirittura azzardo da Ruhm und Ewigkeit:
<<Höchstes Gestirn des Seins!
Ewiger Bildwerke Tafel!
Du kommst zu mir? -
Was Keiner erschaut hat,
deine stumme Schönheit, -
wie? sie flieht vor meinen Blicken nicht?
[...]
Höchstes Gestirn des Seins!
- das kein Wunsch erreicht,
das kein Nein befleckt,
ewiges Ja des Sein's,
ewig bin ich dein Ja:
denn ich liebe dich, oh Ewigkeit! - ->>
<<Supremo astro dell’essere!
Tavola di eterne immagini!
Tu vieni a me? –
Ciò che nessuno ha scorto,
la tua muta bellezza, -
come? non fugge essa dinanzi ai miei sguardi?
[...]
Supremo astro dell’essere!
- che nessun desiderio raggiunge,
che nessuno imbratta,
eterno si dell’essere,
eternamente sono io il tuo si:
perché io ti amo, oh eternità! –>>
PS: aggiungo per completare il discorsetto che non c'è divergenza fra i due per quanto riguarda necessità/possibilità, infatti entrambe convergono nella locuzione che si trova in heidegger di "necessità dell'assenza di necessità" che traduce la possibilità in una necessità (negativa). Anche la necessità che appartiene al superuomo è di questo stampo, cioè una possibilità (potenza) necessitata nell'eterno ritorno e nell'Amor Fati. Deleuze riprende la cosa con la bella immagine del lancio dei dadi, ed eventualmente si può tirare dentro nel discorso anche il celebre detto di Eraclito sull'Aion regno di un fanciullo che gioca come elemento di transizione e contatto.
Continuo il monologo!
Una voce importante per sottrare Nietzsche all'interpretazione acuta e critica di Heidegger è senza dubbio quella di Deleuze (che certamente porta a compimento discorsi già avviati da altri francesi come Klossowski, Bataille, Blanchot, Foucault ecc...). Nella prima appendice della Logica del Senso c'è una trattazione molto esplicita in questi termini, tanto che si intitola proprio "rovesciare il platonismo", frase con cui Nietzsche stesso definì la propria filosofia e che Heidegger usò proprio nel suo Nietzsche, per concludere che in fondo nel ribaltamento non si era cambiata l'essenza della metafisica ma si erano solo invertite le priorità (apparenza-verità).
Lascio la parola a Deleuze stesso:
<<Consideriamo le due formule: "soltanto ciò che somiglia differisce", "soltanto le differenze si somigliano". Si tratta di due letture del mondo nella misura in cui una ci invita a pensare la differenza a partire da una similitudine o da una identità preliminari, mentre l'altra, al contrario, ci invita a pensare la similitudine e anche l'identità come prodotto di una disparità di fondo. La prima definisce esattamente il mondo delle copie o delle rappresentazioni: essa pone il mondo come icona. La seconda, contro la prima, definisce il mondo dei simulacri. Pone il mondo stesso come fantasma.[...]
Rovesciare il platonismo significa allora: far risalire i simulacri, affermare i loro diritti tra le icone o le copie. Il problema non riguarda più la distinzione Essenza-apparenza o Modello-copia. Tale distinzione nel suo insieme opera nel mondo della rappresentazione; si tratta di mettere il sovvertimento in tale mondo, "crepuscolo degli idoli". Il simulacro non è una copia degradata, esso racchiude una potenza positiva che nega sia l'originale sia la copia, sia il modello sia la riproduzione.[...]
Nel rovesciamento del platonismo somiglianza appunto si dice della differenza interiorizzata e l'identità si dice del Differente come potenza prima. Il medesimo e il simile hanno la loro stessa essenza ormai solo nell'essere simulati, cioè nell'esprimere il funzionamento del simulacro.[...]
Che il medesimo e il simile siano simulati non significa che siano apparenze o illusioni. La simulazione designa la potenza di produrre un effetto. Ma non è soltanto nel senso causale, poichè la causalità rimarrebbe del tutto ipotetica e indeterminata senza l'intervento di altre significazioni. E' nel senso di "segno", sorto da un processo di segnalizzazione; ed è nel senso di "costume", o meglio di maschera, esprimente un processo di travestimento in cui, dietro ad ciascuna maschera, un altra maschera... La simulazione così intesa non è separabile dall'eterno ritorno; nell'eterno ritorno infatti si decidono il rovesciamento delle icone o il sovvertimento del mondo rappresentativo. Qui tutto avviene come se un contenuto latente si opponesse ad un contenuto manifesto. Il contenuto manifesto dell'eterno ritorno può essere determinato conformemente al platonismo in generale: rappresenta allora la maniera in cui il caos è organizzato sotto l'azione del demiurgo, sul modello dell'Idea che impone ad esso il medesimo e il simile. In questo senso l'eterno ritorno è il divenire-folle padroneggiato, monocentrato, determinato a copiare l'eterno. Tale appare nel mito fondatore; esso instaura la copia nell'immagine, subordina l'immagine alla somiglianza. Ma, lungi dal rappresentare la verità dell'eterno ritorno, questo contenuto manifesto ne segna piuttosto l'utilizzazione e la sopravvivenza mitiche in una ideologia che non lo sopporta più e che ne ha perduto il segreto. [...] Inoltre, l'esposizione manifesta esiste soltanto per essere confutata seccamente da Zarathustra: una volta al nano, un'altra volta ai suoi animali Zarathustra rimprovera di trasformare in piattezza ciò che è tanto profondo, in "ritornello" ciò che è musica affatto diversa, in semplicità circolare ciò che è tanto tortuoso.[...]
Appunto perchè fra l'eterno ritorno e il simulacro, vi è un legame tanto profondo che l'uno non può essere compreso senza l'altro. Sono le serie divergenti, in quanto divergenti, che ritornano, cioè ciascuna in quanto sposta la propria differenza con tutte le altre, e tutte in quanto complicano la loro differenza nel caos senza inizio né fine. Il cerchio dell'eterno ritorno è un cerchio sempre eccentrico per un centro sempre decentrato. [...] E' potenza di affermare la divergenza e il dicentramento, ne fa l'oggetto di un'affermazione superiore. Nella potenza del falso pretendente fa appunto percorrere e ripercorrere ciò che è. Così non fa ritornare tutto; è selettivo ancora, fa la differenza, ma per nulla alla maniera di Platone. Ciò che esso seleziona sono tutti i procedimenti che si oppongono alla selezione. Ciò che esso esclude e non fa tornare è ciò che presuppone il Medesimo e il Simile, ciò che pretende di correggere la divergenza, di ricentrare i cerchi o ordinare il caos, di dare un modello e fare una copia.>>
Anche in Differenza e Ripetizione tutto il discorso è portato avanti sostanzialmente in questi termini: la differenza come elemento ontologicamente primo, la ripetizione come ripetizione della differenza (ruota decentrata, distribuzione nomade, anarchia incoronata e via dicendo). Penso che il testo che ho messo parli da sè, in ogni caso posso tirare le fila rapidamente.
Quanto Heidegger sosteneva, accorpando Nietzsche alla storia della metafisica nel considerare il suo l'estremo tentativo di soggiogare l'ente (anche nel suo divenire-folle e nella sua falsità) e di creare la massima certezza (cartesiana) nell'incertezza nichilistica, è qui di fatto confutato. Non sono stati solo ribaltati Modello e Copia, facendo valere le copie (ad esempio le apparenze e l'arte) più del modello (la verità, l'idea), ma soprattutto si è demolito il sistema platonico e metafisico stesso dei valori in generale, che è quello della morale e della teologia. La filosofia di Nietzsche non è metafisica dei valori, perchè il superuomo non valuta più ma trans-valuta. La differenza gioca qui il ruolo fondamentale, ontologicamente fondativo, anche se ovviamente in un senso parzialmente diverso dalla "differenza ontologica" di Heidegger. Ecco perchè la volontà di potenza è anche la fine del soggetto metafisico: del punto di vista sulla città sempre medesima, compossibile, cerchio concentrico e convergenza delle serie, umano troppo umano (prospettivismo falso, scientifico, leibniziano). Qui si apre veramente la forza dionisiaca di novità filosofica che è Nietzsche, nello spazio delle serie divergenti che risuonano, delle incompossibilità del prospettivismo/relativismo/nichilsimo più genuino, quello "attivo", quello che accetta e afferma la differenza che è la risonanza stessa di queste delle divergenze, qui nella superficie, dove non c'è più modo, nè qualità, nè quantità, dove non v'è insomma più rappresentazione.
Ho letto questi tuoi monologhi interessantissimi sgubonius. (mi ci vuole tempo per poter formulare riflessioni a riguardo^^)
però ho apprezzato tantissimo il finale dove dici:
"Qui si apre veramente la forza dionisiaca di novità filosofica che è Nietzsche, nello spazio delle serie divergenti che risuonano"
mi ha catturato il verbo che hai utilizzato: risuonare che richiama l'esigenza tracciata Nietzsche di (ri)tornare ad un ascolto visivo in ambito filosofico - conoscitivo.
Pur apprezzando molto le letture di Deleuze, sulla differenza ho sempre trovato alcuni dubbi.
La "canzone da organetto", non è infatti riferita al ritorno della copia, ma semplicemente al non prendere troppo alla leggera l'eterno ritorno come un banale "tutto torna"; però questo è nel senso specifico di valutare bene il peso che tale pensiero comporta. La conclusione di Deleuze è una delle possibili conseguenze speculative del discorso nietzscheano, ma non l'unica.
Infatti, in N, l'eterno ritorno, sembra prendere forza proprio dall'idea della piattezza che la ripetizione porterebbe, ed è in questa che risiede la chiave per superarla.
Certo, non dovendo più esistere un 'soggetto', anche la redenzione del passato, non si inserirebbe più nell'ottica di un passato 'personale', e in questo senso la selettività non si riferirebbe alla singola vita, ma al continuo differire della vdp e del superuomo che in essa si è identificato; così scomparirebbe anche l'ultimo residuo di metafisica: la copia [questo è quanto ho capito io dai testi che ho letto; il problema è che Deleuze stesso è interpretabile...].
Però N non è stato così esplicito su questo punto, almeno quanto lo è stato sul problema del peso da attribuire all'e.r.
Voglio dire, leggendo N, la cosa più immediata da pensare, è proprio il non senso di un ritorno dell'identico, la problematica nichilistica spinta più a fondo. E' proprio il peso più grande del ritorno, che toglie ogni residuo metafisico in N, in quanto il ritorno è soffocante, non sopportabile per l'uomo, ed è la cosa più priva di senso che si possa pensare. Inoltre esso, mostrando il 'mondo' inglobato sempre nel medesimo nodo di cause, porta chiaramente in luce quanto sia un concetto che basti a se stesso, non ha bisogno di introdurre altre problematiche o cause.
Non so se l'eliminazione della "copia" risolva davvero il problema della metafisica, perché priva l'e.r. del terribile peso che lo caratterizza.
Per favore, se non ho capito niente di Deleuze in tutti questi anni rispiegatemi tutto!!!
Una citazione da "La scrittura e la differenza" di Jacques Derrida:
<<E' questo che permette allora a quei distruttori di distruggersi reciprocamente, per esempio a Heidegger di considerare Nietzsche, con lucidità e rigore pari alla malafede e all'incomprensione, come l'ultimo metafisico, l'ultimo "platonico".>>
Anche Derrida, grande lettore di Heidegger (e di Nietzsche) riconosce una certa malafede nella lettura che l'uno fa dell'altro. Soprattutto forzatamente allo scopo di ridurlo all'ennesimo ed ultimo metafisico. La lettura di Deleuze (sostanzialmente in linea con quella di Derrida, entrambi peraltro filtrati dall'idea heideggeriana del silenzio dell'essere e della differenza ontologica) è uno dei pochi metodi speculativi che sottraggano Nietzsche dal destino metafisico che Heidegger con "lucidità e rigore" ha evidenziato e che, inutile negarlo, fa parte di molte espressioni del suo pensiero (che è ambiguo).
Innanzi tutto vorrei scusarmi per questo lungo periodo di assenza. Purtroppo ho avuto diversi impegni e soprattutto gravi problemi familiari che mi hanno visto oberata di lavoro - anche domestico - fino ad ora.
Vediamo di riprendere un pò le fila del discorso.
Premetto che del Nietzsche ho studiato solo alcune parti, perché poi l'ho acquistato su internet ad un ottimo prezzo, restituendo quello che avevo in prestito, ma ancora non mi è arrivato.
Purtroppo anche io sono solo suggestionato da letture ancora un po' sparse e proprio sul problema del soggetto in Deleuze non posso dire di avere le idee chiare, ho aperto almeno 4 topic che girano intorno a sto problema (immanenza-trascendenza, questo, quello del soggetto e la volontà di potenza e quello sull'apollineo) !!!
Evidentemente il chi/cosa dovrebbero essere proprio le singolarità preindividuali, apersonali di cui parla Deleuze. Ora qua siamo nella speculazione più totale. Se partiamo dall'idea che l'io pensante sia il risultato di forze/intensità di vario genere che si concatenano a creare un mondo (il mondo appunto a cui l'io si apre, c'è anche in Heidegger questa idea anche se lui parla di "esserci" anzichè di io). In questo frangente è molto utile il concetto di monade di Leibniz. Se immaginiano un sistema di monadi abbiamo forse un idea delle singolarità gettate da "eventi problematici" che sono alla base del "senso" (della logica del senso). Le singolarità sono pieghe/monadi, cioè punti notevoli (nel senso matematico proprio), differenziali (il punto di un angolo per esempio porta con sè all'infinitesimale un rapporto differenziale che è l'angolo stesso, oppure il punto di ebollizione dell'acqua), ovvero in termini brutali le cose che ci permettono di entrare in percezione con un mondo che compongono.
C'è allora in qualche modo un inconscio che si struttura come un linguaggio (per tornare a Lacan) alla ricerca di un senso che permetta di creare una differenza fra parlare e mangiare, fra cose e proposizioni, e questo senso è possibile solo alla superificie (cioè fra cose e proposizioni appunto) in relazione ad un problema/evento che conferisca "senso" alle possiibli soluzioni che sono le singolarità (per esempio il problema delle coniche che genera varie possibilità: parabola, iperbole, retta, cerchio, ellisse).
Ora nel gioco ideale deleuziano ci sarebbe un lancio di dadi ontologicamente unico che riaffermasse ogni volta tutto il caso, cioè tutte le singolarità del incompossibili di un certo problema (che resta così giustamente irrisolto), perchè nell'evento non effettuato (nel problema non risolto) possono coesistere tutte le potenzialità. Una sintesi disgiuntiva che quindi afferma la Differenza e il nomadismo del non-senso (che è l'altra faccia del senso e si oppone con esso all'assenza di senso) che rimette sempre in discussione, in divenire folle, ogni linguaggio e ogni struttura, perchè c'è sempre un significante di troppo, tutto è sempre irrisolto.
Tirando le somme Deleuze parla proprio in relazione all'univocità dell'essere (lancio unico) di un Evento unico in cui gli altri comunicano, cioè un problema dei problemi, un paradosso fondamentale. Questo paradosso è l'essere e il pensiero dell'essere, cioè quanto origina tutto il resto, quanto distribuisce in continuazione tutte le singolarità (e sempre in modo diverso diveniente).
Non sono stato molto chiaro, la cosa è evidentemente complessa. Ma penso che l'eterno ritorno sia allora un ritorno del problematico che è alla base della vita insomma, "dell'essere come evento" e quindi del "problema dell'essere". Esso diventa allora come indicava Nietzsche davvero il suggello dell'affermazione del fato come problema irrisolto, cioè della vita, cioè della differanza. Ritorno allora del differente, cioè di colui che ha incrinato il suo cogito unitario nella contraddizione degli io possibili, cioè delle differenti soluzioni (incompossibili fra loro se effettuate, ma compossibili nell'evento-problema). La potenza della VdP non può che essere questo, tutt'altro che il dominio metafisico segnalato da H. nella sua interpretazione in malafede, ma il differire e la differenza, il problematico irrisolto affermato, il campo delle possibilità, del "cosa può un corpo" spinoziano. L'io metafisico è troppo rigido per poter danzare nella "contro-effettuazione" (cioè vivere nella virtualità dell'evento) multipla e nomade, cercherà sempre di riaffermare la sua soluzione ed effettuazione, di stabilirsi e crescere nei cerchi concentrici hegeliani, e allora perfino il ritorno sarà un ritorno dello stesso che eternizza questo punto centrale e certificatore del cogito che sono io.
Cerco di rispondere in ordine inverso ad entrambi (bentornati!).
Ricordo questa interessante distinzione Joseph già dall'altro topic, in effetti come allora non si può far altro che ammettere la sostanziale trasformazione che i concetti nietzschiani subiscono in Deleuze (come succede per tutti gli altri filosofi analizzati da lui poi alla fin fine), che non solo li interpreta ma li piega ad una sua ontologia molto particolare. D'altro canto mi pare che (qui potrai darmi tu una tua impressione) Nietzsche sia di per sè imprescindibile da un certo grado di interpretazione speculativa, dato che gli aforismi in sè sono contraddittori. Per questo c'è un Nietzsche di Heidegger e c'è un Nietzsche di Deleuze, ma non c'è un Nietzsche dell'epochè insomma.
Io credo che Deleuze (o Foucault o Derrida) ancorchè traviando una certa componente del pensiero di Nietzsche lo abbia(no) capito come nessun altro, e sia l'unico vero continuatore delle sue problematiche.
Tornando alla questione del ritorno (premesso che per l'appunto si parla di una interpretazione):
Il differente è colui che "fa la differenza", cioè colui che di fronte al ritorno dell'uguale fa prevalere ancora la differenza. Io non credo ci sia contraddizione se non "formale" fra i due concetti. Fare la differenza è anche redimere il proprio passato perchè è la contro-effettuazione dell'amor fati (e del così volli che fosse), cioè il piegare la propria coerenza, il proprio io fisso, facendo proliferare le possibilità e la potenza. Ho qui tralasciato un importante concetto, quello del tempo Aiòn, che nella logica del senso è fondamentale e che forse ora può aiutarci a capire meglio.
Nel tempo aiòn, il tempo lineare infinito degli eventi, non c'è presente che non sia un attimo puntiforme (porta carraia) sempre suddiviso in passati e futuri. L'essenza dell'eterno ritorno non è la chiusura delle combinazioni temporali in un certo numero di casi che si ripetono (dilatando un presente all'infinito, eternizzando un divenire come dice H.) ma è la riduzione di ogni presente e presenza al puro attimo puntiforme, e di ogni effettuazione ad evento, di ogni dominio metafisico a potenza virtuale. Il ritorno evidentemente non è allora una questione cronologica/fisica/effettiva, è un modus vivendi, è "un'esistenza" così come lo indica lo stesso Heidegger nel suo Nietzsche. Solo nell'affermazione della differenza, cioè dell'evento problematico e irrisolto (silenzio dell'essere e tutto quello che vogliamo buttarci dentro), si potrà essere nel tempo Aiòn dell'eterno ritorno, cioè in quel tempo che ha fatto fuori ogni "presenza/ousia".
In altri termini più banali: se io riesco a sopportare l'eterno ritorno significa che sono riuscito a scardinare il tempo (come dice Shakespeare nell'Amleto), cioè a far fiorire differenze anche nel piattume più totale. Questo può essere fatto solo nella libertà più assoluta da ogni "cardine", cioè da ogni centro attorno qui qualcosa possa ruotare. Il primo cardine è l'io che si vuole eternizzare.
Non so se ho risposto, io non vedo la contraddizione (mentre la vedo nella lettura di Heidegger che ignora del tutto svariati passi dello Zarathustra e non tocca nemmeno con le pinze i Ditirambi di Dioniso) e addirittura vedo molte connessioni con la filosfia dell'ultimo Heidegger, col pensiero poetante e via dicendo.
Si si capisco molto bene cosa intendi, certamente per avere un ottica davvero completa è necessario in primis moltiplicare i punti di vista per tentare di trovare cosa possa trascendere l'interpretazione (o semplicemente formarne una più completa) e insieme sarebbe ideale anche approcciarsi sia filologicamente che speculativamente.
Purtroppo per questo bisogna essere professionisti e avere a disposizione molti testi! Ti posso assicurare che ho tentato di cercare il libro di D'Iorio che sembra molto interessante, anche in francese, e non è affatto facile da reperire! Certamente qui si parla più che altro di Deleuze ed Heidegger, e solo in riferimento a questi si può riferirsi all'ispirazione nietzschiana.
Quello che mi ha sempre incuriosito peraltro nell'ambito dell'ermeneutica di Nietzsche è quella sostanziale contraddizione (ad esempio lo Jaspers ne parla diffusamente con molti esempi in un suo saggio) che sembra convivere nei suoi scritti e che in qualche modo alimenta di continuo e mantiene vivo il suo pensiero (Deleuze parla di paradossi e contraddizioni come pathos della filosofia). Per esempio l'eterno ritorno -dell'uguale- si trova in una certa incompossibilità con il disprezzo per l'opera (in tutti i sensi, quello che Derrida chiama scrittura) come forma fissa. Io credo che sopravviva fino nel tardo Nietzsche per farla breve l'idea che qualcosa di apollineo debba coniugarsi col dionisiaco, eppure progressivamente questo apollineo scompare. Qui si creano dei dubbi che col riferimento dei soli testi nietzschiani non possono essere sciolti ed è perciò inafferrabile il "vero" Nietzsche (intendevo questo con epochè non tanto una velleità ermeneutica ideale) perchè lui stesso ha più facce. La speculazione entra in gioco qui, inevitabilmente staccandosi dal pensato storico per muoversi verso l'avvenire dei problemi sollevati.
Tornando alla questione Heidegger io non penso che sia oggi caduta la "necessità" di considerare le critiche di Heidegger. Il problema da speculativo ricade poi in tutti i campi (dell'etica e dell'estetica principalmente). Riprendo qui la contraddizione che ho segnalato nel paragrafo precedente: da una parte "la volontà di potenza come arte", cioè ancora uno sforzo eternizzante del soggetto che ha perso la verità e santifica il falso facendone una nuova certezza (di fatto H. legge così Nietzsche e non senza ragioni), dall'altra la dissoluzione del soggetto (autore dell'opera) quale si legge nello Zarathustra e in tutti gli ultimi scritti (per esempio il concetto dell'es denkt che ha una portata colossale e che Heidegger ignora del tutto).
Deleuze complica enormemente le cose perchè poi lui ha una sua idea della filosofia molto "pratica", da fabbro quasi, e crea un proliferare di concetti e di giurisprudenza filosofica interminabile, per cui si può anche lasciarlo da parte nelle sue peculiarità, mantenendo solo l'istanza problematica che ha presentato contro la riduzione heideggeriana di N. ad un metafisco.
Il problema ritorna alla fine alle solite questioni di questi topic: immanenza/trascendenza, soggetto?, apollineo ed opera d'arte?, il problema dell'essere ecc... queste mi pare siano questioni aperte in Nietzsche e che anche abbandonando la terminologia deleuziana si possono portare avanti "contro" Heidegger. Soprattutto considerando l'ultimo Nietzsche, quello che tende ai Ditirambi di Dioniso. Heidegger ha commesso un solo grande crimine: deproblematizzare Nietzsche.
In effetti io stesso avevo aperto il topic con l'intento di trovare i punti comuni fra i due (aggiungendo deleuze come ponte soltanto).
Si potrebbe dire di più ma ci vorrebbe davvero più studio e approfondimento.
Il rischio comunque di una lettura "metafisica" di Nietzsche non è così fantomatico. L'esperienza del forum per esempio è molto indicativa. I problemi come ho già detto sono quelli: soggetto ed opera d'arte, etica ed estetica. Recentemente era capitato di discutere riguardo alla poesia e al "dei poeti" per esempio.
Grazie della panoramica, io avevo cercato proprio "La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell'eterno ritorno in Nietzsche" con scarsissimo successo, magari ora vedo se reperisco online questo altro testo di Iorio che citavi.
Appena possibile poi tenterò di scovare qualche punto comune fra i due pensatori che danno nome al topic per riavviare la questione su binari più precisi. Se possibile!
Aggiungo in ritardo ma per completare il discorso che avevamo avviato con Nachtlied questo stralcio da "La logica del senso":
<<Nietzsche esplora un mondo di singolarità preindividuali e impersonali, mondo che ora egli chiama dionisiaco o della Volontà di Potenza, energia libera e non incatenata. Singolarità nomadi non più imprigionate nell'individualità fissa dell'Essere infinito (la famosa immutabilità di Dio), nè entro i limiti sedentari del soggetto finito (i famosi limiti della conoscenza). Qualcosa che non è né individuale né personale e che nondimeno è singolare, per nulla abisso indifferenziato, ma che però salta da una singolarità all'altra, che sempre emette un lancio di dadi, che fa parte di uno stesso lancio, sempre frammentato e riformato in ogni lancio. Macchina dionisiaca per produrre il senso e in cui il non senso e il senso non sono più in rapporto di opposizione semplice, ma compresenti l'uno con l'altro in un nuovo discorso. Ma questo nuovo discorso non è più quello della forma e nemmeno quello dell'informe: è piuttosto l'informale puro. "Sarete un mostro e sarete caos..." Nietzsche risponde: "Abbiamo realizzato questa profezia". Quanto al soggetto di questo nuovo discorso, non vi è invece più soggetto, non è l'uomo né Dio, ancor meno l'uomo al posto di Dio. E' questa singolarità libera, anonima e nomade che percorre sia gli uomini, sia le piante, sia gli animali indipendentemente dalle materie della loro individuazione e dalle forme della loro personalità; superuomo non vuol dire altro: il tipo superiore di tutto ciò che è. Strano discorso che dovrebbe rinnovare la filosofia e che tratta finalmente il senso non come predicato, come proprietà, bensì come evento.>>
Ecco credo che sia enormemente interessante, e torniamo così al topic e ad Heidegger, quella parolina finale: evento. In Heidegger l'evento rappresenta in qualche modo la temporalizzazione dell'essere o l'incontro fondamentale fra essere e tempo. Qui abbiamo un'ontologia sicuramente differente (le singolarità ecc...) ma con il medesimo punto focale: il senso-evento. D'altronde la domanda sul "senso" dell'essere percorre tutta la filosofia heideggeriana. Penso che su questi punti fondamentali si possa articolare un discorso: il tempo, l'essere e l'evento. Praticamente nessuna di queste è una parola nietzschiana, ma penso che ad ogni concetto si possano ricondurre degli equivalenti.
Per ora abbozzo soltanto delle idee.
Potrebbe essere semplicistico partire dalla soluzione più ovvia: "essere -> volontà di potenza" e "tempo -> eterno ritorno", e forse non è poi un approccio così fuori strada. Soprattutto nella volontà "di potenza" è connaturato un allontanamento definitivo dalla "presenza", cioè dalla statica di una volontà schopenhaueriana o dal falso divenire di un essere/spirito hegeliano. La volontà di potenza, se non è letta solo come dominio su enti (di fatto non ha "senso" così), è anche l'apertura prepotente al caso nell'abisso dionisiaco del non-senso che sola produce il senso. L'unico campo di trascendenza possibile (una trascendenza senza dubbio più heideggeriana che kantiana, una trascendenza mancata e del mancato).
Resta la questione dell'evento, e in questo caso mi sembra utile proprio la mediazione di Deleuze. Questo senso dionisiaco è similare all'evento heideggeriano che connette essere ed esserci, come il senso connette l'eterno ritorno (ovvero il tempo aion, il tempo dove soli sono possibili eventi e non presenti fisici) con la vdp. Tutto meriterebbe più attenzione e studio, per ora non potrei dire di più. Credo comunque che la questione sia interessante e cercherò di approfondirla.
Sicuramente è una lettura più che interessante e convincente; nel senso che fornisce un'ottima chiave di lettura per poter interpretare Nietzsche heideggerianamente, senza cadere necessariamente nella metafisica.
Il problema è sempre lo stesso, ovvero che questo non è il pensiero puramente nietzscheano, pur essendo forse un pensiero in grado di farci pensare 'più nietzscheanamente dello stesso Nietzsche'.
Tralasciando questa solita questione (sennò non ci si levano più le gambe...), non posso che concordare con quanto hai scritto, e rinnovo l'ivito a qualche utente con ampia competenza a riguardo ad intervenire.
Provo comunque a portare qualche ulteriore spunto anch'io, per quanto posso.
Una cosa che mi ha sempre incuriosito di Heidegger, in quanto simile e allo stesso tempo opposta a quella di N, è il rapporto con la Licht, che è per il primo connessa all'Essere (basti pensare alla Lichtung, appunto!). Penso soprattutto alle Erlauterungen zur Hoelderlin Philosophie e a A che Poeti? , in cui H si associa il buio, dato dalla mancanza dell'Essere, a quello poetato da Hoelderlin, dato dalla mancanza degli dei. Per N invece a ogni forma di religione o metafisica è sempre (anche nel suo periodo 'metafisico') associato il buio della notte, mentre ad ogni passo verso l'ateismo e la liberazione da ogni convinzione -appunto ombra di Dio- corrisponde un sempre maggiore grado di chiarezza e di luce.
Perciò, N appare in netto contrasto rispetto alla concordanza di Heidegger con Holderlin sul tema della mancanza degli dei, ma, considerando la vdp come l'Essere heideggeriano, non si può che vedere concordanza tra i due pensieri: nel momento in cui manca l'Essere, cioè la vdp non è libera e ci si incanala in una visione monoprospettica, si può facilmente cadere nella notte; notte che dura fino al momento in cui l'Essere ci richiama a sé, cioè si inizia a scoprire il superuomo...
Volevo aggiungere infine che quando ho debellato ogni tentativo di lettura metafisica di N non mi riferivo, ovviamente, a qualsiasi tipo di lettura in generale - sono ben cosciente che il testo, a causa dello stile e del linguaggio, può portare equivoci interpretativi tra i lettori - ma ad ogni lettura intelligente e ben ponderata, di chi possiede tutti gli strumenti adatti ad un simile lavoro.
Si lo spunto è importante, ma mi sentirei di proporlo con più profondità di analisi perchè è proprio dove volevo arrivare.
Cito sempre Heidegger in un passo fanstasioso ma notevole dai Contributi riguardo alla Licht:
<<Come trovare l'Essere? Dobbiamo forse, per trovare il fuoco, accenderne uno, o non dobbiamo piuttosto disporci prima a "proteggere la notte"? Ciò per resistere ai falsi giorni della quotidianità, i più falsi dei quali sono quelli che credono di conoscere e possedere anche la notte se la rischiarano e la eliminano con la loro luce riflessa.>>
A parte la bellezza del "proteggere la notte" (anche se filosoficamente è un po' poco cogente!!), mi sembra che si veda qui cosa intende Heidegger per buio e luce (cioè quanto dicevi tu). Il buio vero è paradossalmente l'illuminismo (su questo anche Derrida è esemplare contro l'umanesimo: "il nome dell'uomo è il nome di quell'essere che, attraverso la storia della metafisica e della onto-teologia, cioè attraverso l'intera sua storia, ha sognato la presenza piena, il fondamento rassicurante, l'origine e la fine del gioco") che sostituisce soltando il suo primo fondamento, Dio causa incausata motore immobile, con un altro più misero e pezzente (la ragione e la certezza cartesiana del cogito) senza di fatto generare alcuna luce autentica. Ovviamente l'idea heideggeriana è che l'unica luce autentica, l'Essere, può presentarsi solo da sè e mai "essere accesa".
Ecco perchè il fuoco della ragione che vuole illuminare per conoscere, così come il fuoco di una divinità onto-teologica, sarà sempre un fuoco negativo, un rischiarare falso che non fa che distruggere il mistero della notte. Nietzsche partendo da posizioni di stampo (in qualche modo) illuministico parte anche con questa idea di luce/buio inversa a quella di heidegger. Ma nello sviluppo del suo pensiero c'è invece un avvicinamento colossale. Si potrebbe qui inserire il discorso sulla mezzanotte e sul mezzogiorno per esempio. Da una parte la luce che toglie ogni ombra, che avevi in passato definito benissimo come perfezione metafisica con tanto di abbiocco di zarathustra, dall'altra la mezzanotte ebbra e profonda in cui si ambientano le pagine migliori dello Zarathustra. Cosa è cambiato? E' stato vissuto pienamente il nichilismo passato da passivo ad attivo (anche se sempre paradossalmente c'è molta più "attività" nell'accendere il fuoco, e qui andrebbe fatto un discorso sul potenziale e sul virtuale magari sempre con l'aiuto di Deleuze). Se non c'è nulla di decisivo (di valore intrinsecamente superiore) da illuminare, l'unico valore è il buio stesso, il suo mistero. Ecco come il dio di Nietzsche, Dioniso, e il dio di Holderlin si congiungono in un trascendentale mancato, in un dio che vive della sua assenza e della sua lontananza.
Cito allora una poesia di Holderlin (La vocazione del poeta, titolo non certo casuale!):
"ma l'uomo può dimorare senza paura solo davanti a Dio,
il suo candore lo protegge, non ha bisogno nè di armi nè di astuzie
fino a quando l'assenza di Dio viene in suo aiuto"
Sono versi straordinari, e in una versione precedente Holderlin aveva scritto proprio presenza anzichè assenza, con una ambiguità incredibilmente simile a quella di Nietzsche ed Heidegger (peraltro anche i primi due versi sono pienamente nietzschiani con la questione del candore dell'innocenza contro il Dio della morale).
Ricito Heidegger dai contributi per dare una stretta finale:
<<L'uomo in quanto lo "straniero" nel getto a sorte che egli sopporta fino in fondo,
che non torna più indietro dal fondo abissale e in questa condizione straniera
"conserva" la lontana vicinanza dell'Essere.>>
Cosa c'è allora di assolutamente comune (e rimando anche a Ruhm und Ewigkeit che ho citato nel primo post)?
C'è l'idea di un dio assolutamente detronizzato dal suo ruolo di giudice (pour en finir avec le jugement de dieu diceva Artaud) e perciò dall'ossessione della sua "presenza" e della sua onto-teologia, cioè dalla metafisica (che è sempre giudizio e ricerca della certezza o giustezza di giudizio, anche se solo con Kant questo si manifesta palesemente) in senso heideggeriano. Tutto questo c'è pienamente nell'ultimo Nietzsche, come in Holderlin, come in Heidegger, e c'è quindi un ritorno del divino (potremmo dire dionisiaco, del dio Dioniso) come distanza, come differance, come lontana-vicinanza dell'essere che non è più volontà tout court, ma è volontà di potenza (cioè qualcosa che non si deve attualizzare, che deve rimanere differito e differente come i poli di una batteria). Ecco allora un dio che non è garante di alcuna geometria, tanto che in primis non deve neanche essere presente. C'è una immanenza totale spinoziana (ancorchè in spinoza ad onor del vero c'è l'idea del terzo tipo di "conoscenza" che tradisce manie di possesso e illuminazione metafisica, ma c'è anche la formula più interessante di "amor dei intellectualis") così come c'è un campo di trascendenza del senso/evento che è sempre un trascendentale mancato, un gioco del senso-nonsenso, del vicino-lontano, dell'umano-divino. C'è la stessa apertura estrema della possibilità, come necessità dell'assenza di necessità, c'è la stessa idea del viandante straniero ovunque che non deve avere patria (come sarà orfano di un dio-padre), un Edipo a Colono che ha ucciso il padre sposato la madre (la terra) al massimo grado.
Chiudo con l'ennesima necessaria citazione dal grande Holderlin nella morte di Empedocle:
"E apertamente dedicai il cuore alla terra greve e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d’amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così, m’avvinsi ad essa di un vincolo mortale"
Potrebbe averlo scritto Nietzsche. La sofferenza, la sacralità della notte inviolata, la fatalità (che corrisponde alla massima apertura del possibile, come nell'amor fati degli stoici riletto da Deleuze), l'enigma mai spregiato e mai risolto, il vincolo mortale. Ecco una teologia negativa che ha superato se stessa, ecco un vero culto del buio e dell'assenza, ecco l'unico nichilismo attivo possibile e l'unico trionfo della potenza e della differenza. E' una "differenza ontologica"? Anche, se è prorpio il sottrarsi dell'Essere-Divino dall'ente a creare la distanza e l'apertura necessaria per la potenza e il senso-evento? Heidegger dice benissimo quando riconosce nella dimenticanza dell'essere l'essenza del nichilismo, e io non capisco come abbia potuto non vedere (o meglio vedere e tentare in ogni modo di eliminare) in Nietzsche il brillare di quel superamento verso la filosofia della differenza e della piena accettazione di questo sottrarsi.
Mi sono un po' dilungato in citazioni, ma questa è proprio una delle questioni che mi interessa di più!
Tutto quello che dici è correttissimo, ci sarebbe da citare anche un altro passo dai ditirambi bellissimo (fra due nulla / incurvato, / un segno interrogativo / uno stanco enigma).
Una cosa però non mi è chiarissima, la questione della luce e dell'illuminismo, e direi annessa la questione dell'apollineo di cui avevamo già discusso. Sicuramente si può creare una dicotomia fra buio-notte-dioniaco e luce-giorno-apollineo (non mi azzardo ad inserire anche differenza e ripetizione nel computo al momento) come sicuramente la spinta da "spirito libero" in Nietzsche è sempre stata fortissima ed è quanto lo ha portato a fare piazza pulita di tante cose (infine della ragione stessa come giudice del tribunale categorico kantiano). Ma c'è mi pare una ambiguità alla fine molto particolare di cui vorrei andare a fondo.
La luce del meriggio è la conoscenza perfetta, senza ombra, che però si traduce nel conoscere anche la vanità di ogni conoscenza fondante. Se l'eterno ritorno (ripetizione) è l'ultima forma dell'apollineo, è vero anche che a ritornare è la volontà di potenza (differenza), cioè il buio irrimediabile, il buco nero che non si potrà mai illuminare per quanto forte e a picco sia il sole. Allora la luce sarà un mezzo solo negativo, cioè solo un mezzo per "certificare" l'unica certezza: l'assenza di certezze, sotto metafora è come se la luce senza ombre servisse a mostrare per via negativa che quel buio che le sopravvive è essenziale. In altri termini l'eterno ritorno è l'unica conoscenza che non soffoca la differenza (e qui si gioca la battaglia con Heidegger, che lascia intendere il contrario) ma che anzi la afferma pienamente. Non esiste differenza senza ripetizione, come non esiste vero dionisiaco senza un apollineo che lo definisca negativamente.
Quello che conta allora non sarà nè il meriggio nè la mezzanotte in sè (cioè nè la luce nè il buio) ma quanto li accomuna: la totalità e univocità dell'essere. Certo qui mi spingo un po' oltre, ma quanto accomuna l'equilibrio (per così dire) di VdP-ER, differenza e ripetizione, apollineo e dionisiaco, non può che essere un Essere univoco, cioè una notte piena o un giorno pieno, tutto è luce o tutto è ombra, è indifferente. Per questo la questione ontologica è poi sottesa a tutti questi pensatori come domanda, anche quando sentiamo Nietzsche paralre dell'essere come "ultimo fumo della realtà evaporata", possiamo cogliere come la differenza stia solo nelle parole. Non c'è "differenza ontologica" in Nietzsche negli stessi termini di heidegger, come non c'è in Deleuze, dove però c'è una "ontologia della differenza". Ma c'è in tutti e tre (più Holderlin, più a voler essere semplificatori Spinoza) l'intuizione del problema dell'essere e della sua totale inaccessibilità a partire dal simile, cioè da noi stessi e dall'ente, perchè ogni luce illumina solo un buio e una differenza irriducibile, e l'ergersi conseguente del culto di questa oscurità essenziale (chiamalo Essere o no) che deve rimanere tale, non sporcata da chiaroscuri assurdi che sono la vera minaccia al silenzio. Anche questa è una differenza ontologica, anche se i termini sono altri, anche quando paradossalmente si va al monismo e all'immanenza dove la differenza sembrebbe perdersi (mentre è solo là che essa può esercitare tutta la sua potenza).
Concordo con te allora che Heidegger abbia voluto a tutti i costi non riconoscere in Nietzsche la sua stessa originalità, ma bisogna anche dire che già quando noi ora accomuniamo i due pensatori facciamo anche un torto a tutta una scuola di interpretazione nietzschiana. Insomma io credo che Nietzsche sia un problema aperto, d'altronde è per questo che è così interessante. Se leggiamo nietzsche heideggerianamente (o viceversa, non è importante ora chi sia stato il primo) alcuni aforismi sono del tutto inaccettabili. E' questo problema che andrebbe portato a fondo.
Lo stesso Heidegger non sarebbe stato così bambino da negare l'evidenza per pura mania di originalità, e infatti questa evidenza non è poi così forte come l'abbiamo forse un po' semplicisticamente rappresentata qui. Anche perchè poi qua non siamo più nel campo dove si possa dire "ha ragione" e "ha torto", fuor dai tribunali di ogni genere tutto si com-plica estremamente.
Beh come dicevo tutti questi ultimi topic che avevo aperto riguardano questo problema interpretativo.
In poche parole è importante cominciare a liberare Nietzsche dalla lettura metafisica di Heidegger, e poi tentare di capire la tensione che caratterizza il suo ultimo periodo e che evidentemente non è la stessa in tutto il suo percorso filosofico.
Soprattutto usare questi altri pensatori (Deleuze, Heidegger) per strappare Nietzsche dallo squallore della lettura standard che riceve. Per esempio la vexata quaestio sulla religione, sul nazismo, sul dominio, sull'arte. Non c'è traccia di tutte queste cose nell'ultimissimo Nietzsche, nelle migliori pagine dello Zarathustra e nei Ditirambi, perchè tutto si è trasfigurato in un'ottica molto più radicale (per l'appunto quella del mezzogiorno o della mezzanotte) che va in parallelo con quel quasi-misticismo a cui approdano l'ultimo Heidegger o l'ultimo Holderlin. Il pensiero poetante ne è il segno.
In altri termini si tratta più che altro di far pulizia all'interno del "nietzschianesimo" stesso in fin dei conti, col rigore che lui stesso ha insegnato e che ha portato il suo pensiero ad un'essenzialità inimitabile. Esempi ce ne sarebbero tanti: dall'ateismo squallido stirneriano al sensazionalismo del poeta gravido wagneriano, tutte ambiguità con cui Nietzsche ha più o meno combattutto nelle ultime fasi del suo pensiero. Sono degli equilibri molto sottili.
Aggiungo alla dissertazione precedente una cosa che ho trovato sempre in Deleuze (sono un po' monotematico!) e che riprende la questione della mezzanotte-mezzogiorno proprio in relazione al lancio unico di dadi.
Come nel lancio (unico, puro, monistico, immanente, ecc...) ci sono i due momenti del getto e dell'atterraggio, così ci sono i due momenti rispettivamente della mezzanotte e del mezzogiorno, cioè il massimo "azzardo" (caso, buio/ignoranza, dionisiaco, divenire e differenza) e la certezza fatale del risultato (necessità, luce apollinea, essere e ripetizione). L'equilibrio fra i due momenti è solo nell'unicità del lancio, perchè qualora il lancio si ripetesse si perderebbe l'innocenza dell'affermazione contemporanea del caso (durante il getto) e della necessità (a risultato rivelato).
Dice Deleuze: "... uno soltanto è il numero fatale che riunisce tutti i frammenti del caso, così come il mezzogiorno raccoglie tutte le membra sparse della mezzanotte. Per produrre il numero che fa ritornare il colpo di dadi, è sufficiente quindi che il giocatore affermi il caso una sola volta."
Volontà di Potenza ed Eterno Ritorno si collocano egualmente in questi due momenti, accomunati da quel lancio unico che confuta proprio sul piano ontologico tutte le critiche heideggeriane. Il giocatore metafisico non potrebbe mai accettare un solo lancio, perchè il soggetto "cartesiano" è troppo rigido per mantenersi nell'aperto della gettatezza del lancio. Heidegger vede l'eterno ritorno praticamente come il ripetersi dei lanci, grazie ai quali l'essere si va ad imprimere sul divenire e le probabilità casuali si stabilizzano quasi statisticamente per essere poi com-prese dal soggetto, ma in Nietzsche non c'è ripetizione del lancio, c'è ripetizione solo del risultato già ottenuto da-per-sempre (fato-necessità) e il giocatore innocente deve per prima cosa dimenticare se stesso e la sua volontà, che può rimanere solo come volontà di potenza (cioè sospesa nel lancio e nel proliferare delle possibilità-potenzialità).
PS: da qui poi è facile ricollegarsi col discorso di partenza sul "rovesciamento del platonismo". Il lancio unico è quando distingue il mondo dei "simulacri" da quello platonico dei modelli-copie, l'eterno ritorno che si mantiene in questa immanenza non può quindi essere "dell'uguale" (come lo legge Heidegger, come semplice ribaltamente dell'ordine platonico senza superamento dei dualismi e quindi senza superamento del nichilismo) ma sarà del "differente", cioè di ciò che fa la differenza, cioè del getto di dadi nella sua sospensione.
Aggiungo carne al fuoco...
In Essere e Tempo, Heidegger dice alcune cose molto interessanti (in quanto enormemente nietzschiane) riguardo all’essere-per-la-morte e alla temporalità. Penso che il nucleo di questi pensieri rimanga di fatto quasi inalterato anche dopo la svolta.
Mi riferisco soprattutto all’idea che l’Esserci (esistenza) è sempre un mancare (in senso esistenziale e non di “semplice presenza”) rispetto al poter-essere, ovvero è sempre un avere ancora da vivere delle possibilità, infatti l’esaurirsi di esse è solo la morte. Anticipare con la “decisione” la morte è quanto renderebbe autentico l’esistere, proprio perché ci libera in un poter-essere totale e incondizionato. Cosa c’è di nietzsche? Andiamo più a fondo: si legge “la decisione costituisce la fedeltà dell’esistenza” e ancora “l’esserci, anticipando la morte, la erige a padrona di sé, allora, libero per essa, si compende nella ultrapotenza della sua libertà finita e in questa, che consiste sempre nell’aver scelto la scelta”. Il riferimento all’angosciosa scelta dell’eterno ritorno nietzschiano si fa ancora più evidente quando Heidegger parla di “ripetizione” della decisione non solo come scelta della scelta, ma proprio come “rispetto per le possibilità ripetibili dell’esistenza”.
Faccio un passo oltre. Cosa caratterizza la “decisione”, e soprattutto, come la si distingue dalle tante decisioni quotidiane e del tutto inautentiche?
Heidegger mette in chiaro come la decisione autentica sia l’esatto opposto di un decidersi specifico riguardo ad una certa azione, tipica espressione della Cura intramondana. Quel che si decide qui, anticipando la morte, è l’anticipazione di “ogni attimo possibile”, ovvero proprio la “libertà per la rinuncia a questo o a quel determinato decidersi”. Come l’accettazione dell’eterno ritorno (di tutto il pacchetto, senza scelte determinate) era l’anello nuziale per sposare la terra, così la decisione anticipante afferma certamente la scelta della scelta (cioè l’accettazione, il non subire passivamente inautentico), senza affermare nessuna scelta particolare (scongiurando la deiezione nel quotidiano), per sposare il Se Stesso autentico che è l’essere-nel-mondo. Evidentemente l’altra radice comune è quella fondamentale della vita come volontà di potenza che si traduce credo in modo molto simile nel linguaggio heideggeriano nel termine “poter-essere” (seinkoennen) a cui accennavo all’inizio. L’esistenza (cioè il mondo, cioè tutto) è sempre l’aprirsi di una possibilità, di una potenza, “l’essere si predica solo del divenire (differenza)” diceva Deleuze nel suo libro su Nietzsche, che è lo stesso. L’eterno ritorno accettato (Decisione-Entschlossenheit) si coniuga perfettamente con la questione vitale del poter-essere in quanto come detto ampiamente sopra non esaurisce mai sé stesso in una decisione particolare, in un volere specifico e neutralizzabile/realizzabile, ma si mantiene sempre in un tempo disarticolato, in un attimo eterno che in cui tutte le possibilità restano sempre incondizionatamente aperte.
Approfitto dello sviluppo per saldare il tutto quindi anche con Deleuze. Si è parlato di “differenza” e di “ripetizione”, la cosa non è poi difficile dunque. Il ponte più comodo è il concetto di tempo Aiòn (il tempo dell’eterno ritorno autentico, angoscioso, e non della canzone da organetto) così come Deleuze lo descive nella Logica del Senso: un attimo senza spessore, un presente sempre diviso (in divenire folle) fra passato e futuro, l’incubo di Platone come è presentato nel Sofista. In questo ambito credo che si possa seriamente scagionare Nietzsche dalle critiche di Heidegger usando Heidegger stesso (poi certamente la cosa è ben più complessa di così, e sarei felicissimo di approfondirla in futuro). Il problema della differenza (ontologica) insomma è fondamentale, e il fatto che a ritornare sia “il differente” come dice Deleuze è proprio la chiave di volta. In Essere e Tempo la “metafisica” (di cui poi viene sostanzialmente “accusato” Nietzsche) è collegata strettamente con il problema della “semplice-presenza” (in termini temporali è proprio la differenza fra il tempo chronos dei presenti spessi che si incastrano e tempo Aiòn degli eventi che si sprigionano nella pura possibilità). Ritengo che il pregio della lettura deleuziana sia tutto nello strappare la differenza e il divenire all’apparente tirannia dell’eterno ritorno come trionfo della presenza/ousia sullo scorrere diveniente.
Mi pare che il concetto di Ereignis (evento appropriante ecc...) che ho tentato di approfondire ultimamente porti ulteriore interesse al confronto. Lo stimolo è venuto ancora da Derrida che in "Sproni" vede in questa svolta del pensiero heideggeriano (cioè il passaggio dall'analisi dell'essere e dell'esserci ad un pensiero rivolto a quell'Es che rende possibile l'appropriazione di Essere e Tempo nell'Es gibt Sein, Es gibt Zeit, e sorgente del Medesimo) una connessione forte con il problema affine in Nietzsche (dove evidentemente l'appropriazione/espropriazione viene letta sotto i segni della VdP e dell'Eterno Ritorno).
La panoramica generale del problema dell'Eigen (proprio) e le due ottiche (Nietzsche-Heidegger) si possono quindi mettere in relazione con un problema che Derrida in "La scrittura e la differenza" definisce come il passaggio "da un economia ristretta ad una generale", riprendendo Bataille ed Hegel. In altri termini e per ricollegarci a quanto detto sopra è la questione della differenza (contraltare inevitabile del "proprio") o per meglio dire della differanza, di come una volontà/pulsione viene differita nel tempo e nella possibilità per andare "aldilà del principio di piacere". Evidentemente nella logica dialettica (e più in generale in tutta la storia della metafisica così come l'ha delineata Heidegger, cioè come affermarsi della verità-adequatio e del soggetto come fondamento certo) ogni differenza e alienazione andrà ad essere riappropriata dal tutto intero, certamente aldilà quindi del Lustprinzip, verso il principio di realtà (tutto il reale è razionale, anche se suona poco freudiano!). Lo scoglio di questa economia ristretta è l'istinto di morte già evocato dall'oppositore Schopenhauer, non a caso, attraverso Kierkegaard, nel primo tentativo di ridefinizione dell'autenticità (Eigenheit, il proprio) Heidegger ricorre all'essere-per-la-morte, e Nietzsche all'eterno ritorno.
Si ripresenta allora la solita questione: se l'eterno ritorno è un ritorno dell'uguale in senso metafisico, e un trionfo senza riserve del necessario sul possibile, allora scomparirà totalmente l'Aut-aut kierkegaardiano dalla tremenda domanda del demone dell'aforisma 341 nella Gaia Scienza. Ma se, come peraltro è evidente dal testo nietzschiano, l'eterno ritorno si cinge nell'attimo e ha senso solo come potenziamento della decisione stessa, allora davvero non si capisce come Heidegger possa aver travisato tanto Nietzsche. La decisione (anticipatrice) che chiama qui presenta proprio la natura dell'Ereignis, direi in una duplice e parallela maniera.
Da una parte (dalla parte dell'Essere) ritroviamo tanto l'appropriazione quanto l'espropriazione, tanto l'estrema possibilità autentica (eigene) di portare una scelta al massimo grado quanto la destinazione essenziale che frustra ogni scelta determinata, l'equilibrio monistico quindi (come monistico è l'Ereignis) dell'amor fati fra attivo/passivo, possibile/necessario, essere/divenire, pensiero/natura, soggetto/oggetto, differenza/ripetizione e via dicendo.
Dall'altra (dalla parte del Tempo) possiamo rileggere lo stesso monismo ontologico nel concetto di tempo Aiòn, tempo dell'eterno ritorno in cui si danno solo "Eventi", cioè possibilità pure e necessarie, così come Deleuze lo plasma a partire dagli Stoici.
Richiudo il tutto: la citata "economia generale" che oltrepassa il soggetto, la metafisica, lo scopo, il warum, la verità, la scienza, il metodo, la tecnica... passa attraverso il superamento del meccanismo dialettico e dei dualismi trascendentali vari, fra cui eminentemente il soggetto-oggetto (che come tali non possono uscire da una logica di economia ristretta), verso un rapporto monistico immanente tremendamente indefinibile fra due "opposti", quale è l'Ereignis in Tempo ed Essere. Penso che una buona comprensione di questo equilibrio sottile sia la nozione di "problema", che vale tanto in Heidegger (la famosa Seynsfrage è forse l'essenza dell'Ereignis, di ciò che si dà da pensare, das zu Denkende) quanto soprattutto in Deleuze, dove problema è infatti sinonimo di evento poichè sono il luogo dove si forma il Senso. In particolare un "problema" è qualcosa che ammette varie possibili soluzioni mantendole unite in una domanda che fa da criterio per rendere plausibili le risposte (per questo dicevo in un post prima che c'è un campo trascendentale del problema, che pure è immanente in quanto la possibilità non è ratio essendi o ratio conoscendi ma solo una forma di legame con la necessità problematica che la fa scaturire e conferisce il senso), ecco mi pare che nella rappresentazione di un celebre problema della matematica, quello delle coniche, si abbia un'espressione di tutto il concetto. Sostanzialmente l'idea è che una certa necessità si declina in possibilità senza che nessuno dei due "modi" prevalga: c'è la necessità della possibilità, dell'aperto, del vivente, del domandare (forse non per caso il cono è anche il simbolo del "punto di vista" leibniziano, della monade, ma su questo il discorso si allargherebbe e non penso sia questa la sede). E' insomma un trionfo della "Differenza" (non opposizionale, non dialettica, non trascentale), di una ontologia della differenza o di una differenza ontologica, in quanto "l'essere si predica solo della differenza" (in entrambi i sensi di questa frase, cioè che solo ciò che differisce può darsi come essente, e d'altra parte che l'essere si pensa solo in via differenziale, attraverso un nascondimento - aletheia e Lichtung).